Nonostante la conclusione della sua carriera, Emanuele Dotto ama ancora il giornalismo.
Gli ultimi momenti dell’avventura radiofonica di Emanuele Dotto sono in un video che dura all’incirca un paio di minuti. È il 2 giugno 2019: Richard Carapaz ha vinto il Giro d’Italia, Chad Haga la cronometro conclusiva all’Arena di Verona. Nella cabina della Rai non piange nessuno, ma finiscono per commuoversi tutti: Emanuele Dotto per primo, nel ringraziare tutte quelle persone che in quel momento riesce a ringraziare; si commuove Massimo Ghirotto, seduto alle sue spalle; e si commuove anche Silvio Martinello, che ha accompagnato Emanuele Dotto nell’ultima tappa della sua carriera radiofonica in Rai. Ecco, quel che vuole provare a fare quest’intervista è espandere al massimo i due minuti scarsi del video e capirne alcuni tratti salienti: da dove nascono, ad esempio, la pacatezza e la leggerezza con le quali Emanuele Dotto si congeda dall’attività di una vita; chi è stato Emanuele Dotto, allora, il cui addio ha fatto emozionare, tra le altre, anche due voci esperte e navigate come quelle di Martinello e Ghirotto.
Allora Emanuele, partirei dagli inizi: come si è appassionato al giornalismo e allo sport?
Da quando ho memoria, sono sempre stato appassionato dell’uno e dell’altro. Tant’è che in prima elementare, in un tema che doveva spiegare cosa avrei voluto fare da grande, scrissi di voler diventare un telecronista. E l’attività non mi è mai pesata, anzi: l’ho sempre fatta volentieri, avendo avuto le idee chiare fin da subito. Tuttavia, devo molto anche alla mia famiglia. Mio padre, con largo anticipo, capì che la televisione instupidisce e infatti in casa nostra non c’era nemmeno. In compenso, leggevamo molto e ascoltavamo tanta radio. Si ascoltava di tutto: il teatro, la musica, Il gambero di Enzo Tortora, il Gran Varietà con Gino Bramieri; ricordo addirittura qualcosa anche di Eduardo De Filippo. Sicuramente aver frequentato il classico ha contribuito: già allora scrivevo articoli brevi sullo sport di provincia e sui cosiddetti “sport minori”. Diventare un giornalista è sempre stato il mio sogno. L’altro sarebbe stato quello di trasferirmi in Russia e studiare la lingua, così da poter leggere i classici in lingua originale.
A proposito di letture, Emanuele: lei si è laureato in Storia Medievale ed è un grandissimo appassionato e conoscitore di arte. Quanto ha contato una formazione del genere nel corso della sua carriera?
Molto, credo. Sia per me come persona, che per il mestiere che ho fatto: se avessi letto meno, o se avessi visto qualche museo in meno, non avrei raccontato lo sport nella stessa maniera. Qualcuno potrà scambiarmi per pazzo, ma il giorno della finale tra Italia e Brasile ai Mondiali del 1994 io non ero allo stadio, a Pasadena: preferii affittare una macchina e andare a vedere I bari di Caravaggio a Fort Worth, Dallas. Ovviamente quel giorno non dovevo lavorare, però allo stadio sarei potuto andare senza problemi. Molto semplicemente, non mi sembrava la priorità: di partite e di finali ce ne sono tante, mi dissi, mentre di quadri di Caravaggio ce ne sono pochi e in più, almeno in quel caso, si parlava di un museo estremamente distante dall’Italia. Non so se l’occasione si sarebbe ripresentata, dovevo approfittarne. Non mi sono mai pentito di quella scelta. So benissimo, invece, che molti colleghi girano il mondo passando da una piscina ad una sauna, da una palestra ad un palazzo dello sport. Ecco, una certa libertà di manovra che ti concede il giornalismo ho sempre preferito sfruttarla in altro modo.
A patto che non diventi pedanteria, ovviamente.
Certo, questo è fondamentale. Non si può e non si deve sapere tutto: oltre che impossibile, non è nemmeno necessario. Così come non è necessario essere appassionati di arte. Tuttavia, continuo a credere che la cultura in senso ampio dia un’apertura mentale diversa. Che ne so, basterebbe rileggere I Viceré di De Roberto o I Promessi Sposi di Manzoni. Dal mio punto di vista, se vai in Belgio per le classiche di ciclismo e non ti concedi qualche ora per visitare il museo di Van Gogh o chi so io, per me ti manca qualcosa. Faccio questo esempio personale che mi è sempre rimasto impresso: perché, mi chiedevo anni fa, l’arbitro Morganti si chiama Emidio? Un nome strano, mai sentito. Curiosando, venni a sapere che Morganti era nato ad Ascoli Piceno e Sant’Emidio è proprio il santo patrono di Ascoli Piceno. A volte si tratta di banalità, come si può vedere, ma sono banalità che aiutano e che non fanno male.
