Suoni, colori e medaglie dalla pista: lo sport più veloce del mondo.
Il corridore che si cimenta nel ciclismo su pista assume le sembianze di un fantino impazzito spinto da una qualche forza misteriosa. Non frena e non smette mai di pedalare; si lancia dalla balaustra in sella al suo ronzino di carbonio sfidando la gravità, sibilando l’aria, schivando come privo di una coscienza i suoi avversari.
Il ciclismo su pista è un insieme di colori e di rumori; è frastuono e urla. È come una poesia grossolana, un po’ azzardata, ma non è un best seller da supermercato. È odore di parquet, è ginocchia sbucciate. È sfida al mondo e alla fisica. È potenza sprigionata da trapezi e polpacci. Il ciclismo su pista è arte, è come quando il circo arriva in città.
A inizio 2018 ad Apeldoorn, nel cuore dei Paesi Bassi olandesi, culla sempre in movimento delle due ruote, si è svolta l’edizione numero centoquindici dei Mondiali di Ciclismo su Pista. Artisti della velocità travestiti d’arancione hanno dominato il medagliere, fatto raro nonostante la nazionale neerlandese sia da sempre un punto di riferimento quando si parla di bicicletta in ogni sua forma.
L’assenza di una grossa fetta della nazionale australiana ha poi aperto le porte a differenti letture in quello che è stato il verdetto finale del penultimo mondiale su pista prima dell’evento fondamentale del quadriennio: i Giochi Olimpici di Tokyo. La nazionale italiana, una volta baluardo nel fantascientifico turbinio della pista, dopo aver passato negli anni duemila momenti tragici in cui non solo si faticava a raccogliere un piazzamento, ma in molte gare nemmeno si trovava un ragazzo o una ragazza da iscrivere alle corse, fa la voce grossa nelle gare endurance con un bottino da grande della specialità, lanciando a medaglia una manciata di giovani dalle gambe veloci, autorevoli e astuti come felini nella savana.

La potenza del giovane Filippo Ganna, un nome che racconta la storia del ciclismo italiano, si sprigiona lungo i quattro chilometri della prova dell’inseguimento afferrando una medaglia d’oro, unica e preziosa come il talento che gli è stato donato. Il ventiduenne di Verbania scandisce il tempo, abbatte i record italiani della specialità (quello mondiale è stato un tempo inarrivabile per tutti per diversi anni e stabilito nel 2011 da un diamante della pista come Jack Bobridge, battuto solo pochi mesi fa dal baffuto Ashton Lambie) ed è già eterno. Succede a una tradizione di folgoranti pedalatori, da Fausto Coppi del quale, come uno studente di matematica, ne imita la sequenza (oro, argento, oro), passando per Bevilacqua, Messina e Faggin, fino a Francesco Moser, ultimo prima di Ganna capace di far risuonare l’inno sul podio mondiale di questa specialità. C’è un grosso rammarico: l’UCI qualche anno fa ha svenduto alcune discipline per permetterne l’inserimento di altre. A farne le spese l’inseguimento individuale, che ha saputo regalarci ad Atlanta ’96 un indimenticabile titolo grazie ad Andrea Collinelli e che dunque non sarà nel programma olimpico di Tokyo 2020.
Michele Scartezzini, catapultato nel tappare il buco dello Scratch, con la sua medaglia d’argento ricorda a tutti come il ciclismo premia anche mediani di lusso e faticatori. Lui, spesso quarto uomo dell’inseguimento a squadre e talvolta riserva, si inventerà un numero da stradista di qualità, andando a conquistare con furbizia e fantasia il suo meritato metallo.
E poi ci sono quattro medaglie di bronzo, dense di significato, conquistate da ragazzi e da ragazze che fanno mulinare gambe scoppiettanti come pistoni.
