Van Aert vuole riprendersi il posto perso al Tour de France 2019.
Sdraiato per terra sull’asfalto ruvido di Pau, Pirenei francesi, Wout van Aert pensava che la sua carriera fosse finita. Mentre il sole picchiava adirato sulla testa di corridori e tifosi, le immagini mostravano il corridore col volto tumefatto dal dolore; chi era lì vicino sentiva urlare. Il tricolore che indossava non era mai sembrato così cupo. L’arrivo dell’ambulanza non fece che accrescere la sensazione di disagio e l’attesa di notizie rincuoranti diventava il motivo principale di quel pomeriggio di mezza estate. «Van Aert è stato trasportato in ospedale. Ha subito la lacerazione di un muscolo, ma nessuna frattura. È rimasto sempre cosciente», comunicò la sua squadra nel giro di qualche ora.
«A un certo punto ho pensato che non avrei più corso in bici», racconta van Aert settimane più tardi. Sei mesi e mezzo dopo l’incidente al Tour lo ritroviamo a Dübendorf, dov’è in programma il Mondiale di ciclocross. Il suo volto ora è mascherato dal fango e dietro quei pezzi di melma incrostata che gli disegnano un trucco bizzarro tutto intorno al viso, spuntano due occhi leggermente a mandorla che sembrano invocare fastidio; oppure, più semplicemente, evidenziano l’aspetto del crossista.
Davanti van der Poel è scappato e van Aert patisce lo scorgere del suo principale avversario sfuggitogli per l’ennesima volta. Dopo otto anni consecutivi sul podio iridato, il giovane belga vede fare agli altri ciò che è sempre riuscito bene a lui: pedalare in maniera agile, potente, vincente, un’esibizione che viene naturale a un ragazzo nato e cresciuto in mezzo al fango; lui, podista in bicicletta, e che avrebbe fatto carriera anche nella corsa campestre, ma dove di sicuro avrebbe guadagnato meno fama.
Assiste da lontano all’ennesima fuga verso la vittoria del rivale, dal primo metro, dalla prima curva: l’olandese domina la corsa come fece proprio van Aert a Valkenburg nel 2018. A Mathieu van der Poel riesce tutto alla perfezione da un po’ di tempo a questa parte, vincerebbe anche se fosse impegnato nel tiro a segno: gli altri a volto scoperto e lui bendato.
Wout van Aert, invece, è stretto all’angolo. Soffre a immaginare avversari diversi da lui sul podio di fianco all’eterno antagonista. Vede Pidcock che accelera, lasciando la compagnia di quel quintetto in cui il belga è stato a lungo il retrotreno. Arranca van Aert; poi risale, supera gli altri spostandosi prima a destra e poi a sinistra, in una sorta di zigzag impazzito come una vespa intrappolata in un bicchiere e senza via d’uscita, dando sempre l’impressione di essere al limite, di inseguire una condizione che di certo non si poteva inventare. Il ciclocross non è lo sport del diavolo: lascia segni di catene sui polpacci, ferite sulle ginocchia, ti sporca dalla testa a i piedi, ma è quanto di più limpido esista. Non ci si può nascondere, né si può bluffare. Su quel podio ci sale pure Toon Aerts, perlopiù di caparbietà. Dopo una stagione in crescendo e una battuta d’arresto a causa di un brutto infortunio, porta a compimento la sua missione: salire sul podio, di nuovo, dodici mesi dopo il Mondiale di Bogense.
La missione di van Aert è appena iniziata

La missione di van Aert non si può definire fallita del tutto: una ruota bucata a due giri dal termine e poi di nuovo a inseguire, con il compagno di nazionale che gli rende sempre quella manciata di secondi, decisiva. A fine corsa ha un volto che esprime la stessa rabbia che porta dentro. Nel ciclocross non c’è raggiro; non ci sono recite, né simulazioni. «Forse dovrei essere soddisfatto, ma sono molto deluso», racconta al termine della corsa, nonostante un quarto posto finale che ad altri cambierebbe la vita.
La sua è stata una piccola impresa e per capirne la portata dovremmo provare a calarci nella dimensione da corridore completo e uomo maturo raggiunta nel tempo, esaminando quello che gli è successo negli ultimi mesi. Dopo quel 19 luglio 2019 al Tour de France – la data dell’incidente, oramai scolpita nella memoria sua e degli appassionati – gli accade di tutto. In realtà gli accadeva di tutto anche un po’ prima: va forte nelle classiche di primavera, e nel frattempo si deve difendere da una causa portata avanti dalla sua vecchia squadra – ci ritorniamo tra un attimo -, oltre a crescere e migliorare in ogni aspetto e caratteristica. Prende in mano la sua squadra come se nella vita non avesse fatto altro che comandare e inizia a far tremare gli avversari a cronometro, normale conseguenza di quel picchiare sui pedali e quella compostezza in bici, e sovente anche allo sprint.
