Il Giro d’Italia 2020 partirà da Budapest: scelta controversa ma purtroppo necessaria.
Lamentarsi è un’abitudine e il problema delle abitudini è che spesso si trasformano in vizi. C’è sempre un buon motivo per lamentarsi, talvolta anche più di uno. E se così non fosse, si lamenterà l’assenza di problemi di cui lamentarsi. La traiettoria che il Giro d’Italia sta compiendo nelle ultime stagioni è un esempio emblematico. La monotonia del percorso è stata, almeno in parte, smorzata dalla introduzione di tappe miste anche nella prima metà di corsa e dalla sostanziale eliminazione di cronometro piatte che superavano i quaranta e i cinquanta chilometri; ulteriori sforzi sono stati profusi per attrarre i campioni stranieri, che in passato hanno usato più volte il Giro d’Italia per preparare il Tour de France o lo hanno disertato senza mezzi termini. Nemmeno queste migliorie apportate da RCS si sono rivelate sufficienti per placare la sete di lamento di migliaia di appassionati: le scelte geografiche, e nello specifico l’ufficialità della partenza da Budapest del Giro d’Italia 2020, sono il pretesto più recente per indignarsi.
Basta un attimo per creare il mito del Giro d’Italia razzista, una festa italiana che però inizia all’estero. Come se stessimo parlando di volontariato o beneficenza, come se l’organizzazione non dovesse fronteggiare impegni economici. Per continuare ad esistere, il Giro d’Italia ha bisogno di soldi: se il Meridione o una qualsiasi località italiana interessata ad ospitare la grande partenza non può garantirli, RCS ha tutto il diritto di guardare altrove. È forse una scelta fredda, materialistica, utilitaristica? Sì. Non si riesce ad accettare che l’amore, la partecipazione e la passione non bastino a campare. È la storia del mondo, purtroppo.
D’altronde basta rileggere le parole delle autorità ungheresi e italiane coinvolte. Si parla di evento mediatico, di promozione del territorio, di turisti; e ancora, di televisione, di accordo, di progetto. Il ciclismo, come gran parte dei suoi colleghi, è sempre più spettacolo e sempre meno sport. Il sistema-mondo va in questa direzione da anni e il ciclismo non ha assolutamente la forza per ribellarsi e funzionare altrimenti. Se vogliamo una corsa di alto livello, questo è il prezzo da pagare. Un’alternativa c’è: tornare a quindici anni fa, quando i migliori del Giro d’Italia andavano al Tour de France per svolgere ruoli di gregariato, tutt’al più per buttarsi nelle fughe nella speranza di raccogliere qualcosa.
Agli organizzatori chiediamo però un’accortezza: smettiamola di raccontarci storie che giustificano l’investimento. Si dica una volta per tutte che se il Giro d’Italia vuole sopravvivere deve partire da una grande capitale straniera un anno sì e uno no. Non è una questione di europeismo né di rimandi storici. Sfruttare l’immagine di Bartali per dare un senso alla scelta di Gerusalemme fu quantomeno di cattivo gusto: che non risucceda, allora. Perché è anche questo a infastidire: il costante utilizzo di parole ormai svuotate del loro senso che vengono recitate senza arte né parte, senza nemmeno crederci.
Foto in evidenza: ©Giro d’Italia, Twitter