Letizia Paternoster è una classe ’99 con occhi vivi come tizzoni ardenti; nel giro di qualche anno potrebbe prendere per mano tutto il movimento ciclistico italiano e farlo diventare celebre e popolare, magari sulla bocca di tutti, come Deborah Compagnoni fece con lo sci alpino o Stefania Belmondo con lo sci di fondo: ha appena diciannove anni, brilla di talento e ha una schiena già tarata ai grandi successi e con un divenire ancora tutto da scoprire. Prima conquista il bronzo nell’inseguimento femminile a squadre (con Valsecchi, Guderzo e l’altra enfant prodige dell’italico pedale: Elisa Balsamo), medaglia storica per l’Italia femminile. Poi raddoppia con una gara fatta tutta di fosforo e classe in coabitazione con Maria Giulia Confalonieri, nella Americana a coppie, corsa a punti detta anche Madison (il perché è semplice, si disputava al Madison Squadre Garden di New York).

I lapislazzuli nostrani brillano ancora nell’inseguimento maschile a squadre, questa sì prova che vedremo nella manifestazione a cinque cerchi in Giappone, con un bronzo che lascia l’amaro in bocca ad una squadra che in contumacia dell’Australia si sarebbe voluta giocare l’oro in finale con la Gran Bretagna. Battuti in semifinale per pochissimo da una strepitosa Danimarca, il bronzo lascia il quartetto azzurro insoddisfatto a testimonianza della voglia che spinge stradisti di livello assoluto come Consonni e Ganna a puntare su questa corsa.
Simone Consonni ottiene finalmente a livello individuale la tanto inseguita medaglia nell’Omnium, dopo il quarto posto beffa di un anno fa ad Hong Kong. Arriva un bronzo che per lui segna la definitiva raccolta del testimone di quello che è il suo mentore: Elia Viviani, oro olimpico due anni fa a Rio in questa stessa prova.
Pochi mesi dopo continuano nell’Europeo di Glasgow le prove generali del ciclismo verso Tokyo 2020: ancora azzurri protagonisti, ancora in veste di inseguitori, abili nelle prove multiple, dotati di sprint e resistenti, con la novità dei primi risultati nella velocità – specialità tutta muscoli e nella quale l’Italia non esprime atleti di alto livello – e che mette in luce finalmente Miriam Vece, nome più poetico delle prove a cui partecipa.
Il ciclismo su pista non è solo celebrazione di medaglie e movimenti ciclistici: tra i suoi molteplici colori, il suono dello start e le campanelle dell’ultimo giro è capace di donare al mondo – oltre a corse di derivazione americane – concorsi come il keirin. Nato nel paese del sol levante e citato da Takeshi Kitano nella pellicola ”L’estate di Kikujiro“, il Keirin è una corsa, pazza, veloce, che si snoda per i primi giri dietro una particolare motocicletta – detta derny – che si scansa a due giri dal termine e che si conclude con una furibonda volata tra titani in calzamaglia.
La pista è un arte figurativa con velleità pedagogiche: crea prototipi pronti per essere messi su strada, pronti a vincere e a destreggiarsi sull’asfalto. È il caso negli anni di Viviani, Cavendish, Gaviria, Thomas, Wiggins o di Cameron Meyer, talento aussie che nella corsa a punti di Apeldoorn irride gli avversari.
La pista è un linguaggio in movimento capace anche di coniare termini come seigiornisti: una particolare kermesse disputata a coppie che si svolge lungo l’arco di sei giorni. In Italia aveva un seguito incredibile e due tra i massimi esponenti sono stati Silvio Martinello, ora voce RAI del ciclismo, e Marco Villa, ora tecnico della nazionale che insieme a Dino Salvoldi è uno degli artefici del rinascimento a tinte azzurre che tanto ha fatto divertire e sognare nel mondiale olandese. La seigiorni era una festa che anche in Italia attirava pubblico, emozionava, riempiva i velodromi, narrava storie, esprimeva cultura. Salì al rango di mito quella del Vigorelli di Milano.
La pista è un elemento della nostra esistenza; come innamorarsi in gita, come assistere alla prima di un film tanto atteso, è quel fischio nelle orecchie che ti accompagna dopo una festa, è come osservare l’alba fondersi col cielo dal grigio metallico del mare. È il risveglio madido da un sogno vivido, fatto così, su due ruote.
(immagine copertina “Dinamismo di un ciclista” opera di Umberto Boccioni – Peggy Guggenheim Collection, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38418936)