La parabola di Vittoria Bussi è unica nel panorama sportivo italiano.
Vittoria Bussi si sarà sicuramente ritrovata in quelle parole che Italo Calvino pone a conclusione de “Le città invisibili”: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Deve averci pensato quel giorno del 2009, quando le telefonarono mentre era in Inghilterra dicendole che suo padre era ricoverato in ospedale, in terapia intensiva, a seguito di un’emorragia celebrale. Lei che aveva preso un volo aereo per arrivare più vicina alle sue speranze di riuscire in una carriera accademica: «Ho sempre studiato molto: prima il liceo classico, poi la facoltà di Matematica. Quando non studiavo, praticavo sport: atletica, corsa a piedi. Finita l’università, decisi che il mio futuro poteva essere proprio quello: lo studio e la ricerca. Mollai lo sport e partii: qui da noi fare ricerca è quasi impossibile. Non mi ha mai spaventato la distanza. La vita però sa essere beffarda». Da quel giorno, da quella telefonata, un anno da pendolare tra Londra e Roma o qualunque altra città per stare accanto al padre rimasto semicosciente.

Chi ha provato lo sa: la sofferenza cambia, tanto le persone quanto il loro modo di vivere e di approcciarsi alla realtà. «Mi reputo atea, non credo, ma sono convinta che la tragica vicenda di mio padre mi abbia lasciato uno dei più grossi insegnamenti che un padre può donare a una figlia. Mi ha fatto capire quanto è importante la vita. Lui amava la vita e la malattia non gli ha dato la possibilità di vivere. Io da quel giorno è come se vivessi per due, anche per lui. Ho abbandonato le scelte a lungo termine, ho scelto di fare ciò che avrei voluto fare da sempre, senza rimpianti o rimorsi. Io voglio godermi la vita. Ho un’energia diversa, come se avessi due persone dentro di me». Troppo lunga la carriera universitaria per chi, come Vittoria, in quel 2012, anno del decesso del padre, aveva visto come la vita non perdoni progetti a lungo termine.
Ritorna così a praticare atletica e triathlon già a Londra e scopre qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare: «I miei genitori sono sempre stati iperprotettivi: hanno lasciato le rotelle alla mia bici sino ad un’età imbarazzante. Davvero io non sapevo fare cose estremamente semplici per chi va in bici: non sapevo neppure saltare da un marciapiede. Fa sorridere dirlo, ma avevo quasi paura a stare in bici. Bene, da quando ho riprovato a prendere in mano la bici ho scoperto che mi dava un’adrenalina assurda». In un primo momento continua a studiare, poi chiude definitivamente i libri per diventare un’atleta professionista. Non è facile: per i sacrifici che una decisione del genere comporta a livello fisico ed economico e perché la gente fatica a comprendere. Anzi, la gente proprio non capisce; non può capire.
«Chi te lo fa fare? Buttare via una carriera sicura per cosa? Per lo sport?». Parole che Vittoria Bussi ricorda sin troppo bene, con rammarico ma anche con consapevolezza: «Non potevano farmi bene queste frasi, ma d’altra parte qualche ragione l’avevano anche i dubbiosi. Tutte persone che oggi si complimentano per quella scelta, ma dopo è anche facile. Mia madre mi adora, ma allora non capì subito. Tu pensa a una donna già distrutta dalla perdita del compagno di una vita che si ritrova la figlia che impazzisce e stravolge tutto quanto. Com’è possibile capirla?».