Qual è la situazione odierna, Emanuele? So già la risposta, ma voglio sentirla da lei.
Preoccupante, mi pare. Rispetto ai miei tempi, diciamo rispetto a qualche decennio fa, c’è stato un poderoso arretramento culturale e civile. Una delle cause credo sia da ricercare nella lettura: oggi si legge poco, spesso libri di poco valore; e in certi casi non si legge proprio, nemmeno Tex Willer. Almeno nel breve termine, la situazione non cambierà. La tendenza continuerà ad essere questa anche perché a molti fa comodo. Che ci sia stato un impoverimento generale è lampante: siamo passati da De Gasperi e Togliatti a Di Maio e Salvini, e comunque qualche politico decente era in attività anche negli anni ottanta e novanta. Dovrà pur essere successo qualcosa, no? Il tempo che fino a pochi anni fa veniva dedicato perlopiù alla lettura e alla riflessione, oggi è occupato quasi interamente dalla tecnologia. Dico i cellulari tanto per semplificare, ma non sono i soli strumenti ad aver preso il nostro tempo; noi, peraltro, non ci siamo opposti. E col cellulare si legge raramente: si gioca e si ascolta la musica, invece; nella migliore delle ipotesi si risponde a qualche messaggio importante o si chiama qualche caro. Non m’invento nulla, basta viaggiare in treno di tanto in tanto per rendersene conto. Una volta, la lettura e l’ascolto erano due piaceri; oggi, al contrario, sembrano dei doveri, quasi dei fastidi. Dico io, conosci qualcuno che legge ancora delle poesie?
In tutto questo, e lo dico con dispiacere e rispetto della situazione allo stesso tempo, il mondo dell’istruzione avrà le sue colpe e le sue responsabilità.
Altroché se ne hanno. Ho sempre creduto che, a lungo andare, istituzioni come la scuola e l’università avrebbero risentito dei tarli del ’68: il sei politico, studia uno per tutti, l’abbassamento degli standard qualitativi. Da questo punto di vista, penso che la questione abbia iniziato a scappar di mano già negli anni settanta. Essendo nato nel ’52, credo di poter dire che il mio percorso scolastico non ne abbia risentito. Ricordo nitidamente quant’erano esigenti i miei professori al liceo: passavo giornate sui libri, ma quante cose ho imparato. E poi, se uno non era particolarmente bravo o portato per lo studio, andava a lavorare o a fare l’operaio. La strada era più tortuosa, il percorso più selettivo, la soglia del merito più alta. Oggi sono saltate tante, troppe, barriere. Guarda gli insegnanti: non riescono ad interessare i ragazzi, non hanno la passione necessaria per l’insegnamento, hanno poco carattere; in più, vengono pagati poco. Un tempo, il maestro era uno dei cardini della società: esigeva rispetto, sapeva guadagnarselo e noi gliene portavamo molto. Oggi agli insegnanti danno le botte e le persone hanno confuso l’autorità con l’autoritarismo: genitori compresi, che forse si lamentano un po’ troppo di tutto. Mi è capitato di far parte di alcune commissioni dell’esame per diventare giornalisti professionisti. Praticamente lo specchio della scuola, ho sentito delle mostruosità che non nemmeno immagini: gente che voleva occuparsi di politica e società e non conosceva Che Guevara, Trotsky, Giolitti, le repubbliche marinare, le date decisive della Prima Guerra Mondiale.
E tutto questo come si è ripercosso sul giornalismo sportivo italiano?
La risposta è sotto gli occhi di tutti: il becero, l’urlo e il sensazionalismo sono diventati la norma. In generale, tra la nascita delle televisioni private e l’avvento di Internet, credo che l’accesso alla professione si sia liberalizzato un po’ troppo. A risentirne è stata la qualità, si capisce. Non guardo mai la cosiddetta “pay-tv” per il semplice fatto che non sono mai diventato loro cliente, ma mi par di capire che la tendenza sia quella che ho riassunto poc’anzi. Di realtà buone ce ne sono poche, mentre quelle sgangherate e approssimative non mancano. Faccio l’esempio di Francesco Repice, che conosco bene: secondo me è bravo, ma si esalta troppo facilmente; si tratta pur sempre di una partita di pallone, non dell’esplosione della spagnola che tra il 1918 e il 1920 uccise milioni di persone. Il valore della cultura e della lettura si è dissipato. Oggi, giornalisti come Brera e Arpino farebbero fatica a lavorare. Prima di tutto, lo farebbero controvoglia; secondo, verrebbe continuamente chiesto loro di accorciare i pezzi perché troppo lunghi. Mancano i maestri e i riferimenti, tanto sportivi quanto culturali.
