Far diventare i sogni realtà: intervista a Erica Magnaldi

Lo sci, la laurea in Medicina, il sogno dei Giochi Olimpici.

 

 

Negli ultimi tempi Erica Magnaldi ha pensato molto. Erano i giorni dell’emergenza coronavirus e tutti, con lo stop alle attività, hanno – o almeno dovrebbero aver avuto – tempo per riflettere su tante cose. Magnaldi ha ripensato alla sua laurea in medicina e alla conseguente abilitazione per esercitare la professione. Ai motivi che l’avevano spinta a intraprendere quella strada e al senso che quella scelta poteva avere in quei giorni. Perché? «Perché – dice Erica Magnaldi – se studi per sei anni Medicina lo fai per aiutare qualcuno, no? Vuoi essere utile e, in certe circostanze più che in altre, vorresti solo essere nelle corsie di ospedale accanto ai tuoi pazienti». Ha pensato e ripensato alla possibilità di mettersi a disposizione in supporto dei medici di base e lei stessa ammette che, in alcuni momenti, era un pensiero tormentato e tormentante.

Poi ha preso in mano la responsabilità, quella di donna e di medico, e ha capito che era il momento di aspettare. «Per due motivi: per la squadra e per i medici e i pazienti stessi. In Ceratizit-WNT ci hanno supportato in questo momento complesso: non hanno tagliato alcuno stipendio, ci hanno solo chiesto di stare in salute e continuare ad allenarci. Lo dovevo allo staff e alle mie compagne. Dal punto di vista sanitario, invece, il discorso è diverso: ho l’abilitazione, è vero, ma non ho alcuna esperienza. Avrei avuto bisogno di colleghi accanto per sostenermi ed insegnarmi. Non era il momento: tutte le loro energie dovevano essere per i malati e non per insegnare qualcosa a me. Quando scenderò di sella non resterò nel ciclismo: andrò nelle corsie degli ospedali, farò il medico. Ci vuole solo del tempo. Ora sento di dovermi concentrare per sfruttare questa occasione, un’occasione che non capita a tutti: correre in bicicletta».

©Rita Loureiro, Twitter

Il ciclismo, in fondo, è nella vita di Erica Magnaldi quel qualcosa che non poteva non essere ma che, allo stesso tempo, nessuno si aspettava sarebbe stato. È quella possibilità che si insinua mentre, indaffarato a fare altro, ti racconti che di un’altra possibilità non sai che fartene, che non ti interessa, che stai bene così. Magari proprio dopo aver scelto di iscriverti all’università, facoltà di Medicina, e aver già detto un addio. «Parlo dello sci. Ho iniziato a sei anni a sciare e sarei voluta diventare una professionista. Lì però si decide tutto fra i sedici e i diciannove anni. Ho fatto buoni risultati per un anno con esercito e nazionale, poi ho avuto un passaggio a vuoto ed è stato troppo. Il treno ormai era passato». A sciare aveva iniziato con il fratello sulle piste nevose di cui la sua zona, Cuneo, abbonda. I suoi genitori li avevano fatti iniziare a sciare perché quello sembrava lo sport più adatto a dei bambini: completo e da praticare all’aria aperta.

Ancora oggi Erica Magnaldi parla con sollievo di quelle sensazioni. «Sciando puoi percorrere lunghe distanze in velocità. Ho corso anche a piedi e mi ha sempre affascinato la velocità abbinata allo spostamento, il paesaggio che ti corre accanto. Ero iscritta al liceo scientifico, mia mamma è infermiera, ho sempre pensato che avrei fatto l’università, magari Medicina. Ora che avevo perso quella possibilità sentivo che dedicarmi a me stessa e allo studio sarebbe stata la scelta migliore». Ed era vero, ma non bastava. Magnaldi studia a Torino, una grande città, e per spostarsi usa la bicicletta. Passano due mesi, forse tre, a casa ci sono suo fratello e suo papà: il primo ha corso da giovane e ora è cicloamatore, il secondo cicloamatore lo è sempre stato. A lei inizia a mancare l’agonismo. «Agonismo vuol dire soffrire per migliorare e per crescere. Se accetti quella sofferenza poi stai bene, diventa adrenalina e poi soddisfazione. Quella sofferenza ti realizza. Io sono da sempre un’agonista e lo sono stata anche quando non praticavo sport a livello professionistico. È una mia caratteristica».