Bussi è un’entusiasta, seppur nel buio di quei giorni, e continua per la propria strada. Le piace il mezzo, la bicicletta, le piace il ciclismo per le possibilità che offre; ma l’ambiente no, l’ambiente non è quello che si aspettava. «Purtroppo, almeno all’inizio, ho trovato poca comprensione per le persone ancor prima che per gli atleti. Per questo ho deciso di fare una mia squadra. Ma sono sempre stata chiara, non ho litigato con nessuno: ho detto chiaramente ciò che mi piaceva e ciò che non mi piaceva. Bisogna essere espliciti, senza sotterfugi».
Se è vero che ormai la matematica non fa più parte del suo mondo, è altrettanto vero che Bussi ha quel modo di ragionare che solo la matematica permette di maneggiare: un modus ragionandi che si sofferma e memorizza i dettagli. «Tutti mi dicevano: hai il motore, ma in bicicletta non sai starci. Forse proprio da lì è nata l’idea del Record dell’Ora: in fondo, in quel caso bisogna solo pedalare». Un attimo di pausa da quel cadenzare tipicamente romano e poi la constatazione che a dire il vero non è proprio così: «Serve attenzione estrema dal primo all’ultimo minuto, capacità di stare a tutta, di non sprecare energie inutili. Per chi poi, come me, affronta l’esperienza “in solitaria”, è reso tutto più difficile dalla burocrazia che, lo sottolineo, non aiuta nella maniera più assoluta».
Il bottino che Vittoria Bussi porta a casa quel 13 settembre 2018, tuttavia, è ben più ampio di quei numeri che la consacrano primatista dell’ora con 48.007 metri percorsi. C’è il ricordo delle persone che alla sua impresa avevano creduto giusto il tempo di una chiacchierata e poi l’avevano lasciata sola; c’è Tom Kirk, allenatore di Oxford; c’è Daniele Fiorin, «l’uomo che mi ha letteralmente messo in pista e mi ha insegnato a starci dignitosamente»; c’è la Nazionale, che ha concesso tutti i mezzi; e c’è il suo compagno, Rocco: «Lui non mi ha mai abbandonato. Anche quando ho stravolto la mia vita brancolando nel nulla, ha affrontato tutti i sacrifici con me, rinunciando a tante cose in prima persona. Certe volte spingendomi lui stesso a fare le scelte che volevo. Il Record dell’Ora non è solo mio, è nostro. Quel giorno lui ha veramente pedalato con me: non avevo alcun contatto con l’esterno, lui era in pista. Non lo vedevo ma sentivo la sua voce. Mi tenevo a galla con quel suono. Quelle corde vocali erano il mio tutto».

E ancora c’è il Messico, Aguascalientes, e la fiducia di quelle persone che hanno continuato a credere in lei nonostante il fallimento del primo tentativo; quelle persone che «sprigionano un’accoglienza e un entusiasmo che noi non saremmo mai in grado di dare». Un luogo in cui Vittoria Bussi tornerebbe volentieri, anche subito.
Da quell’ambiente che non le è piaciuto sin dall’inizio, Bussi salva la nazionale italiana in cui «si respira un’altra aria». E qui ritorna la ragazza studentessa e ricercatrice: «Un ricercatore come lavora? Per tentativi. La prima realtà di un ricercatore è il tentativo. Dino Salvoldi ragiona così. Non è facile offrire a una ragazza di più di trent’anni la possibilità che mi ha concesso lui. Si è fidato. Tutto l’ambiente si fida e ha quell’attenzione per il lato umano che ho sempre ricercato. Non lo nascondo: per me, talvolta, è anche imbarazzante. Lavoro con persone più giovani di me, ma dalle quali ho tutto da imparare. Ragazze che portano competenza e la leggerezza dei vent’anni. Salvoldi mi ha portato a un Mondiale. Essere in un gruppo con Guderzo, Longo Borghini, Cecchini e Valsecchi è la miglior ricompensa a quel tentativo azzardato di fare l’atleta. Cosa che all’epoca non potevo ancora capire bene: io vivevo di sensazioni, poi c’è tutto un lavoro che non si improvvisa. Con le ragazze abbiamo parlato tanto e di tutto: non so se loro si rendessero conto della mia contentezza nell’essere lì».
Della convocazione al Mondiale dello Yorkshire ricorda la telefonata: «Quasi non vedevo l’ora di riattaccare per lasciarmi andare ad un pianto liberatorio. E così ho fatto, sul tavolo della cucina». La parlata si addolcisce, quasi carezzata dalle sensazioni di quel momento, e Bussi ammette: «Il sì, la convocazione, sono stati importanti, non lo nego; ma lo sarebbe stato anche un no. Nella vita servono anche le sportellate in faccia. Si impara da quelle, alla fine».