Quali erano i suoi, Emanuele?
Da un punto di vista strettamente giornalistico, non ho dubbi: Indro Montanelli. Arrivai a il Giornale nel 1980 dopo aver scritto per qualche anno per il Corriere Mercantile, un quotidiano della sera. Insieme a Montanelli, insomma, c’ho lavorato; mi ha assunto non appena diventai professionista. Ero alla redazione di Genova e ricordo che erano anni belli ma complessi: gli anni di piombo, praticamente, e le Brigate Rosse spararono anche a Montanelli. E poi non posso non citare Guglielmo Moretti, l’ideatore di Tutto il calcio minuto per minuto, e Ciotti, Ferretti, Ameri; ho un dolce ricordo anche di Roberto Bortoluzzi, una cara persona, di una umanità disarmante. Quella redazione è stata la sintesi perfetta tra cultura e sport.
Cos’ha rappresentato per lei il giornalismo su carta? Cosa si è portato con sé in radio di quell’esperienza?
Mi aprì la mente. Se non avessi lavorato al Corriere Mercantile e a il Giornale, non avrei avuto gli strumenti necessari per lavorare bene. Magari li avrei conosciuti più avanti, quando sarebbe stato troppo tardi. Fu una sorta di liceo classico sui banchi di lavoro, invece che su quelli di scuola. Un giornalista doveva occuparsi di tutto: politica, economia, cronaca, spettacoli, cronaca giudiziaria. Non soltanto lo sport, come si può vedere. È chiaro, non si poteva conoscere a menadito ogni ambito, ma la polivalenza di quegli anni mi dette un’infarinatura generale della società che poi mi sarebbe tornata comoda in futuro. E così alimentavo la mia curiosità, un aspetto tutt’altro che secondario.
Dopo i giornali, venne la radio. Era il 1980. Com’era il mondo radiofonico allora?
Detto in parole povere, era tutto più semplice. Il nostro prodotto, all’epoca, godeva di un grandissimo successo perché era innovativo e sostanzialmente esclusivo. Eravamo solo noi, operavamo in regime di monopolio. E poi, il calendario calcistico era più compatto di quello odierno. Uno dei fiori all’occhiello di Tutto il calcio minuto per minuto era proprio questo: la possibilità di passare da un campo all’altro, di impregnarsi di emozioni e voci diverse. Praticamente l’opposto di quello che succede oggi. Anche per questo mi dà fastidio chi enfatizza a sproposito: che senso ha strillare per una partita, magari mediocre, di Serie A? Sempre la stessa voce, per giunta, per tutti i novanta minuti. È diventato un mondo di superlativi assoluti, mentre i superlativi dovrebbero essere sempre relativi. E lasciamelo dire, prima si veniva formati in maniera diversa: più severa e più selettiva. Oggi, al contrario, sembra che vada bene tutto: quanti telecronisti ci saranno, tra televisioni e tutto il resto? Possibile che siano tutti bravi? Una volta, se eri balbuziente o avevi la s impura, la radio te la sognavi. Non sono sicuro si possa dire lo stesso per l’attualità.
D’accordo Emanuele, ma anche i giornali avranno avuto qualche colpa, no?
Certo. Sicuramente scontano anche l’atavico problema della lettura di cui parlavamo prima. Il resto lo ha fatto Internet: i giornali non sono stati in grado di capirlo in tempo, o forse non hanno voluto per paura o boria. Una volta che il fruitore si abitua ad avere informazioni gratuite, come puoi sperare di ritornare indietro?
Quindi il problema è Internet.
Questa è una domanda complessa e scivolosa. Io ti direi: sì, per tanti aspetti Internet ha rappresentato e rappresenta tuttora un problema. Però non vorrei passare per nostalgico, perché non credo d’esserlo. Mi piace pensarla così: la soluzione non abita nel passato, ma bisogna prestare attenzione al nuovo, al moderno, al progresso; non tutto quello che luccica è oro, come si suol dire. Per me, Internet è uno strumento meraviglioso e pericolosissimo allo stesso tempo. Una Formula Uno, per meglio dire, guidata spesso e volentieri da persone che non sono all’altezza, che non sanno usare la frizione, che non schiacciano mai il freno. Mi sembra tutto più veloce, più vorticoso, più frettoloso: e invece, il giornalismo è un mestiere che richiede tempo e calma.