È la sua prima stagione nel World Tour. Veste una maglia olandese, quella della Jumbo-Visma che, come accennato, gli costerà una denuncia dal suo ex datore di lavoro. Nick Nuyens, infatti, chiede oltre un milione di danni al corridore per violazione del contratto. Van Aert aveva lasciato la sua squadra alla fine del 2018 firmando per i gialloneri, pur dovendo rispettare gli obblighi con la Veranda’s Willems-Crelan, la squadra guidata dall’ex vincitore del Giro delle Fiandre, per un altro anno. Van Aert si difende bene anche in tribunale; Nuyens, quest’autunno, mentre van Aert non era sicuro nemmeno di risalire su una bici da corsa, perde la causa e salvo decisione diversa nel processo d’appello dovrà pagare i danni e le spese processuali.
Il rolling stone di Herentals

Il ragazzo di Herentals – o il rolling stone di Herentals, come lo definisce Marco Grassi su Cicloweb – va come una macchina senza intoppi nella primavera del 2019, ma gli manca l’acuto sotto la bandiera a scacchi. «È un leader nato», dice di lui Tim Merlier, suo connazionale e amico, e van Aert al suo esordio stagionale su strada è tredicesimo alla Omloop Het Nieuwsblad e terzo pochi giorni dopo alla Strade Bianche, dove si arrende solo nel finale alla coppia più affiatata del 2019: Alaphilippe e Fuglsang. Poi, è sesto alla Milano-Sanremo: agile e composto sul suo sellino, risponde agli attacchi sul Poggio come se per lui fosse naturale spostarsi dalle brughiere alle colline con vista mare. Entra nell’azione decisiva ed è sul punto di provare a giocarsi la vittoria finale; risponde all’azione di Trentin; poi, testardo, prova fare la sua volata. In Belgio si chiedono se per vincere una corsa di duecentonovanta chilometri forse sarebbe stato meglio prepararsi rifinendo la condizione tra Tirreno-Adriatico o Parigi-Nizza, abbandonando magari il ciclocross, e se sarebbe stato il caso di non seguire Matteo Trentin. La risposta la danno Hoste e Cornelisse all’unanimità: «Perché mai dovrebbe abbandonare il cross? E poi, con un po’ più di fortuna, se lui e Trentin fossero arrivati soli al traguardo…».
Impressionante nella sua regolarità ad alto livello: alla sua quarta gara su strada è secondo ad Harelbeke nella E3 BinckBank Classic. Štybar lo batte in volata, lui è sempre nel vivo dell’azione, ma pesca qualcuno più veloce di lui anche stavolta. «Ti ritrovi nel finale con altri cinque corridori e ti viene difficile da pensare che arrivare secondi sia un bel risultato. Dietro erano tutti stanchi e non è stato difficile fare la selezione; però, per riprendere Jungels in avanscoperta, Van Avermaet, Bettiol e io abbiamo speso troppo e Štybar, comodo a ruota per difendere l’azione del suo compagno, allo sprint era il più fresco». Analisi impeccabile.
Il denominatore comune di queste corse è stata l’assenza di van der Poel, che spesso su di lui ha un effetto devastante. L’olandese si presenta in pompa magna alla Gand-Wevelgem e Wout van Aert offre la peggiore prestazione della sua campagna del Nord: ventottesimo, svuotato da una corsa dura e in parte logorato da quel dualismo che porta avanti da quando i due si sfidavano bambini. Persino Lefevere rincara la dose, d’altra parte lui è uno che metterebbe becco anche in un litigio tra vicini di casa: «Van Aert è forte, ma preferisco di gran lunga Mathieu: ha l’istinto del killer».
