Michele Scartezzini è uno dei pistard italiani più forti e titolati.
Michele Scartezzini, da ottimo pistard qual è, crede fermamente che la meticolosità giochi un ruolo fondamentale nel ciclismo, in particolar modo in quello su pista. E infatti Scartezzini è meticoloso, preciso e pignolo in tutto quello che fa: nel fare e disfare i bagagli, nel gestire lo spazio in camera, nel pulire la macchina. Alla pista c’è arrivato da ragazzino, al secondo anno tra gli allievi, ma a pedalare aveva iniziato assai prima: a sei anni, dopo una parentesi per niente emozionante col calcio. “Non mi divertivo più di tanto, così seguii il mio migliore amico e iniziai a pedalare. Io ho continuato, lui smise dopo qualche anno”.
Nessun parente da segnalare ai fini ciclistici tranne il bisnonno, “il fondatore dell’Azzanese, la squadra in cui ho corso finché ero juniores”. Il pallone, tuttavia, non l’ha scordato. “Essendo di Isola della Scala, se la scelta è tra Hellas e Chievo ti dico Hellas, ma più di tutte le altre tifo il Milan”: ora come ora a Scartezzini conviene di più tifare gialloblu, almeno si risparmierebbe la trasferta.
Scartezzini dice che all’inizio nel ciclismo ci capiva poco, non si faceva tante domande, si limitava a pedalare e a cercare d’arrivare sempre primo, “perché da bambino vorresti vincere tutti i giorni, la sconfitta non la capisci”. La leggenda, ovvero i suoi genitori, narra che al termine della sua prima corsa vagasse estasiato con una coppa in mano pur senza aver vinto. “Ero arrivato terzo, ma vedendo il trofeo dissi: ho vinto. Ne impiegarono di tempo a farmi capire come funzionavano le cose”. Negli anni, Scartezzini ha imparato anche a perdere e a superare la sconfitta – perché la sconfitta, al massimo, si supera, non si accetta mai -, ma la competitività non si è attenuata.
Essendo nato nel 1992, Scartezzini è cresciuto con Pantani e Armstrong (“i nomi che sentivo nominare più spesso”), con Cunego (“è di Verona, ad un tiro di schioppo da Isola”) e con Wiggins (“il mio idolo perché gli riesce bene tutto: vestirsi, tatuarsi, fare lo sbruffone, vincere tanto in pista quanto al Tour de France”).
E poi ci sarebbe anche Elia Viviani, che di Scartezzini è più grande di soli tre anni, quindi più che un modello è un amico. Sono cresciuti praticamente insieme e Scartezzini lo conosce come le sue tasche. “Un esempio, uno stimolo, un pungolo: prima delle Olimpiadi di Rio de Janeiro girava in pista come un dannato finché non si attestò sui tempi che desiderava, prima del Giro d’Italia 2018 simulava decine di volate in ogni allenamento finché non raggiunse il picco che voleva”.
Scartezzini, tuttavia, non è stato soltanto un pistard. Nel 2013, per dire, al secondo anno tra i dilettanti, vinse il Trofeo Piva lasciando Ewan, Villella e Conti a quarantaquattro secondi, Formolo a un minuto, Mühlberger a un minuto e venticinque secondi. Nel 2014, a coronamento di un ottimo periodo, venne ingaggiato dalla formazione Continental dell’Astana: i presupposti per tentare il salto nel professionismo, insomma, c’erano tutti.
“Il problema è che già dal secondo anno tra i dilettanti mi portavo dietro un guaio all’arteria femorale: rimaneva schiacciata e ad un certo punto dovevo fermarmi o rallentare dal dolore”. Gli è stato diagnosticato troppo tardi, purtroppo. Quasi tre anni vissuti nella sofferenza e nei dubbi che aumentavano di pari passo, senza trovare nessuno che gli credesse o che fosse in grado di far saltare fuori quel problema.
Il treno, dunque, era passato e Scartezzini non ha fatto in tempo a saltarci sopra. “Ogni tanto ci penso. Promettevo bene, potevo giocarmi le mie carte: alla fine tanti ragazzi che oggi fanno parte del World Tour non andavano più forte di me all’epoca”. Della strada, sulla quale talvolta si cimenta ancora facendo parte della Sangemini-Trevigiani, gli rimangono un sogno, la Parigi-Roubaix, e un sollievo: le giornate lunghe e dure sotto il maltempo, “di cui ho sempre fatto volentieri a meno”.
Se non altro – e su questo non ci piove – Scartezzini è un bravo ragazzo, ha la testa sulle spalle e la mente collegata alle gambe. Dice di essere troppo impulsivo e testardo e di non voler azzardare niente sui suoi pregi. Quando gli chiediamo se teme di passare da presuntuoso, risponde di sì. “O meglio, preferisco che siano gli altri ad esporsi. So di averne più di uno, ma sarei imparziale, dato che si parla di me stesso”.
Più che altro Scartezzini è un pistard: è in pista che si è costruito una carriera e un nome, è in pista che ha raccolto i successi e i piazzamenti più prestigiosi della sua carriera – Sei Giorni, campionati italiani, campionati europei – ed è per la pista che ha messo su sette chili rispetto alla primavera. “Prima, praticamente fino a pochi mesi fa, ero un altro corridore: più leggero, soprattutto, e infatti guardavo alle brevi corse a tappe con un certo interesse. Ora sarebbe molto più difficile: sono più strutturato, più compatto, più pesante”.
Perché la strada è importante, “ti dà fondo e resistenza”, ma la pista lo è altrettanto: “Devi essere coraggioso e incosciente, sono sforzi brevi e intensi, si pedala fortissimo e non ci sono freni. Il colpo d’occhio è fondamentale e te lo ritrovi anche su strada, perché può fartene risparmiare uno di pedali”. In un’ipotetica lista, ai primi posti inserirebbe americana, quartetto e corsa a punti, anche se dopo l’argento conquistato lo scorso anno ai campionati del mondo di Apeldoorn nei suoi pensieri c’è anche lo scratch.
A Scartezzini piace tutto della pista: la presenza fissa e costante del pubblico, l’atmosfera che si respira, la possibilità di condividere uno spazio tutto sommato ristretto con i migliori pistard del mondo, “più o meno sempre gli stessi, è vero, ma forse a piacermi è proprio questo, un ambiente meno dispersivo rispetto alla strada”.
A Scartezzini e agli altri azzurri piace talmente tanto la pista che pensano alle Olimpiadi di Tokyo da una vita, “e l’importante è che ci vadano i migliori: si lotta l’uno con l’altro, è vero, ma siamo un gruppo molto affiatato”, che a parlare di multidisciplinarietà gli viene da ridere, “perché sembra sia stata scoperta oggi e invece esiste da una vita; e poi va portata avanti per piacere, mica perché adesso ci siamo noi che raccogliamo ottimi risultati”, che pur di non perdere il posto al sole che si sono guadagnati hanno sopperito alla mancanza di un velodromo italiano andando ad allenarsi in Svizzera e in Slovenia. “Ma qualcosa si sta muovendo: Montichiari è stato riaperto e si è già ricominciato a girarci. È già qualcosa”.
Ha ragione, Scartezzini: per quanto piccolo, è pur sempre un passo. Ne serviranno altri, però. Lo merita l’Italpista, lo merita Michele Scartezzini.
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