Di mappe, tappe, gemelli e quant’altro

Mente i big sonnecchiano, la prima tappa sui Pirenei premia Yates, Simon.

 

La necessità, nello sport contemporaneo, ma anche più banalmente nella cultura contemporanea, ma forse un po’ in tutte le culture, è quella di ritrovarsi sulla mappa. Ah, la fantomatica mappa, ma qualcuno ti ci deve mettere. Per la famiglia Yates è andata in maniera abbastanza lineare.

Il padre non andava tanto forte, poi sono nati due gemelli, i quali, al contrario, andavano forte su pista e vanno molto forte su strada, ma a capire chi dei due abbia messo la famiglia sulla mappa del ciclismo mondiale, ecco, questo è un bel dilemma.

Da piccolo forse andava più forte Adam, poi piano piano il fratello ha rosicchiato terreno e nel 2013, ai campionati mondiali di ciclismo su pista, è arrivato il primo acuto tra i professionisti: Simon vince il titolo mondiale nella gara a punti. Giusto il tempo delle congratulazioni, poi nel 2014 passano entrambi alla Orica-GreenEDGE, World Tour, ciclismo su strada.

Va decisamente più forte Adam: nel 2015 vince la San Sebastian, nel 2016 vince la maglia bianca al Tour de France finendo ai piedi del podio. Gli Yates sono sulla mappa per merito di Adam, passano un paio d’anni e le gerarchie si ribaltano nuovamente: Simon spadroneggia al Giro per due settimane – prima di abissarsi sul Colle delle Finestre – , a settembre si porta a casa la Vuelta, il primo Grande Giro per uno dei due Yates, adesso è lui a mettere la famiglia sulla mappa, senza dubbio.

Si arriva al presente: Simon corre un Giro d’Italia da spavento nel senso più negativo del termine, si presenta al Tour e non fa nemmeno finta di essere, in linea teorica, uno dei migliori uomini da grandi giri del circuito. Il capitano è Adam, ma per quanto riguarda il posizionamento sulla mappa di questo Tour de France, almeno per adesso, ci pensa ancora Simon. Un ritardo omerico accumulato in questa prima metà della corsa gli consente di entrare nella fuga di giornata.

Più di quaranta corridori, nomi più o meno trascurabili, ottimi ciclisti, ma lontanissimi dai vertici della generale. È la prima tappa pirenaica, si scalano Peyresourde e Hourquette d’Ancizan, entrambi GPM di prima categoria, un primo assaggio di future battaglie, la prima occasione per esigere un po’ di movimento nel gruppo e venire accontentati con cinque, sei, massimo sette inquadrature di un plotone controllato dal Team Ineos nel quale non succede praticamente niente.

Giornata buona per chi scappa, magari per Calmejane, uno che non corre mai per piacere agli altri, ma sempre per urgenza personale. Sul Col de Peyresourde toglie dalla naftalina la pedalata dei giorni migliori, quella che, di questi tempi, non gli si vede spesso. La next big thing del ciclismo francese, dicevano quelli che ci capiscono, nel frattempo aspettiamo, magari, di capirci qualcosa, con uno così, non è mai detto.

Va forte Simon Clarke, almeno in discesa, almeno finché nessuno lo impensierisce, va forte anche il campione europeo, al secolo Matteo Trentin, uno che, se si arrivasse in volata, potrebbe regolarli tutti, ma d’altronde, la Mitchelton-Scott non è mai stata sulla mappa per merito suo. Forse proprio a Glasgow, ma si sa, la memoria corta è uno dei mali di questo mondo almeno quanto è necessaria per condurre un’attività sportiva agonistica di un certo tipo. Se Yates sta bene fa un po’ quello che gli pare, tanti saluti alle logiche di scuderia.

Staffilata dell’inglese alla sua maniera, soltanto Mühlberger, uno che ha lavorato tutta la giornata, uno per cui Sagan va matto, uno che non mette mai la BORA sulla mappa, forse quando è stato campione austriaco, ma figurarsi, a chi vuoi che interessi il campione austriaco.
Vanno su in due, scollinano ai -30 km dal traguardo, poi una lunga discesa con pochissimi tratti tecnici e la sensazione che forse disegnare delle tappe in questo modo rischia di non far avvicinare nessuno al ciclismo moderno. Nel senso, il pubblico abituale non lo perdi, ma quello non lo perdi nemmeno nei piattoni, nemmeno nei cronoprologo, ma se mettere due vette pirenaiche in questo modo ha senso, ecco, forse a chi scrive sfugge, il suddetto senso.

La volata c’è, ma è a tre. Nella interminabile discesa rinviene anche Pello Bilbao, uno che di finire sulla mappa non è che si sia preoccupato spesso, eppure, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, i giorni in cui sta bene è veramente un signor corridore, con all’attivo due tappe al Giro, una al Delfinato: insomma, di luogotenenti migliori se ne trovano pochi. È anche abbastanza veloce, ma la giornata sorride a Yates, Simon, che forse dovrà cambiare qualcosa nell’economia della sua preparazione stagionale per non finire totalmente fagocitato, a livello di fama, da Yates, Adam, uno che, come tutti gli altri big, oggi ha pensato solo a portare la bici al traguardo.

Si parlava di tappe, pardon di mappe, e di certo Bagnères-de-Bigorre non finisce sulla mappa per questo arrivo, magari più appropriato quello del 2013, quando vinse Dan Martin, bruciando Fuglsang in volata, o ancora meglio, nel 2008, quando Riccardo Riccò illuse il ciclismo italiano di essere l’ennesimo gioiello nostrano delle due ruote. Lui, aveva rimesso il ciclismo italiano sulla mappa del Tour, facendo un numero impressionante sul Col d’Aspin e andando a vincere la tappa in solitaria. Chissà che Bagnères-de-Bigorre rimanga sulla mappa per quello, che la carriera di Riccò non ha tanto più ragione di essere raccontata, ma quella di Yates – scegliete voi quale – ha ancora tanto da dirci, e nel frattempo, aggiunge un’altra pagina memorabile.

Foto in evidenza ©LeTour, Twitter