È il momento del Giro delle Fiandre. La posta in palio è superiore a quasi tutto il resto. Ci si allinea a standard elevati e la concorrenza è più vasta, non solo numericamente, rispetto al ciclocross. Vincere qui è diverso che altrove: può bastare per una carriera – chiedere, ad esempio, al sopra menzionato Nuyens. I tatticismi nelle gare su strada, poi, spesso sono nemici più forti del vento, del fango, delle pietre, dell’incidente meccanico. Le gambe, oltretutto, in una gara così si possono svuotare da un momento all’altro, magari mentre stai spingendo su uno di quei tratti durissimi come il Paterberg, dove rischi persino di mettere il piede a terra. E van Aert, infatti, non raccoglie quanto sperato alla vigilia. «Mi sentivo tra i favoriti, ma è stata una corsa dura e sul Paterberg non ne avevo più. Il problema è che poi nessuno è riuscito a seguire Bettiol. C’è un gruppo di corridori, tutti vogliono vincere: chi tira è perduto, ma c’è lo stesso voglia di collaborare. Poi però arriva Sagan e con quelle sue accelerazioni esplosive fa solo del male all’inseguimento e ammazza ogni speranza di ricongiungimento».
Alla Parigi-Roubaix, sette giorni dopo, offre la migliore prestazione dell’anno – se non di gambe almeno di testa -, che fa da contraltare al risultato finale. Ormai è leader assoluto della squadra belga, tant’è che nelle riunioni pre gara lo ascoltano in religioso silenzio. In corsa rompe la bici, usa quella di un compagno, si stacca, rientra, cade, rientra sul gruppo che andrà a giocarsi la vittoria dopo un inseguimento a cui spesso si è abituato grazie alla militanza nel ciclocross, ma nel finale lo abbandonano le energie e chiude ventiduesimo, lasciando a fine gara un pensiero per il futuro: «Tornerò qui per vincere».
Estate – inferno

E poi arriva l’estate. Van Aert stacca la spina dopo l’Amstel Gold Race e si fa trovare subito pronto al Criterium del Delfinato. Giusto il tempo di rodarsi, di ritrovare l’affetto della bicicletta, di instaurare con lei nuovamente quel rapporto d’amore come due passerotti che saltano di gelso in vite. Terzo a Jussac, secondo a Riom, il quinto giorno vince la cronometro. Sono le ore della caduta di Froome e del suo grave infortunio; l’attenzione mediatica sul britannico fa passare in secondo piano quel risultato. Come se battere cronomen, specialisti, uomini da corse a tappe fosse una prova usuale per lui che non è niente di tutto ciò, e che forse solo il tempo ci dirà cosa potrà diventare.
Il tempo, già. Nemico della nostra esistenza, amico di un corridore quando ne impiega meno di tutti gli altri da un punto a un altro. A è la partenza, B è l’arrivo e van Aert è il migliore anche ventiquattro ore dopo. Non contento di aver vinto a cronometro, è arrivata l’ora di battere gli avversari persino in volata: lo sconfitto è Sam Bennett, uno che negli sprint è tra i più forti al mondo.
Che corridore sta diventando Wout van Aert?, ci si domanda. C’è chi sminuisce e tira fuori l’orrida panzana del picco di forma: «al Tour sarà un’altra cosa»; mentre chi sa leggere oltre il risultato vede un campione del ciclocross, elegante, agile, con una delle teste più dure dell’intero ciclismo, capace di vincere in due giorni prima a cronometro e poi in volata. Il termine “straordinario” non è mai stato così opportuno. La Jumbo-Visma ha trovato un atleta eccellente, capace, a tratti prodigioso, un leader nato. Tredici giorni dopo si laurea campione belga a cronometro. E non pensate che abbia battuto atleti di secondo piano, dato che portano i nomi di Lampaert, Evenepoel, Campenaerts.
Ma quell’estate decide di far piombare sulla testa d’acciaio di van Aert un caldo infernale. Ad Albi si gioca pesante: il vento è un gigante che molla ceffoni da ribaltare teste; spezza il gruppo, fa diventare un plotone in guerra, nella corsa a tappe più famosa del mondo, una massa inerme di soldati al fronte. Ci si fa prendere dal panico, ci si stacca, ci si assottiglia e da un qualcosa come circa centottanta persone arrivano a giocarsi la vittoria in meno di trenta. Ci sono sprinter in ghingheri, ruote veloci ma non abbastanza, uomini di classifica e uomini da corse di un giorno, tutti mescolati tra di loro pronti a lanciarsi verso il traguardo della piccola cittadina dell’Occitania che diede i natali a Henri de Toulouse-Lautrec. Se l’artista fosse vivo, oggi ritrarrebbe velocisti non solo per gusto scenico: lo farebbe con il suo estro, plasmerebbe a piacimento i colori del gruppo. Van Aert lo omaggia, o almeno così ci piace pensare. Batte Viviani e Ewan, sprinter puri, e stavolta in sala stampa nessuno si domanda se a vincere è Van Art oppure Teunissen: troppo evidente.
