Col coltello tra i denti: intervista a Sofia Bertizzolo

Intervista a Sofia Bertizzolo, una delle atlete italiane più talentuose e interessanti.

 

Sofia Bertizzolo si definisce una “sognatrice della concretezza”. Il suo ideale di vita è quello dei piedi ben saldi a terra, che poi non sono altro che il giusto contrappeso a una mente che macina idee e prospettive. “Io sono una ragazza dalle mille idee che però riflette molto prima di decidere: un giorno mi dico vorrei lavorare in un vivaio, il giorno dopo vorrei fare tutt’altro. La mia vita è il bilanciamento di queste due componenti: prendo ciò che mi passa davanti senza cercare la luna, ma prima di afferrare qualcosa devo pensarci sul serio”. Nello stesso modo pensa al futuro: avrebbe voluto studiare architettura e dedicarsi al restauro, tuttavia a causa degli impegni sportivi dopo il liceo scientifico ha scelto scienze politiche, “per avere una conoscenza di base su tante materie che possono servire nella quotidianità. Ma non sono nata per perdere tempo e se a giugno, con tutti gli impegni ciclistici, non riuscirò a dare gli esami che mi sono prefissata dovrò per forza prendere una decisione”. Una decisione che comunque le lascerà un certo dispiacere: studiare le piace. Al liceo non ha mai saltato una lezione per un allenamento, “perché ci si può allenare al pomeriggio e andare a lezione al mattino. L’aspetto su cui riflettere, soprattutto per professori meno giovani, è un altro. Certe volte è difficile far capire ai compagni e agli insegnanti il perché di rendimenti scarsi in certe interrogazioni. Cosa potevo fare? Prendevo il quattro che mi davano e mi prefiggevo di recuperare nell’interrogazione seguente”.

Forse proprio la predisposizione alla conoscenza la porta a entrare nei minimi dettagli del suo mondo, citando cifre ed esempi, alla vigilia della riforma del 2020.

“Secondo me la riforma è ancora in alto mare: ogni giorno esce un aspetto nuovo. Non possono costringere tutti i team ad aderirvi: molti non possono permetterselo. Sarebbe la fine per molte squadre. Inizino i quattro, cinque team che possono permetterselo e poi si vada integrando. Un paio di squadre ogni anno. Secondo me bisognerebbe fare anche in modo che ogni squadra maschile abbia una parentesi nel femminile: un milione di euro per una squadra femminile basta.

E nel maschile queste cifre servono per due atleti di medio livello. Potrebbero benissimo spostare questa cifra sul settore femminile. Io spero che la riforma parta ma gradatamente. L’ideale sarebbe arrivare ad avere una quindicina di squadre World Tour per le Olimpiadi del 2024, di modo che le ragazze di quei team possano vivere di ciclismo”.

©Team VIRTU Cycling, Twitter

Da piccola Sofia Bertizzolo andava con il nonno al pascolo nei pressi dell’Altopiano di Asiago: da lì arrivano l’umiltà e la semplicità nel guardare il mondo. Un attaccamento ancestrale alle proprie terre. “Quando sono alle gare più che la mancanza di una persona in particolare sento la mancanza del mio paese, della natura che amo, della mia casa, del mio giardino, della mia camera. Mi manca il pranzare assieme. Il cenare assieme. A casa e con le amiche parla ancora in dialetto, talvolta anche per parlare di corse e per sperare in un tempo coincidente con le proprie preferenze. “Da noi dicono: se non piove sulle palme piove «sugli ovi» (sulle uova, ndr). Speriamo non valga solo in Veneto”. In squadra parla inglese, non senza difficoltà: “All’inizio non è stato facile, poi mi sono abituata. La nostra preparatrice è americana: molte parole suonano in modo diverso. Magari io sono scherzosa ma a lei sembro innervosita o arrabbiata. Capirsi è fondamentale”.

Da quando a nove anni è salita quasi per gioco su una biciclettina gialla, con un nastro blu e un casco rosa, tanto da somigliare più a un piccolo Arlecchino che a una ciclista, ha preso consapevolezza di molte cose: di cosa significasse la libertà dagli impegni e dalla scuola, ad esempio. Praticava nuoto e ginnastica artistica, il ciclismo arrivò a casa grazie al fratello minore tuttora dilettante: “Per me e per i miei genitori il ciclismo era solo una passione. Una delle tante.

