Seguire il Giro d’Italia ci ha stimolato un’importante riflessione sul giornalismo.
Forse il problema è che l’abitudine anestetizza qualcosa nella memoria. Le sensazioni, ad esempio. Le prime volte, probabilmente. La fortuna, sicuramente. Altrimenti tante cose sono quasi impossibili da spiegare. Almeno per chi pone alla base di questo lavoro la passione per lo sport. Troviamo inspiegabile il senso di peso, quasi di noia, di nervosismo, di alcuni addetti ai lavori al seguito del Giro d’Italia. Troppo spesso si incontrano persone per cui tutto è un problema enorme: la stagione, la sala stampa, la navetta in ritardo, la cena fuori orario, la sveglia puntata all’alba, i trasferimenti; e ci fermiamo qui, perché l’elenco delle lamentele udite in corsa è sterminato e non vogliamo trasformare questo editoriale in una lista. Tuttavia, una cosa vogliamo dirla: con umiltà, s’intende, ma con la chiarezza che ci contraddistingue.
Il Giro d’Italia è uno degli appuntamenti ciclistici più importanti al mondo. Ci sono milioni di telespettatori in Italia e all’estero che lo seguono; ci sono svariate decine di bambini e ragazzi che vorrebbero essere ogni giorno sulle strade, ma non possono, un po’ per gli impegni e un po’ perché viaggiare costa. Non possono perché sono troppo piccoli o troppo grandi e magari hanno un altro lavoro che gli impedisce una regolare presenza in corsa. Persone che approfittano di ogni pausa per controllare l’andamento della corsa, per dare un’occhiata al paesaggio o ai festeggiamenti; persone che quando vengono alle gare e si mettono dietro le transenne sprigionano energia a volontà; persone che s’emozionano, disposte a scalare montagne a piedi, a prendere diluvi e lenire scottature, a tornare a casa a notte fonda con tosse e raffreddore. E poi ci sono gli atleti, quelli di cui decantiamo enfaticamente (forse anche troppo, in certi casi) le gesta. Loro gareggiano e poi si spostano, si trasferiscono, arrivano a tarda sera in albergo e dopo i massaggi sanno di essere attesi da qualche ora di meritato riposo prima di ripartire e pedalare, di nuovo.
Noi siamo dei privilegiati, forse dovremmo ricordarcelo: chiunque segua dal vivo lo sport che ama è un privilegiato. Noi rientriamo in questa categoria insieme a tanti altri giornalisti e addetti ai lavori. Che credibilità possiamo avere se ci esaltiamo davanti ai microfoni e poi ci lamentiamo di tutto e quasi non vediamo l’ora che la corsa finisca per tornare a casa o in hotel? Che senso ha snocciolare le edizioni del Giro d’Italia seguite da inviati se poi ognuna di queste è stata vissuta come una sorta di via crucis? Che senso ha restare in un mondo se quel mondo non vi piace? Il giornalismo, come ogni altro ambiente lavorativo, ha bisogno di persone appassionate. Persone che hanno cuore e sensibilità, non soltanto lamentele.
Ripensate alle prime volte in cui eravate in corsa: non eravate entusiasti? Non vi andava bene tutto perché, in fondo, l’importante era esserci ed essere stati inviati? Se le supposizioni sono corrette, provate a ritrovare quella predisposizione. Non dev’essere il numero di corse seguite, sbandierato come trofeo, a spegnere quella fiamma di passione. Lamentatevi quando e se serve. Poi abbiate l’animo per osservare, raccontare e stupirvi. Se no, ovvero se quella predisposizione non l’avete mai avuta e in questo mondo ci siete finiti per altri motivi, fatevi un esame di coscienza e valutate cosa fare. Per voi, per il vostro benessere e per quello del ciclismo che non si merita musi lunghi e visi scuri. In fondo, la scelta del lavoro è libera ed il nostro lavoro è forse uno dei più ambiti. Un lavoro per cui essere grati.
Foto in evidenza: ©Claudio Bergamaschi