Lo spazio che si riduce, l’ansia che sale, l’aria che manca e quel desiderio di scappare, liberarsi, sfuggire da quella forza opprimente che sembra stritolarti sempre di più. Il Lombardia 2020 è vissuto una morsa dopo l’altra, una successione di strette e tenaglie che hanno svuotato muscoli, prosciugato corpi, annebbiato menti e, sostanzialmente, deciso in maniera inequivocabile le sorti della seconda classica Monumento della stagione.
La prima, quella che più di tutti ha inciso sul rendimento dei concorrenti al via da Bergamo, è stata l’asfissiante morsa del caldo che ha spinto ancor di più i corridori ad aggrapparsi al salvifico potere delle borracce e a cimentarsi costantemente nel classico rituale dello spargimento d’acqua su tutto il corpo: braccia, bocca, testa e poi gambe. Non un centimetro di pelle poteva esimersi dall’essere annaffiato, pena il cedere ai distruttivi colpi dei crampi e alle infime trappole della fatica. Per molti, tuttavia, questa ripetitiva gestualità non è stata sufficiente e le forze, in maniera inesorabile, sono venute meno riducendo quella che doveva essere una corsa competitiva in bicicletta in un lento incedere su due ruote fino al traguardo (o, in diversi casi, al bus della propria squadra).
Chi poi, meglio di altri, è riuscito a schivare i pizzichi dell’arsura e restare nel vivo della competizione si è visto stringere dall’incedere e dalla presenza soffocante di altre due potenze ciclistiche, la Trek-Segafredo (infarcita di uomini con caratteristiche molto adatte al tracciato della manifestazione lombarda) e l’Astana, una delle formazioni più brillanti nelle prime settimane d’agosto. Sfruttando l’andatura feroce delle prime ore e la selezione naturale provocata dalle condizioni atmosferiche, in cima al temibile Muro di Sormano si pensava che il trio Mollema, Ciccone e Nibali di lì a breve avrebbe sfruttato l’ampia rosa di possibilità a disposizione per mantenere il titolo nella (ex) “Classica delle foglie morte”. Invece, sulle rampe del Civiglio, si è scoperto che lo sforzo aveva già scavato profondamente nelle leve di tutti i tre gli uomini in bianco-rosso costringendoli così a cedere il passo al trio che successivamente si è andato a giocare la gloria sul San Fermo della Battaglia, quello composto dal tenace George Bennett e dai compagni Alexandr Vlasov e Jakob Fuglsang.
Tutti e tre accreditati come possibili vincitori alla vigilia, nel finale costoro hanno dimostrato di aver maggior fondo, maggiori energie nei e miglior resistenza al caldo rispetto ai rivali, tutte qualità che hanno permesso a ciascuno di attaccare le pendici dell’ultima ultima erta di giornata e avere ampie chance di portarsi a casa il primo posto. È stato in questi frangenti (e nei chilometri di discesa e pianura precedenti) che la morsa celeste non ha lasciato scampo al malcapitato neozelandese che, prosciugato lentamente dal gioco di squadra dei due alleati, alla fine si è inchinato allo scatto risolutivo del nordico, abile così a far suo il secondo Monumento in carriera dopo la Liegi dello scorso anno e a regalare alla Danimarca il primo trionfo al Lombardia.
Solo tagliato il traguardo sul Lungo Lario gli animi dei corridori hanno potuto distendersi e trovare chi gioia e chi semplice ristoro dopo una giornata tra bollori e pendenze in doppia cifra. Prima, tuttavia, i cuori degli appassionati, di chi era nella zona dell’accaduto e di chi si è trovato a commentare l’evento sono stati presi in ostaggio da un’altra nemica della lucidità e della calma: la paura. È quella che ha pervaso tutti vedendo il terribile capitombolo di Remco Evenepoel oltre il parapetto di un ponte situato circa 7 chilometri più in basso della Colma di Sormano, un volo pauroso che ha ricordato sinistramente quelli di Laurens De Plus nello stesso tratto nel 2017 e di Philippe Gilbert al Tour de France un anno dopo. Stessa maglia, stesse dinamiche e per fortuna, anche in questo caso, il peggio scongiurato dopo lunghissimi minuti di terrore, lo stesso che forse avrà provato il giovane belga prima di compiere un salto di 5-6 metri verso un baratro dal fondo sconosciuto. Anche Vlasov dopo l’arrivo ha ammesso candidamente di avere avuto paura in quella picchiata rinomata per la sua tecnicità, quasi come se, in maniera ricorrente, la paura in quelle centinaia di metri fosse in grado di fare capolino e chiamare a sé gli avventori meno esperti per distrarli e accompagnarli in una marcia piena dubbi, titubanze, preoccupazioni e nervi tesi. Non si sa se sia stato questo subdolo richiamo, la stanchezza, un improvviso annebbiamento (quello che invece ha sicuramente avuto il guidatore dell’auto che ha pericolosamente centrato il povero Schachmann mentre cercava di raggiungere il traguardo a pochi chilometri dalla conclusione) o il trovarsi nella morsa di Trek e Astana a far pericolosamente scivolare Remco verso un destino ignoto.
Quello che è certo è che, assieme ai 175 faticatori sui pedali che hanno cercato di divincolarsi dai tormenti giornalieri provocati delle alte temperature, dai diabolici pericoli lungo la strada e dai team più ambiziosi pronti a sferzare il gruppo per raggiungere i propri obiettivi, anche tutti i presenti (realmente o solo con lo spirito) sulle festanti e colorate strade del Lombardia non hanno potuto fare a meno di sentirsi stringere gli stomaci al chilometro 186,2 di gara, chiusi nella morsa di un incubo che si è dipanato in fretta ma che sarà difficile da dimenticare perché viscerale e vivido. Vivido come la potenza di Fuglsang, la grinta di Nibali e la bellezza degli scorci lariani a Ferragosto, quelli che hanno fatto da sfondo a un Lombardia spettacolare ma privato del fascino inimitabile dei variopinti tappeti di foglie che in tanti sperano di tornare ad ammirare presto.
Foto in evidenza: ©Il lombardia, Facebook