Il ciclismo raccontato attraverso il filtro della nostalgia non regge più.
Più di ogni altro sport, il ciclismo mostra il fianco alle coltellate della nostalgia e “la colpa” va ritrovata nel passato mitico di questo sport: le strade sterrate, le distanze siderali, i mezzi rudimentali e un ambiente essenziale, infatti, sono degli argomenti che si prestano benissimo ad una narrazione di un certo tipo. Al resto ci hanno pensato un secolo intero – banalmente, denso di eventi perché lungo cent’anni – e dei personaggi memorabili, non necessariamente dei campioni.
Basta poco per smascherare l’inganno della nostalgia: eventi modesti del passato diventano pietre miliari sulle quali ricostruire il presente, strumenti come il confronto e il paragone vengono sfruttati nel peggior modo possibile e la contemporaneità diventa priva d’interesse. Purtroppo si continua a confondere il passato con la nostalgia: se il passato è la totalità degli eventi accaduti, la nostalgia è solo una delle tante chiavi per raccontarlo. Questo spiega perché in diverse occasioni chi indossa le lenti della nostalgia finisce per rimpiangere tutto – l’atmosfera, la salute e la forza, l’età che aveva e che ora non ha più – tranne l’evento in sé.
Da un punto di vista strettamente giornalistico, la nostalgia è estremamente limitante: vengono riproposte sempre le stesse storie e gli stessi personaggi, il messaggio delle stesse appassisce e il presente diventa soltanto il termine di paragone che riabilita per l’ennesima volta il passato. E invece l’attualità ha molto da dire: il ciclismo non può e non deve essere ridotto al racconto più o meno stereotipato delle imprese di Bartali, Coppi e Pantani – roba di vent’anni fa, per dire che il nostalgico è in grado di far diventare nostalgia qualunque cosa.
Il 2019 è stata una stagione di trionfi memorabili: Richard Carapaz è diventato il primo ecuadoriano a vincere il Giro d’Italia, Egan Bernal il primo colombiano a vincere il Tour de France, Primož Roglič il primo sloveno a vincere la Vuelta a España e Mads Pedersen il primo danese a vincere la prova in linea dei campionati del mondo. Alberto Bettiol, invece, non sarà stato il primo italiano a vincere il Giro delle Fiandre, ma il Giro delle Fiandre è stata la sua corsa conquistata tra i professionisti: una rarità perfino per il passato.
Nelle classiche si danno battaglia corridori come Sagan, Gilbert, Valverde. Sagan è l’unico corridore nella storia del ciclismo ad aver vinto la prova in linea dei campionati del mondo per tre anni consecutivi e la maglia verde del Tour de France in ben sette occasioni; Valverde è uno dei corridori più longevi che il ciclismo abbia mai conosciuto e uno dei più vincenti degli ultimi decenni; Gilbert è il primo corridore dai tempi di Sean Kelly capace di trionfare almeno una volta in quattro diverse classiche monumento, se riuscisse a conquistare la Milano-Sanremo diventerebbe il quarto corridore della storia ad averle vinte tutte e cinque – gli altri tre sono Van Looy, Merckx e De Vlaeminck. Nel 2016 Esteban Chaves ha vinto il Giro di Lombardia, facendo salire per la prima volta la Colombia sul gradino più alto del podio di una classica monumento. E pensare che fino a qualche anno fa c’erano anche Tom Boonen e Fabian Cancellara.
La musica non cambia tra gli scalatori. Dopo le prime romantiche e umilianti apparizioni tra gli anni ottanta e novanta, i colombiani sono riusciti ad affermarsi nei tre grandi giri; Chris Froome li ha vinti tutti e tre, e seppur sia reduce da un terribile infortunio può ancora sperare di vincere il quinto Tour de France della sua carriera; Vincenzo Nibali, oltre ad essere uno dei sette corridori della storia ad aver vinto almeno una volta i tre grandi giri, è il primo corridore dai tempi di Laurent Fignon a primeggiare tanto al Tour de France quanto alla Milano-Sanremo. Con la vittoria al Giro d’Italia 2017, Tom Dumoulin è diventato il primo olandese a vincere la corsa italiana. E un fuoriclasse come Alberto Contador si è ritirato appena due anni fa.
E ancora: Viviani, che alle vittorie al Giro d’Italia e al Tour de France alterna quelle su pista; Cavendish, Greipel e Kittel, tre dei velocisti più forti e vincenti che il ciclismo abbia mai visto; van der Poel e van Aert, emblemi della multidisciplinarietà e del talento cristallino; Tony Martin, insieme a Wiggins e Cancellara uno dei passisti più potenti e stilisticamente inappuntabili; Evenepoel, Pogačar e Sivakov, i quali dovranno dimostrare di essere all’altezza delle enormi aspettative che loro stessi hanno contribuito ad alimentare con dei debutti folgoranti. Marianne Vos, soprattutto Marianne Vos: il ciclismo deve esserle grato.
E poi ci sono Alaphilippe, Van Avermaet, Bastianelli, van Vleuten, van der Breggen, e chissà quanti ne dimentichiamo. Un ciclismo pieno di campioni, di belle giornate – Froome al Giro d’Italia 2018, Gilbert al Giro delle Fiandre 2017, Peter Sagan alla Parigi-Roubaix 2018, van Vleuten ad Harrogate nel 2019 -, di curiosità e di personaggi tutt’altro che monotoni, piatti, grigi. Le storie bisogna andare a cercarle: costano fatica, tempo e voglia di stare ascoltare, di leggere, di studiare, di provare a capire.
Il passato insegna molto e anche quando non insegna arricchisce coi suoi racconti. Il suo valore ce lo ha ricordato il 2019, che in pochi mesi si è portato via Sercu, Gimondi e Poulidor, ai quali non saremo mai grati abbastanza. Ma non confondiamo il passato con la nostalgia: del passato abbiamo bisogno tutti, della nostalgia non ha bisogno nessuno.
Foto in evidenza: ©Tour de France, Twitter