Nibali vince l’ultima tappa, Bernal il Tour de France 2019.
Nessun sudamericano aveva mai vinto il Tour de France; nessun ventiduenne, dal secondo dopoguerra in poi, aveva mai vinto il Tour de France; nessuno, tuttavia, aveva dei dubbi relativi al fatto che, in qualche modo, Egan Bernal sarebbe stato nelle posizioni di testa quando la strada avrebbe iniziato a salire.
Non ha tradito le attese, non ha nemmeno avuto la fretta del novizio prodigio, la next big thing del ciclismo mondiale che deve dimostrare tutto e subito altrimenti poi la stampa non sa bene cosa scrivere. È rimasto calmo, ha aspettato che le condizioni fossero propizie, non ha avuto paura di testare la tenuta di Alaphilippe sui Pirenei e soprattutto sulle Alpi, fino a sferrare l’attacco decisivo sull’Iseran.
Una tempesta di pioggia e neve interrompe il godimento dello spettatore, e allo stesso tempo mette fine al regno di Alaphilippe, durato ben oltre ogni più rosea aspettativa. Maglia gialla a Bernal, ultima tappa (senza considerare la sfilata sugli Champs-Élysées) ridotta all’osso: 59 chilometri, da Albertville a Val Thorens, gli ultimi 33 in continua ascesa. Il meteo fa il suo gioco, come cent’anni fa, così come sarà tra cent’anni.
Poco tempo per le strategie; una classifica tanto corta quanto difficile da muovere in un tracciato così limitato, dove in tanti vanno alla ricerca dell’ultima carta da spendere per portare a casa una tappa. Tra questi, c’è anche Vincenzo Nibali, nell’ultima settimana quasi sempre in cerca dell’acuto partendo da lontano: essere così distante dalle posizioni di vertice non è affatto il suo habitat naturale, ma i campioni rimangono ossessionati dalla vittoria, in qualunque forma essa si possa presentare.
Sulle rampe finali di questo Tour de France, lo Squalo non smette mai di provarci, fino all’allungo decisivo, ai meno 13 dal traguardo, quando nessuno tra i compagni di fuga ha le gambe per seguirlo. Una progressione tambureggiante, una di quelle fiammate che lo ha reso il ciclista capace di vincere tutti e tre i grandi giri, di imporsi due volte al Lombardia, e una, strepitosa, alla Milano-Sanremo. Un monito: ciao, sono Vincenzo Nibali, ho trentaquattro anni e sono ancora capace di fare certi numeri. Casomai la stampa avesse bisogno di scrivere qualcosa, ecco.
Quasi in contemporanea alla sparata del corridore italiano, arriva la resa definitiva di Alaphilippe. Certi corridori sono emozionanti anche quando si staccano, mantengono quella pedalata così armoniosa, incapace di stonare, anche quando l’indicatore della benzina si aggira intorno allo zero. I francesi continuano a non vincere la Grande Boucle: bisogna risalire fino al 1985 per trovare Bernard Hinault in giallo sulle strade di Parigi.
Tutta colpa, o merito, della Jumbo-Visma, capace, con Bennett e De Plus, di stremare il gruppo in funzione di un allungo di Kruijswijk, allungo che non si concretizzerà mai. Forse per paura, magari per scelta, di certo ogni strategia, anche la più raffinata, dovrà sempre piegarsi alla volontà delle gambe, arbitri definitivi della contesa in bicicletta. Niente fuochi d’artificio, niente battaglia finale, niente scontro ad alta quota; si può cambiare anche il nome della squadra, ma il DNA rimane lo stesso.
La fu Sky, ora Ineos, porta a casa il suo settimo Tour de France nello spazio di otto anni, con la differenza che non è più un britannico ad alzare le braccia al cielo, ma un colombiano, che per un infortunio non ha corso il Giro e alla prima occasione buona si porta a casa il Tour. Nel 2014, a intramezzare il dominio targato Sir Dave Brailsford, ci ha pensato Vincenzo Nibali, che, sul traguardo di Val Thorens, allarga le braccia, le lascia molli, con i palmi delle mani rivolti verso l’altro. È andata così, non sapevo che altro fare. Noi invece lo sappiamo, perché ai campioni si porta sempre rispetto, dal momento che loro non lo tributeranno a chi ha dubitato quando torneranno a vincere. Su una cosa, d’altronde, non c’è alcun dubbio: i campioni trovano sempre un modo per vincere.
Lo ha trovato Vincenzo dopo essere stato battuto da Carapaz al Giro e aver corso un Tour lontano anni luce da ambizioni di classifica; lo ha trovato Bernal, nonostante la pressione di essere il favorito senza aver mai realmente vinto niente di importante prima di quest’anno; e lo troverà senz’altro Alaphilippe, del quale ormai bisognerà tenere conto, anche per la classifica generale dei grandi giri.
Per inciso: vincere una corsa come il Tour a ventidue anni è pura fantascienza, un esercizio di una complessità inenarrabile, portato a termine da un colombiano con due huevos enormi, che fa il paio con l’impresa di Richard Carapaz, prima maglia rosa per l’Ecuador. Si potrebbe pensare, si potrebbe solo sussurrare, che tra Europa e Nord America c’è un terzo polo di interesse che ormai non si limita a sparuti fuoriclasse, ma ha messo insieme un movimento in grado di sfornare un esercito di ciclisti pronti a ribaltare il vecchio ordine. Una prospettiva allettante, ma per ora godiamoci Bernal, che imprese così non succedono mica sempre.
Foto in evidenza: ©Le Tour de France UK, Twitter