Per un ciclismo vecchio e nostalgico, le gare virtuali sono inaccettabili.

 

 

Dopo quelli sulle radioline, sui potenziometri e sui freni a disco, si è ufficialmente aperto l’ennesimo dibattito sopravvalutato e superfluo: quello sulle gare virtuali. Era preventivabile, considerando l’impennata che la tecnologia ha conosciuto nelle ultime settimane. Altro che le reti umane: ad uscire ingigantite da questo periodo saranno quelle tecnologiche, senza le quali non avremmo potuto continuare a lavorare e rimanere in contatto con i nostri cari. Magari è la volta buona che facciamo pace con la tecnologia, tenendo bene a mente che è tutto fuorché neutrale ma che, allo stesso tempo, reputarla demoniaca senza nemmeno conoscerla è il modo migliore per rimanerne vittime, godendo soltanto dei suoi aspetti peggiori.

Eppure, nonostante fosse prevedibile, questa crociata contro le gare virtuali risulta essere piuttosto fastidiosa. Che il ciclismo è un mondo vecchio, nostalgico e integralista non lo scopriamo certo oggi. Infatti lo dette per morto Desgrange agli inizi del ‘900 quando venne introdotto il cambio, che lui giudicava un artificio meccanico per rammolliti: chissà cosa penserebbe sapendoci ancora qui, a bestemmiare perché il ciclismo è fermo. Da Desgrange in poi il ciclismo è stato dato per morto qualche altra decina di volte, un po’ come succedeva con Fidel Castro finché nel 2016 non è morto per davvero.

Invece d’essere viste per quello che sono – un ottimo allenamento, un pretesto per pedalare insieme ai propri sostenitori, una scusa per passare un pomeriggio diverso -, vengono volutamente viste per quello che non sono. Nessuno ha detto che le gare virtuali sono migliori delle gare reali, anche se ascoltando la platea degli appassionati parrebbe di sì. Probabilmente è l’ennesima scusa per sparare a zero e per declamare la morte del ciclismo, d’altronde uno dovrà pur inventarsi qualcosa per passare il tempo in questi giorni. Sull’effettiva tangibilità delle gare virtuali, poi, meglio non addentrarsi troppo: non saranno gare a tutti gli effetti, d’accordo, ma al termine dell’edizione virtuale del Giro delle Fiandre Greg Van Avermaet non sembrava così riposato.

Dunque le gare virtuali rivestiranno un’importanza sempre maggiore? Assolutamente sì. Piaccia o meno, si capisce: il progresso non si è mai curato di quello che introduceva e di quello che soppiantava – o modificava, o integrava. Sarà questa la morte del ciclismo? Non lo so, credo di no. I pareri di Dumoulin e Sagan – «noi siamo corridori reali, mica virtuali» -, seppur intrisi di una faciloneria e di una retorica al limite dello stucchevole, sono indicativi: i corridori hanno ancora voglia di strada e di contatto, di salita e di discesa, di intemperie atmosferiche e aria aperta. E ne avranno ancora per un bel po’, considerando l’insofferenza con la quale tutti loro stanno pedalando sui rulli in queste settimane di quarantena forzata.

Forse dovremmo prenderci un po’ meno sul serio, ricordare tutte le rivoluzioni alle quali il ciclismo è sopravvissuto e non rapportare tutto quanto ai tempi di Coppi e Bartali – i quali, per inciso, godevano di tutti quei pochi agi che il ciclismo dell’epoca poteva offrire loro. Così come le polemiche sui freni a disco, sulle radioline e sui potenziometri sono cadute nel dimenticatoio, verosimilmente toccherà una sorte simile anche a quelle che riguardano il ciclismo virtuale. I problemi veri che il ciclismo deve affrontare sono altri: si chiamano sicurezza stradale, esasperazione giovanile, questione femminile, sostenibilità economica. Nelle ultime settimane il movimento ciclistico internazionale s’è reso conto d’aver buttato via troppo tempo in battaglie secondarie e campanilistiche. No, il problema del ciclismo non erano freni a disco, potenziometri e radioline.

 

 

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Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.