Decide di iscriversi a qualche granfondo per riprovare le sensazioni che provava quando sciava; arrivano i primi risultati, ma soprattutto comprende una cosa in più. «Il ciclismo mi faceva stare bene. C’è una peculiarità nel ciclismo: più pedali, più ti alleni, più vai forte, e più vai forte e migliori più hai le motivazioni necessarie per stare su quella bicicletta». Non è tutto così facile: venendo dallo sci non sa stare in gruppo, ha paura a restare nella pancia del plotone, a limare, corre sempre in testa o in coda, spreca energie: ma si diverte. In più, per correre le granfondo le bastano un paio d’ore d’allenamento quotidiano, quindi perfettamente conciliabile con lo studio. Qualcuno inizia a dirle che così giovane e con le doti che si ritrova dovrebbe pensare al professionismo: Magnaldi è attratta dall’idea, ma allo tempo ne ha paura.

©Voxwomen, Twitter

«Appena mi è balenata davanti questa possibilità, di getto avrei accettato nonostante la batosta dello sci si facesse ancora sentire. Non mi bastava più la competizione delle granfondo: eravamo cinquanta o sessanta ragazze e il più delle volte, dopo le partenze, finivamo disperse in tanti gruppi. Ormai il mio con le granfondo era un rapporto di amore e odio. Certo, conoscevo il mio piazzamento, ma competizione non vuol dire solo questo: vuol dire anche guardare negli occhi la tua rivale e magari piazzare uno scatto quando le pendenze sono più rigide. Avrei voluto questo». Tuttavia c’è una strada già intrapresa ed Erica Magnaldi vuole arrivare in fondo. «Mi sono detta che sarei arrivata almeno al quinto anno di università prima di affiancare all’impegno dello studio un’altra scelta sportiva».

Quando frequentava il liceo, Erica Magnaldi sciava e per conoscenza diretta sa che il sistema scolastico italiano non è esattamente l’ideale per chi vuole cimentarsi nello sport. «Il mio impegno extrascolastico doveva aumentare e da noi manca la concezione dello sport come valore, importante tanto quanto lo studio. I ragazzi devono impegnarsi e ottenere risultati, questo è fuor di dubbio, ma se questi non mancano bisognerebbe comprendere la loro scelta di vita e aiutarli. In altri paesi avviene, da noi si tende a mettere i bastoni fra le ruote a chi prende questa decisione. D’altra parte io credo da sempre che più tempo abbiamo e più ne sprechiamo: meglio studiare due ore intensamente e poi uscire a correre, tanto la concentrazione che l’essere umano sa tenere è comunque limitata. Ho studiato Medicina e so che praticare sport sin da giovanissimi è un toccasana dal punto di vista psicofisico».

Il tempo di ciò che ci si racconta finisce quando c’è qualcuno a raccontarti altro e per Erica Magnaldi questo qualcuno è Walter Zini: è il 2017, si corre il Tour de l’Ardêche e alla Bepink di Zini manca un’atleta, così pensa a Erica. In Francia accade di tutto, l’elenco delle sventure è ridimensionato da una congiunzione avversativa. «La prima tappa l’ho passata in fuga tutto il giorno con una collega, ci hanno ripreso ai duecento metri dal traguardo: ho pianto a dirotto. Alla penultima tappa sono caduta, ho rotto il cambio, ho cambiato bici due volte. Ma mi sono divertita». È al ritorno da quella gara che Erica, per la prima volta dalla delusione dello sci, non sente la mancanza della neve ma la voglia del vento in faccia. «Posso farcela», diceva a sé stessa. «È come se avessi unito i puntini: alla fine era successo ciò che doveva succedere. Non era stato così un male non sfondare nello sci; forse il mio futuro non era lì, era nel ciclismo. Certo, mi spiaceva accantonare momentaneamente tutto ciò per cui avevo studiato, ma certe occasioni capitano solo una volta nella vita. Ventisei anni si hanno solo una volta nella vita, avessi scelto diversamente mi sarei pentita».