Al secondo anno da junior, senza nemmeno avere il tempo di pensarci, ho avuto la fortuna di entrare nelle Fiamme Oro: non mi sono nemmeno resa conto che quella passione stesse diventando un lavoro. Oggi, senza troppe favole, il ciclismo è un lavoro in cui metto tutto l’impegno e la volontà. Ma nella mia vita ci sono tante altre cose più importanti. La carriera prima o poi finirà: molte ragazze non pensano a questo. Se non ti costruisci una vita oltre il ciclismo poi trovi solo un grande vuoto”.

Il rischio di quel vuoto, però, c’è già prima, magari senza neanche la possibilità di viverla una carriera: e non per demeriti propri. “Il ciclismo è uno sport in cui devi maturare: i primi anni sono solo batoste e se ti va bene trecento al mese di guadagno. A vent’anni con questo stipendio devi fare una scelta: molte ragazze, anche brave, mollano per questo. Serve pazienza: alcune ragazze sono fenomeni da giovanissime, poi hanno cali di rendimento. È assolutamente normale, ma la logica in cui siamo inserite porta a dover scegliere”. Il problema Sofia lo riscontra principalmente nell’approccio che l’Italia ha nei confronti del ciclismo femminile.

“Purtroppo si pensa ancora che se una ragazza si allena ed è forte possa andare alle gare e vincere da sola. Non è così. Serve la squadra. Non solo le atlete. Servono meccanici competenti, servono massaggiatori competenti, servono direttori sportivi competenti. A me alcune cose le hanno insegnate, ma molte ho dovuto impararle da sola a furia di errori. Per vincere bisogna istruire le ragazze che partono a questo fine: non puoi mettere due ragazze per vincere e le altre per far numero in griglia di partenza”.

©Team VIRTU Cycling, Twitter

L’Astana è stata la sua culla dal 2016 al 2018, per crescere con tranquillità avendo anche la possibilità di mettersi in gioco in gare importanti. La Virtu Cycling da quest’anno è la nuova squadra. “Indubbiamente un miglioramento per me e per la mia carriera”. Il filo conduttore è il viaggio: probabilmente anche metaforico, sicuramente reale. “Ho sempre amato i prodotti italiani e in particolare il cibo italiano. Essendo in giro per il mondo ho parzialmente cambiato mentalità. Ho dovuto per forza di cose sperimentare nuove cucine. Alcune cose mi sono piaciute talmente tanto che se le trovo continuo a comprarle anche in Italia. E mia mamma appena mi vede, mi dice: ma cosa mangi? cosa cucini? Ho iniziato così a familiarizzare con la cannella e con il burro di arachidi. Ho scoperto che quest’ultimo può essere molto utile nell’alimentazione, per esempio quando si corre al freddo e servono i grassi. Anche se nulla batte un buon piatto di pasta alla carbonara.”

Alla Virtu ha tre angeli custodi: due in squadra e uno in ammiraglia. Sono Marta Bastianelli, Barbara Guarischi e Bjarne Riis. Le prime due sono compagne di squadra ma anche maestre, in virtù dell’esperienza accumulata. Con Bastianelli poi ci sono tante affinità di pensiero. “Marta per me è una campionessa. Sono i titoli a dirlo, ma non solo. Io ho iniziato a conoscerla quest’anno e mi ha stupito in positivo. In bici sembra cattivissima, ma proprio cattivissima. In realtà è una bellissima persona. A me piace il suo modo di pensare, di ragionare. Condividiamo l’idea che il ciclismo non può essere tutto. Lei è mamma, moglie, fa tantissime cose. Riesco ad ascoltarla e a parlarci per tantissimo tempo: molto più di quello che farei con altre atlete. È chiara, pulita.  Lei non aspetta che sia tu a sbagliare per correggerti: ti dice prima quello che devi fare, dove prendere fiato, dove spingere, come impostare la corsa. Anche lei studia moltissimo la gara. Barbara Guarischi è uguale”. Confessa, sorridendo, di aver cercato su Wikipedia il nome di Bijarne Riis prima di incontrarlo: “Sono del 1997 e lui vinse il Tour de France soltanto un anno prima. Non potevo saperlo, se non mi fossi informata. Riis è un uomo tutto d’un pezzo. Ha una conoscenza eccezionale, conosce ogni pietra del Fiandre, ha tantissima esperienza. Ma ciò che conta è che è un uomo ancor prima che un atleta. Un uomo come Cadel Evans o Fabian Cancellara.

Quando senti parlare queste persone resti a bocca aperta: per la pienezza di quello che dicono, per quello che sono oltre lo sport. Nel ciclismo di oggi c’è troppa polarizzazione tra uomo e ciclista. Lo stesso discorso vale per le donne: Alessandra Cappellotto è una grande donna. Si batte per noi, per la nostra sicurezza, per la nostra visibilità. La stimo molto”.