Secondo lei, Emanuele, si può dire che Internet ha proseguito nel solco scavato dalla televisione?
Sì, credo si possa dire; ma in confronto ad Internet, la televisione è una passeggiata. Anzi, fammi essere più preciso: c’è televisione e televisione. Quella degli inizi, o comunque quella di parecchi decenni fa, era una televisione nella quale bisognava saper far qualcosa. Per quanto leggera e semplice, i conduttori sapevano condurre con piglio deciso ma garbato e i concorrenti dimostravano di conoscere il minimo indispensabile. I quiz di Mike Bongiorno, ad esempio, non erano certo l’equivalente d’una lezione universitaria, ma rimanevano comunque decenti, dei programmi che valeva la pena vedere e seguire. Il paragone col Grande Fratello, ad esempio, è impietoso: la televisione degli ultimi anni sta facendo passare il concetto che si può tirare avanti anche senza far niente; buona parte delle persone che oggi vivacchiano in televisione non sa fare niente. Ecco, questa televisione non si discosta poi molto dal mondo di Internet, per me. Tuttavia, se in televisione un muto non può condurre, su Internet un ignorante può scrivere: non è una differenza da poco. Una cosa che proprio non capisco, invece, sono i social network: cosa vuoi che interessi agli altri di quello che faccio io? E perché a me dovrebbe interessare quello che fanno gli altri? Eppure c’è chi vive per questo: un altro problema non da poco, direi.
In tutto questo, non possiamo dimenticare che anche il mondo dello sport si è ulteriormente strutturato.
Vestendo i panni del giornalista, più che strutturato mi sembra che si sia ulteriormente complicato e chiuso in sé stesso. In questo caso mi riferisco al calcio, tanti altri sport ancora si salvano. Io andavo spesso agli allenamenti del Genoa e della Sampdoria e si poteva parlare con tutti senza particolari problemi: bastava rispettare le norme del buonsenso e con i giocatori nascevano addirittura dei rapporti di amicizia. Oppure, per fare un altro esempio, potrei dirti che ho avuto la fortuna e il privilegio di intervistare Zico e Maradona e parlarci come se fossero il panettiere e il salumiere di fiducia, quelli con la bottega sotto casa. Pensa che differenza col calcio d’oggi. Io capisco che il calcio sia diventato un fenomeno globale e che una squadra, anche per la facilità d’accesso alla professione giornalistica di cui parlavamo sopra, sia soffocata di richieste e impegni: ma a tutto c’è un limite. I giocatori che salgono e scendono dal pullman con le cuffie agli orecchi e le loro automobili coi vetri oscurati rischiano di segnare, e forse lo hanno già fatto, un momento di non ritorno. La figura dell’addetto stampa, da questo punto di vista, non aiuta; anzi, è stata messa lì per filtrare ancora di più e quindi per tamponare l’interesse dei giornali, delle radio e delle televisioni nei confronti del giocatore.
Mi permetto di affermare che, a differenza di quanto succede nel mondo del calcio, in quello ciclistico l’addetto stampa ha mantenuto una certa umanità. Il loro obiettivo non è impedire al giornalista di lavorare, non so se mi spiego.
Hai ragione. Il ciclismo è uno dei pochi sport che continua a salvarsi nonostante i cambiamenti che ci sono stati negli ultimi anni. È anche vero che il ciclismo ha sempre fatto del contatto diretto tra tifosi, giornalisti e corridori una sua peculiarità. Se le squadre iniziassero a chiudersi come nel calcio, il ciclismo rischierebbe seriamente di morire. La sua abitudine al contatto lo sta mantenendo in vita egregiamente, ma potrebbe essere la causa principale della sua fine se venisse adottato il modello calcistico.
Abbiamo parlato di calcio e di ciclismo, Emanuele, ma lei ha seguito praticamente ogni sport. Il calcio le piaceva davvero? Qual è quello che ha seguito più volentieri?
No, il calcio non mi ha mai fatto perdere la testa. È lo sport nazionale, è vero, e riconosco anche che sia un bel gioco: ma è diventato troppo complicato, troppo frammentato, forse troppo ricco. Me ne accorsi già negli anni sessanta, non perderei altro tempo parlando di quello attuale. Della pallacanestro, proseguendo, ho un bel ricordo, perché la mia prima radiocronaca nel 1980 riguardava proprio una partita di pallacanestro. Ho seguito e apprezzato molto anche il tennis, avendo coperto varie edizioni del Roland Garros, di Wimbledon e degli Internazionali di Roma. Ho amato il ciclismo, uno dei miei sport preferiti; io credo che tutti, almeno una volta, debbano concedersi la possibilità di assistere dal vivo ad un’edizione del Giro delle Fiandre: è un fatto culturale, una fetta importante della popolazione belga scende in strada per tifare i corridori. Si respira cultura, storia e tradizione. Forse, più di tutti, mi sono piaciuti gli sport olimpici: penso al canottaggio, ad esempio. E non dimentico rugby e pallanuoto: la componente umana prevale spesso su quella sportiva, non per niente ho incontrato molti giocatori di rugby e pallanuoto più portati e preparati a livello culturale della maggior parte dei calciatori. O almeno, questa è stata la mia esperienza.
