Di cosa si parla quando si parla di cultura sportiva?
Quand’è arrivata in Italia la notizia della morte di Kobe Bryant, ci sono rimasto male nella misura in cui può lasciarci frastornati la notizia della scomparsa di un personaggio famoso, direi globale. Era giovane, aveva quarantuno anni, e dal 1996 al 2016 la sua stella era stata una delle più luminose del firmamento della NBA, il massimo campionato cestistico, probabilmente la lega sportiva più competitiva, esigente e spettacolare del panorama sportivo mondiale. Non ho sfogliato nessun giornale, non ho consultato nessun sito, non ho visto nessun video commemorativo: non mi sembrava giusto appassionarmi ad uno sport in uno dei suoi giorni più tristi; forse non m’interessava nemmeno, e non credo ci sia niente di sbagliato.
Tuttavia, chi si occupa di giornalismo in senso ampio – diciamo un quotidiano – e chi si occupa di giornalismo sportivo – diciamo un quotidiano sportivo -, ha un dovere professionale da rispettare: dedicare un pensiero e un po’ di spazio, per quanto insufficienti e parziali, ad un evento che ha toccato decine di milioni di persone. Tanti quotidiani europei, infatti, hanno pensato bene di dedicare l’intera prima pagina a Kobe Bryant: lo hanno fatto L’Équipe, Sport, Marca, AS. Non lo hanno fatto quelli italiani: La Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Corriere dello Sport. Marco Belinelli, rappresentante di spicco dello sport italiano dato che gioca in NBA da un decennio abbondante, non le ha mandate a dire.
Guidato da non si sa quale intento filosofico o sociologico, ho sorvolato la questione provando ad andare oltre. Mi sono posto una domanda piuttosto scema, una di quelle che lascia impotenti perché troppo complessa: cos’è la cultura sportiva? Se esiste, chi sono i depositari della suddetta? Dove dobbiamo cercarla? Chi dovrebbe occuparsene? Le risposte che seguono possono rivelarsi inattendibili. Sono le riflessioni di un giornalista senza tesserino, di un venticinquenne convinto di sapere tutto del mondo quando in realtà, del mondo, sa poco e nulla. Come ogni giovane, praticamente.
«La scuola dovrà pur avere un ruolo in tutto questo», mi sono detto. Dovrebbe averlo, certo, ma non credo ce l’abbia. Mi pare che l’Italia abbia vergognosamente abdicato al suo ruolo di insegnante, di maestro, di guida. Nelle scuole italiane, lo sport si limita a due ore settimanali di Educazione Fisica; le scuole, da luogo di formazione e di passione, sono diventate delle catene di montaggio: generano occupazione, svogliatezza, ignoranza. Da questo punto di vista, la mia età da inetto si rivela un vantaggio: posso parlare con cognizione di causa, se è vero che si va a scuola fino ai vent’anni.
In Italia, lo sport non è mai stato considerato degno d’attenzione da parte degli scrittori, dei registi, degli intellettuali: da parte della cultura, almeno non se ne parla più. Così su due piedi mi vengono in mente le parole di Pasolini e Bene sul calcio, ma “calcio” non è sinonimo di “sport”, anche se in Italia si è spesso portati a pensarlo. I libri sullo sport sono tanti e ce ne sono anche di buoni: ma sono raccolte, biografie più o meno riuscite. Nessun romanzo, che io sappia; nessuna storia edificante, se mi spiego. Lo stesso discorso si potrebbe estendere al mondo del cinema: com’è possibile che nessun regista abbia mai pensato a rappresentare almeno una delle grandi storie dello sport italiano? Qualcosa su Coppi e Bartali, su Pantani, sul Grande Torino ci sarà, ne sono sicuro: alcuni ricordo d’averli visti, riguardo agli altri nutro soltanto una speranza. Ma è sempre troppo poco, considerando quello che l’Italia può offrire.