©CERATIZIT-WNT Pro Cycling, Twitter

Il primo anno corre molto: Freccia Vallone, Giro delle Fiandre, Liegi-Bastogne-Liegi, Strade Bianche e Giro Rosa le gare più importanti. C’è un ritorno di meraviglia nei suoi occhi. È talmente contenta che non chiede di più, si accontenta perché già essere lì, su quelle strade, è un regalo di grande valore. «A quella Liegi arrivai con un gruppo di sette atlete a disputarmi la volata per il quinto posto. Vuoi la verità? Ero tranquilla come non lo ero mai stata. Non ho mai sentito molto la pressione, ma in quella occasione ero proprio rilassata. Mi dicevo: “Se va male arrivo comunque tredicesima”. Andò proprio così. Mi accontentavo, anche troppo, tanta era la gratitudine per questa nuova possibilità. Oggi è più così, mi accontenterei meno e quella volata andrei a farla con più convinzione. Potrei perderla, ma proverei a vincerla».

Il senno di poi è vano e voltarsi indietro a rimpiangere è il miglior modo per restare fermi. Lavora duro sulla posizione in gruppo, sulla possibilità di prendere le salite in testa al plotone «perché se poi devi recuperare per portarti davanti sprechi energie che potrebbero servirti per scattare o per resistere»; sulla concentrazione in gara per sè stessa e per la squadra, in particolare se si è donna di classifica; sul controllo dell’entusiasmo, sul dosaggio e il recupero delle energie nelle grandi corse a tappe, quelle dove si mettono a fuoco «limiti e potenzialità». La più importante? Il Giro Rosa. La prima volta che è partita per il Giro «non stavo più nella pelle», quel benedetto entusiasmo che è una grazia ma anche un possibile tradimento.

«L’organizzatore della corsa propone percorsi molto belli, complessi, variegati e con tante salite. Alcune ragazze si lamentano, per me è il pane. Anche lì, però, se avessi tenuto più a freno quella voglia di fare e di strafare, avrei ottenuto risultati migliori sin dal primo anno. Nella prima cronoscalata che feci mi sentivo messa alla prova, così partii a tutta: dopo pochi chilometri mi spensi e fioccarono minuti. I valori indicati dal potenziometro dicono molto, bisogna guardarli. L’inesperienza si paga». Più giorni di gara ravvicinati sono stressanti, ma allo stesso tempo sono una possibilità importante. Erica Magnaldi lo spiega bene: quando una corsa va male vorrebbe ripartire subito dopo il traguardo per migliorarsi. Normalmente non è possibile, nelle gare a tappe sì. C’è sempre un altro traguardo, un altro giorno che poi è proprio il giorno dopo. Se si è capaci di andare in camera, di staccare e riposare, non c’è forza migliore di questa.

Erica Magnaldi parla spesso di futuro e a quel futuro pone sempre un aggettivo possessivo davanti: non è un futuro qualsiasi, è il suo futuro, quel futuro di cui ha avuto da sempre fame. Proprio quel futuro per cui ha scelto la Ceratizit-WNT. «Scegliere di fare questo sport ha voluto dire avere la consapevolezza che sarebbe dovuto essere il mio lavoro. Volevo un’esperienza in un team internazionale del World Tour per conoscere e conoscermi ancora meglio». In WNT ha trovato un ambiente che brilla per professionalità e umanità, si è trovata con compagne di diverse nazionalità, ha dovuto imparare a conoscere lingua e usanze di paesi diversi e questo ha contribuito a farla crescere.

©CERATIZIT-WNT Pro Cycling, Twitter

In questo modo ha iniziato a scrollarsi di dosso quella fama “negativa” di atleta che viene dalle granfondo e che non sa stare in gruppo, fama di cui pagava lo scotto. «Poi credo abbiano capito che in salita sono un osso duro. All’inizio ero piuttosto ingenua. Facendo un passo indietro, parlo dei tempi della Bepink: correvamo la Vuelta Valenciana ed io ero andata in fuga; mi aveva sorpreso una ragazza della Canyon che faceva l’andatura, aveva una gamba pazzesca e starle dietro era davvero difficile. Alla sera raccontai l’accaduto a Zini, ero stupita. Lui mi guardò: “Andava forte? Non stento a crederlo: eri a ruota della Niewiadoma”. Per dire quanto non conoscessi nessuno. Da un lato era anche un bene: non avevo paura neanche a rispondere agli scatti della Niewiadoma».