Ricorda in maniera particolare alcuni momenti, Emanuele?
Ne ricordo molti, fortunatamente: nel bene e nel male. La morte di Vincenzo Claudio Spagnolo è una ferita ancora aperta. Sto parlando del tifoso del Genoa ucciso prima di una partita di campionato col Milan, era il 1995. Oltre al dolore personale, si aggiunse il peso di critiche ingiuste: venni accusato di aver dato la notizia con leggerezza, come se non fosse importante. Ci rimasi molto male, fu una brutta giornata per lo sport italiano. Ai ricordi più belli, invece, sono legate le vittorie degli Abbagnale e di Antonio Rossi, un grande atleta e una grande persona. Ma se dovessi fare un nome, sarebbe quello di Stefania Belmondo: un fisico gracile sorretto da un’incredibile forza di volontà, un pulcino con le energie di un’aquila.
Abbiamo parlato a lungo di sport e di giornalismo. Un connubio del genere mi riporta direttamente al giugno scorso, la sua ultima telecronaca. L’evento era il Giro d’Italia e al suo fianco c’era Silvio Martinello, raro caso di sportivo applicatosi con successo al giornalismo.
Silvio Martinello è un fuoriclasse. Lo è stato da corridore e lo è tuttora. È un peccato averlo conosciuto bene così tardi. Lavorare con lui è stato un piacere, ci siamo divertiti davvero tanto. Quand’era un atleta e commentavo i suoi trionfi, l’ho apprezzato; dopo averci lavorato insieme, ho cominciato a stimarlo. Tuttavia, bisogna ricordare che quello di Silvio Martinello è un caso anomalo: ha fatto il classico, ha una bella voce, è naturalmente portato per il commento tecnico; e poi legge, studia, riflette, analizza, si documenta. Non credo diventi presidente della Federazione Ciclistica Italiana perché è troppo bravo; e in Italia, si sa, la bravura viene vista con diffidenza. Silvio Martinello rimane un corridore in fuga ben più avanti rispetto al gruppo.
Dopo tutto quello che ci siamo detti, Emanuele, cos’altro possiamo dire? Lei crede ancora nel giornalismo sportivo?
Certo che ci credo, ma non riesco a capire quale futuro possa avere un giornalismo pensato e realizzato in questo modo. L’imparzialità, l’analisi e la critica mi sembrano scomparse a vantaggio del becero, del sensazionalistico e del gossip. In più, pensando al calcio, le regole le dettano esclusivamente le società, che si chiudono e si allontana sempre di più. Mi sembra ci sia poco contatto con la realtà e nessuna sostanza: c’è soltanto la forma, una serie di belle scatole vuote. E non dimentichiamoci l’aspetto economico della questione. Quello del giornalista è un mestiere bellissimo, ma sa essere anche crudele e faticoso. Oggi guadagnano poco anche i giornalisti, so di colleghi che vengono pagati qualche euro a pezzo. È inammissibile. Ricordo nuovamente Brera: oggi si sentirebbe un pesce fuor d’acqua, i suoi pezzi verrebbero tagliati senza pietà e risulterebbe incomprensibile ai più, perché Brera scriveva in una lingua completamente diversa da quella odierna. Ecco, l’unica soluzione che mi viene mente è un colpo d’ala alla Brera: qualcuno che s’inventa qualcosa di nuovo e di culturalmente valido e permette alla categoria di uscire da questa stagnazione. Avessi vent’anni oggi, sono sincero, ci penserei due volte prima d’imboccare la strada del giornalismo sportivo.
Emanuele, la cultura sportiva esiste davvero?
Per me esiste la cultura in senso ampio. Tutte le altre, compresa quella sportiva, sono delle sfumature, delle declinazioni. Ognuno si farà la sua cultura in base all’argomento che più gli interessa o di cui deve parlare. Però, di base, ci vuole la cultura in senso ampio: civiltà, educazione, istruzione; dunque studio, letture, memoria. Se a mancare è la cultura di base, tutto il resto viene meno.
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