Vittoria Bussi confessa che, in ogni caso, il rapporto con le colleghe è influenzato molto dal fatto dell’essersi specializzata nelle prove contro il tempo. Prove in cui si è essenzialmente soli: «Sai, tutti abbiamo paura di restare soli. È per questo che la cronometro spaventa: perché sei solo. Io ho imparato a convivere con la solitudine nelle notti trascorse in ospedale ad assistere papà quando lui non poteva parlare, non poteva dire niente. Notti lunghissime, l’alba non arrivava mai. In un silenzio che silenzio non è, perché il silenzio dell’ospedale è intriso dei rumori tipici dell’ospedale. Su una sedia, con i miei fogli, a rivedere appunti di matematica. Notti di angoscia. In quel momento ho dovuto imparare a restare sola, per quanto mi facesse paura. Per questo oggi la solitudine non mi spaventa più. Per questo oggi so affrontare la solitudine. Ho imparato. Pur non volendo, ho dovuto imparare. Le cronometro sono solo pezzi di vita in cui sei solo. In tanti pezzi di vita si resta soli. Non bisogna averne paura».
La paura, purtroppo, Vittoria Bussi l’ha riscoperta pedalando in strada. Tutto da quel 23 novembre 2019, giorno in cui una signora in auto l’ha investita mentre si allenava a Torino. Giorni difficili, in cui era complesso anche pensare di tornare in sella, con dolori ovunque e la sensazione di buttare via tempo restando fermi a letto. Una lettera affidata ai social network e rivolta a quella signora e un messaggio da trasmettere con sempre maggiore decisione: «C’è troppa confusione sulle strade: bisognerebbe tornare a fare educazione civica nelle scuole. Aumentare il volume dei manuali di scuola guida, per chi deve ancora prendere la patente, inserendo nuove tematiche, mostrando le varie interazioni tra auto, ciclisti e pedoni. Mentre per chi è già patentato, la soluzione a mio avviso sono le campagne di sensibilizzazione: continue, su ogni rete, pagate dal Ministero. Magari proprio con la collaborazione di atleti di livello. Un esempio di spot? Un pilota di Formula Uno che guida a duecento chilometri all’ora, incontra un ciclista, rallenta, supera correttamente e riparte. Al “Collare d’oro” volevo avvicinare Federica Pellegrini per proporre questa idea. Non c’è stata la possibilità. La gente deve capire che chi sta in strada, per piacere o per lavoro, corre dei rischi. Io e Federica siamo entrambe sportive di alto livello che si allenano, ma lei non corre gli stessi rischi che corro io».

È un problema culturale, quello di cui parla Vittoria Bussi: «Noi italiani ci alziamo la mattina pensando a come fregare lo Stato. Le leggi ci sono, ma poi vengono rispettate solo nello stretto frangente in cui si rischia una multa o una penalità. Allora all’estero, quando rispettano la legge, sono scemi? Chiediamocelo. Da quando è successo l’incidente di Michele Scarponi non è ancora cambiato nulla: qualcosa non va. Gli sforzi di Cristian Salvato e Alessandra Cappellotto sono encomiabili, ma serve una spinta sull’acceleratore a livello governativo. Per questo ho voluto parlare con Conte».
Seguendo questo ragionamento, Vittoria Bussi respinge ogni possibile addebito alla Federazione Ciclistica: “È uno dei tanti bersagli di questa situazione. Il problema è tipicamente italiano e non riguarda solo i ciclisti. Vogliamo parlare dei pedoni investiti? Dei bambini? Delle strisce pedonali che non vengono rispettate? In quel caso, qual Federazione dobbiamo tirare in causa, quella dei pedoni? Deve intervenire il Governo, e i nostri rappresentanti politici lo sanno bene. Evitano di farlo perché dovrebbero adottare misure che porterebbero a una perdita di voti, diciamoci la verità».
Sincerità e schiettezza, una volta tanto. Non si pronuncia sulla riforma 2020 perché «non conosco i dettagli e su queste cose è bene non fare discorsi approssimativi» e ammette di non aver avuto particolari idoli da giovane perché «non seguivo ciclismo, ma l’atletica. Poi mi sono appassionata praticandolo e qualcosa mi sono studiata, ma non ho un personaggio del passato a cui sono particolarmente legata». Il presente è un tempo da affrontare giorno dopo giorno, affiancata dal preparatore Fabrizio Tacchino – «gli sono enormemente grata, stiamo facendo qualcosa di incredibile» – e coadiuvata da Dino Salvoldi. Le Olimpiadi sono un «pensiero stupendo», ma anche qui la precisazione è disarmante nella sua semplicità: «Chi non vorrebbe andarci? Certo che vorrei andarci, ma sarei la prima a tirarmi indietro se mi rendessi conto di non essere pronta. Alle Olimpiadi bisogna dare il massimo ed è dovere di ogni atleta rinunciarvi se non si sente all’altezza».

I momenti più belli del tempo libero sono in cucina, con il compagno, «a fargli da segretaria mentre cucina per poi cenare assieme. Dico sempre che, se rinascessi, vorrei fare la critica culinaria itinerante. Del resto, a Roma siamo bravi a cucinare e anche simpatici». Vittoria Bussi non ama guardare in volto il futuro, ma se lo fa vede istinti vecchi e nuovi affetti: «La testa mi dice che sarebbe bello se il mio futuro fosse nel ciclismo. Lo sport mi sta dando tanto. Dentro sento che le passioni per lo studio e per la matematica non sono ancora spente, ma quello della ricerca è un mondo molto competitivo e non potrei mai tornarci oggi. Forse come insegnante di matematica, perché no? Poi c’è l’idea della famiglia, con Rocco. È una delle cose di cui parliamo più spesso». Ma in fondo, qualunque sia il futuro di Vittoria Bussi la sua capacità di disegnarlo lascia una consapevolezza: sarà qualcosa di molto simile alla bellezza.
Foto in evidenza: ©Sport Power Mind, Twitter