Quando Erica Magnaldi rientra dagli allenamenti, se la televisione è accesa vuol dire che ci sono mamma e papà sul divano a vedere una corsa ciclistica. E se non ci sono gare nuove, ci sono pur sempre le repliche. Così Magnaldi, da piccola, ha visto Pantani e se ne è innamorata. Così ha conosciuto prima sullo schermo e poi dal vivo monumenti del ciclismo femminile come Marianne Vos, Elisa Longo Borghini, Annemiek van Vleuten, Ashleigh Moolman e Anna van der Breggen. «Campionesse che prima di tutto sono donne umili, ammirate da tutte per il loro comportamento in gruppo». Lei no, lei ha il vizio dell’intensità, e da sempre quando ha un momento libero esce in bicicletta. Le sue zone sono circondate di scalate invitanti: Vars, Agnello, Maddalena. Asperità che le piacerebbe affrontare in corsa, adatte a lei perché di consistente cronometraggio; così come spera di aver la possibilità di affrontare il Gavia dopo la cancellazione dal percorso del Giro Rosa dello scorso anno.

Ad un tratto, durante l’intervista, emerge la dottoressa Magnaldi, perché lo richiede la domanda e perché glielo consentono le conoscenze. Si parla di un tema sempre più impellente, tanto nel mondo del ciclismo quanto in quello dello sport più in generale: ovvero delle problematiche alimentari. «È un problema sempre più diffuso in particolare nelle discipline sportive che fanno del rapporto peso/potenza una chiave del successo. Nel ciclismo perdere peso può significare migliorare la prestazione, però credo ci sia un modo per scardinare questo meccanismo mentale. Ad un certo punto non si perde più solo peso ma anche massa muscolare, e le prestazioni calano. Per le ragazze la questione è ancora più complessa, perché la questione puramente sportiva si sovrappone all’immagine che la nostra società propugna rispetto a una certa figura femminile e a certi canoni di bellezza. È necessaria una corretta educazione alimentare sin dalla giovane età».

©CERATIZIT-WNT Pro Cycling, Twitter

L’analisi della situazione arriva poi ai meccanismi psicologici. «Facciamo tutti fatica ad ammettere di avere un problema. Vuoi per vergogna, vuoi perché a nessuno piace sembrare debole, vuoi perché la società, si torna sempre lì, ci vuole tutti sicuri è perfetti. Non è così: la risoluzione di un problema passa dapprima per la sua ammissione. In questo credo sarebbe utile potenziare il supporto psicologico per le atlete. Ora come ora se l’atleta non provvede autonomamente, per questioni economiche certamente comprensibili, non c’è alcun sostegno. Tutto parte dalla mente».

Da quel futuro che Magnaldi declina a pieni polmoni, il tempo ha messo in dubbio un appuntamento e ne ha rimandato un altro. Parliamo del Mondiale di Aigle, in questo 2020, e delle Olimpiadi di Tokyo. «Sembra sia uno fra i Mondiali più duri di sempre, vorrei si disputasse e si disputasse sul percorso originario, ma capisco la delicatezza della situazione. Posso solo incrociare le dita e lavorare come se il Mondiale fosse dietro l’angolo». E l’Olimpiade? «È il sogno di una vita. Quante volte può capitare nella carriera di un’atleta la possibilità di partecipare ai Giochi Olimpici? Quante volte può capitare di rappresentare la tua nazione in un evento così prestigioso? Quante volte può capitare ad una ragazza che, come me, ha iniziato a correre così tardi? Credo sarà la mia unica possibilità. Rispetto qualunque decisione, ma sono pronta a rispondere presente a testa alta. Sono pronta a rivestire qualunque ruolo, a mettermi a disposizione delle mie compagne e a dare tutto fino a non averne più. Vorrei tanto partire per Tokyo».

Non sappiamo se Erica Magnaldi crede al destino, io personalmente non ci credo. A forza di raccontare storie, però, ho capito che forse tutte le storie hanno la possibilità di trovare un senso che spieghi davvero tutto. Erica Magnaldi questo senso l’ha già trovato – o ritrovato – più volte nonostante la giovane età. Siamo certi che saprà trovare un altro senso alla sua storia, comunque vada. E se proprio non dovesse andare come spera, avrà comunque la possibilità di inventare un senso nuovo per ogni giorno. Mica poco.

 

 

Foto in evidenza: ©CERATIZIT-WNT Pro Cycling, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/