A Sofia Bertizzolo piace correre in Italia, sulle strade di casa, sentire il tifo italiano e vedere i paesi della sua nazione. Per il primo Giro Rosa, nel 2016, è partita proprio il giorno della sua maturità. Nel tempo ha imparato a resistere alle crisi che in una corsa a tappe possono arrivare. “L’anno scorso intorno alla sesta, settima tappa ero in crisi. Poi ho ripensato agli anni prima, al fatto che poi le crisi passano: è così è stato. Sono riuscita a concludere la gara e a conquistare la maglia bianca di miglior giovane”. Il Trofeo di Cittiglio contende al Giro Rosa il trono di gara più amata dalla giovane veneta: lo vinse nel 2015 da junior, Trofeo Da Moreno. In realtà, a Sofia piacciono il caldo e il sole, anche se rende meglio nelle gare del Nord, quelle con nebbia, pioggia, vento e freddo:

“Non so neanche io bene che caratteristiche ho. Di sicuro non sono una velocista. Amo il caldo ma vado bene col freddo. Appena passata tra le elite pensavo di essere una scalatrice. Poi sono cresciuta, sono cambiata e mi sono trasformata: ad oggi credo che le gare più adatte a me siano proprio quelle del Nord. Magari cambierò ancora. Chissà.”

 

Marta Bastianelli esulta sul traguardo del Giro delle Fiandre 2019. Sofia Bertizzolo, compagna della Bastianelli, è quarta. ©Marta Bastianelli, Twitter

Se dovesse scegliere l’ingrediente principale di cui è fatto il ciclismo, direbbe i tifosi: “Sembra paradossale ma senza di loro noi cicliste non avremmo alcuna possibilità di fare il nostro lavoro. Per questo non ha alcun senso tirarsela. A me piace vedere tutta quella gente per strada, sentirli gridare, sentire il mio nome o leggerlo magari. In una tappa del Giro Rosa mi successe di leggere il mio nome su uno striscione in una cittadina vicino a Napoli: era uno striscione firmato da ragazzi della zona natale di mio papà, di mio nonno. Ci ho pensato per tutta la gara. Incredibile”. Sofia Bertizzolo non si piange mai addosso: il ciclismo femminile ha poca visibilità? Poche parole e agire. “L’anno scorso ho iniziato a fare delle stories su Instagram mostrando il lavoro che faccio, le gare, i dietro le quinte. C’è stato tantissimo riscontro. La gente ha apprezzato. Sono stata contenta. Mi hanno seguito e si ricordano di me. Questo dimostra una cosa: il problema, si ritorna lì, riguarda la mentalità. La questione economica è reale ma non è totalizzante. Quanto costerà una telecamera sulla corsa delle donne? Quanto costerà una persona in moto? A Cittiglio per avere due ore di corsa live si è dovuto insistere moltissimo.

Se alla gente viene data la possibilità di conoscere, poi si appassiona e segue le gare. Se nessuno manda in onda il ciclismo femminile, la gente come fa a conoscerlo? Noi per avere tanti tifosi in strada, per gustare il sapore del tifo, dobbiamo aspettare le gare fatte in contemporanea con gli uomini. Al Fiandre ho avuto i brividi dal tanto pubblico presente. Bellissima la descrizione di Cecilie Ludwig nell’intervista post gara: ero lì e sentivo le sue parole. Stessa cosa per essere sicure di avere strade in condizioni ottimali e zone transennate adeguatamente: se gareggiamo in giornate diverse dagli uomini abbiamo difficoltà anche con la logistica”.

Una parola che torna spesso nella chiacchierata è “fortuna”. Forse Sofia Bertizzolo chiama fortuna quella che in realtà è bravura e abnegazione, sta di fatto che questo senso di fortuna le dà tranquillità. “Con il fatto che ho avuto la fortuna d’entrare in un gruppo sportivo, non penso molto a cosa farò quando non sarò più un’atleta. Se andrà in porto questa riforma, dovrò iniziare a pensarci meglio. Per il momento non riesco ad immaginarmi ad una scrivania per otto ore al giorno. Non si sa mai, però: magari a furia di girare come una trottola sarò stanca e vorrò avere un lavoro sedentario vicino a casa”. Ed il pensiero di Sofia Bertizzolo, tra sogno e concretezza, ha dimostrato di arrivare lontano. Sempre a piedi a terra.

 

Foto in evidenza: ©Jakub Zimoch, Wikimedia Commons

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/