Le riforme volute da David Lappartient sono tutt’altro che sensate.

 

 

Come riportato recentemente da La Gazzetta dello Sport, il World Tour a venti squadre non è più un sogno – per molti di noi non lo è mai stato, sia chiaro: sarà realtà a partire dal 2020, in anticipo sulla tabella di marcia che lo stesso David Lappartient, il presidente dell’UCI, aveva ipotizzato e che collocava l’avvento del World Tour a venti squadre entro il 2022. Per l’ennesima volta, i vertici sportivi prendono delle decisioni che contrastano col ciclismo pedalato.

Il World Tour come lo conosciamo oggi è composto da diciotto squadre. Delle ventidue che partecipano al Giro d’Italia, ad esempio, diciotto vengono proprio dalla massima serie, essendo obbligate a prendervi parte. Agli organizzatori rimangono quattro inviti a disposizione: si possono senz’altro sindacare i criteri di assegnazione delle wild card, ma quantomeno quattro squadre Professional avevano la possibilità di correre l’evento ciclistico più prestigioso d’Italia. Portando il numero di squadre del World Tour da diciotto a venti, gli inviti disponibili si dimezzano: da quattro ne rimangono due.

Come se questo non bastasse, l’ombra della riforma che coinvolge le Professional e che ha fatto andare su tutte le furie gran parte del ciclismo italiano è ancora pericolosamente concreta; se dovesse entrare definitivamente in vigore, gli organizzatori avrebbero le mani legate anche sui due inviti rimasti a loro disposizione: andrebbero, infatti, di diritto alle prime due Professional che comandano una speciale classifica a punti. Soltanto dopo un loro rifiuto verrebbero prese in considerazione le altre.

Lo scoramento deriva dal fatto che, a meno di clamorose rivoluzioni, i nomi delle squadre che beneficeranno di tutto questo si conoscono già: Cofidis, Total Direct Énergie, Arkéa-Samsic. Tutte francesi, ovviamente: perché sono le più ricche e perché David Lappartient non è di certo il primo presidente dell’UCI che strizza l’occhio al movimento del proprio paese. Cofidis e Total Direct Énergie paiono le due candidate più concrete ad occupare il diciannovesimo e il ventesimo posto del nuovo World Tour, mentre l’Arkéa-Samsic dovrebbe essere la prima alternativa alla Katusha, la quale perdendo Alpecin potrebbe incontrare diverse difficoltà nel rimanere a galla.

La riforma prevede anche l’aumento del numero minimo di corridori per squadra: ventisette e non più ventitré per le squadre del World Tour, venti e non più sedici per le Professional. Potranno approdare al professionismo più corridori, è vero, ma le spese aumentano ancora una volta e a risentirne potrebbe essere la qualità: perché al di là di tutte le questioni pratiche ed economiche, il World Tour a venti squadre è inaccettabile prima di tutto da un punto di vista qualitativo.

Come riassunse magistralmente Silvio Martinello in un’intervista concessaci all’inizio della stagione, è impossibile che tutti i cinquecento atleti circa del World Tour meritino di farne parte. Se fino a un paio di decenni fa i corridori non erano più di duecentocinquanta, un motivo ci sarà stato. I risultati raccolti da alcune squadre lo testimoniano: Dimension Data, CCC e Katusha Alpecin, ad esempio, si salvano soltanto grazie alle estemporanee vittorie dei loro leader – Van Avermaet e Politt sono gli unici di queste tre squadre che si distinguono per costanza, a differenza dei vari Boasson Hagen, Zakarin, Valgren, Špilak.

Questi cambiamenti, dunque, non fanno altro che arricchire i vertici e le istituzioni, non di certo il movimento ciclistico nella sua globalità. Basti pensare agli effetti che le riforme sopracitate potrebbero avere sul ciclismo italiano: quali corse potranno garantire i manager agli sponsor? Come giustificare un loro eventuale impegno? Com’è possibile pensare di competere sul lungo termine con squadre che possono contare su un budget doppio, triplo, decuplo? Il ciclismo rischia di restare impantanato nel nome dei soldi: niente di nuovo, e il problema è proprio questo.

 

 

Foto in evidenza: ©David Lappartient, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.