Allora rimangono i cosiddetti media: i quotidiani, i giornali, le riviste, la televisione, la radio, i siti internet. Il problema, in questo caso, è che il criterio del “giusto” è stato soppiantato da quello dell’utile; anzi, di più: l’utile è diventato giusto da perseguire, da inseguire, da ricercare. Qualcuno dice che il giornalismo sportivo italiano, un tempo, era composto da fuoriclasse. Sono d’accordo: Raschi, Vergani, Mura, Brera, Clerici, Viola, Ciotti, Pizzul e chissà quanti ne dimentico. Tuttavia, mi sia concessa una bestemmia: un conto è saper scrivere bene – e quindi, se vogliamo, saper ascoltare bene e saper osservare bene; un altro conto, invece, è la cultura sportiva.
Per spiegarmi meglio porterò un esempio personale. Recentemente ho letto Wimbledon, edito da Mondadori, in sostanza una raccolta di articoli tennistici di Gianni Clerici che vertono perlopiù su Wimbledon – ma c’è anche dell’altro. Un lavoro ineccepibile: una carriera lunga e prolifica, una marea di esperienze più uniche che rare, una proprietà di linguaggio invidiabile. Gianni Clerici è un vanto del giornalismo italiano senza ulteriori specifiche. Eppure, ecco cosa intendevo prima, ci sono dei passaggi sul tennis femminile che fanno storcere il naso: mi sembrano talvolta maschilisti, talvolta sessisti, spesso denigratori. Per dire che la soluzione non abita in un passato glorioso, non è la lettura di certi romanzi o una certa bravura nella scrittura: questi sono elementi imprescindibili, è ovvio, ma possono non bastare. Lo sport non va soltanto saputo raccontare: bisogna anche vederlo e viverlo nella maniera giusta. E bisogna essere onesti, altrimenti una buona penna può passare dalla parte della propaganda in meno di un secondo – la storia insegna.
Non ho bisogno di dati per capire che, oggigiorno, si legge poco e si capisce ancora meno. In Italia, ma anche nel mondo, è in corso un processo di abbrutimento che va avanti da anni. La volgarità è diventata la norma: non spaventa e non imbarazza più, ormai. L’ignoranza continua ad accomunare, ma non più come punto di partenza, bensì come d’arrivo. Un processo di cui tutti, ovviamente, si sentono osservatori e critici: degli esterni, insomma, quando invece si dovrebbero sentire dei fautori e delle vittime. Non è la società odierna ad aver creato dei mostri: siamo stati noi ad aver creato una società odierna povera, brutta e volgare.
Secondo Luc Bronner, direttore di Le Monde, e Mark Thompson, amministratore delegato del New York Times, l’unica strada percorribile è quella della qualità: qualche articolo in meno ma scritto bene, ben architettato e approfondito, piuttosto che una sfilza di rilanci stampa senza arte né parte. Per far questo, Le Monde e New York Times si sono mossi apparentemente in controtendenza: espandono il tempo a loro disposizione in una realtà che fa di tutto per comprimerlo e assumono giornalisti in un mondo che sfoltisce la categoria come fosse una siepe. Soltanto il tempo darà una risposta: per ora, questa strategia sembra la più interessante – e la più giusta, la più onesta, la più inattaccabile.
Oggi, lo sport è la materia più seguita e dibattuta. Ancor più dai ragazzi, per i quali spesso è la prima e talvolta, purtroppo, l’unica. Se è vero, ed è vero, che i ragazzi di oggi sono gli adulti di domani, l’esito della società del futuro dipenderà anche dal livello che la narrazione e la cultura sportive avranno raggiunto. Credo che chi si occupa di sport, oggi più che mai, debba rendersi conto della situazione e accettare una grande responsabilità. È la sfida più grande che il giornalismo sportivo abbia mai affrontato – e che, probabilmente, combatte da almeno un secolo a sua insaputa.
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