Dopo quel successo si ripensa a un mese prima, a quando vinse la cronometro e il giorno dopo la volata. Passano poco meno di settantadue ore e c’è una cronometro: lui si traveste da favorito, calato nella livrea di campione belga. Manca un chilometro all’arrivo, il suo è un tempo interessante e in linea con i migliori, ma stringe troppo su una transenna, si impiglia a un telone pubblicitario e vola a terra.
Il dolore è un coltello che non lacera solo i muscoli, ma anche gli organi interni e maciulla l’anima. «Mi è sembrato di stare sdraiato lì da sempre. Non sentivo nulla dalla parte della ferita, ma ero disteso su un asfalto così caldo che era come se stessi bruciando vivo. Ricordo ancora perfettamente quella sensazione. Sembrava durare per sempre», racconta in televisione un mese dopo l’incidente.
I miglioramenti arrivano, piccoli ma quotidiani. In un crescendo che mesi dopo sfocia persino in rabbia, come un uragano che si abbatte sulla costa dell’America dopo essere stato un venticello refrigerante in Africa. Passano diverse settimane e lui e la sua squadra mandano una lettera ad ASO. Non una vera e propria richiesta di risarcimento, ma più un avvertimento che suona come: “vogliamo evitare che si creino di nuovo situazioni di questo genere“.
L’insostenibile ricerca della normalità

Riuscire a mettere un piede dietro l’altro senza sentire dolore è giù un’impresa. Camminare diventa il tentativo di vincere la Parigi-Roubaix: un obiettivo saldo in mente, nessuna rivoluzione né rivelazione, semplicemente tornare a essere una persona normale, facendosi aiutare dalla testa. Quella che lo ha supportato e gli ha permesso in carriera di scontrarsi sin da ragazzino con uno che a tutti gli effetti è considerato il più grande talento nato negli ultimi decenni. Quella che gli ha permesso di migliorare, vincere, battere tutti.
«Nessuno mi mette pressione. Nemmeno io me la metto: non potrei fare altrimenti. Non so nemmeno se quest’anno potrò tornare a pedalare nel cross», racconta a inizio settembre. «Ci sono stati dei problemi nell’intervento e ora posso dire di essere arrivato a tanto così dal rischiare di smettere». Una settimana dopo riprende ad andare in bici, su una e-bike. Pubblica il suo giro su Strava: otto chilometri in sedici minuti. Immaginatevi uno come che van Aert che va così piano su una bicicletta spinta da un motore; come un vecchio amatore, oppure qualcuno alla ricerca di semplice normalità. «Non riesco a camminare ancora bene, faccio fatica a salire le scale; posso guidare l’auto, però. Sì, mi sento nuovamente una persona normale».
A ottobre riprende, piano piano, a pedalare più seriamente. Non lo fa ancora in modo professionale: non nel senso di mancanza di scrupolo o cura del dettaglio, ma come se la stagione del cross, appena iniziata, fosse improponibile per lo stato fisico in cui versa. La gamba destra, quella lacerata, è in continuo conflitto con quella sinistra ed è costretto a muoversi e allenarsi con calma, non più di un’ora al giorno. Usa un misuratore di potenza per capire quanto spinge una e quanto spinge l’altra. «Il mio cervello deve abituarsi nuovamente alla fatica». Van Aert ha paura di non essere più all’altezza. «Non posso pormi alcun obiettivo, al momento, e i miei dubbi spariranno solo quando avrò di nuovo la sensazione di poter vincere».
Non sono finito

Centosessantuno giorni dopo l’incidente di Pau, Wout van Aert torna ad assaggiare un po’ di fango. In mezzo conquista il premio di “fiammingo dell’anno“, battendo per una manciata di voti Evenepoel e Gilbert. Si iscrive al DVV Trofee di Loenhout e non è solo una firma sul foglio di via: è pronto a far scoccare la scintilla, ad accendere il dardo; è battaglia, è quel “sono tornato” che da tempo riecheggiava dentro di lui fino a tramutarsi in una fitta allo stomaco, e che cerca di fuoriuscire dalla gola.
Arriva quinto in una gara dove van der Poel dà spettacolo per l’ennesima volta. Disputerà, fino al Mondiale compreso, altri cinque cross: quarto, quinto, secondo, ottavo, quarto. Niente male per uno che sembrava potesse smettere di andare in bicicletta solo pochi mesi prima e che non faceva una gara di cross da quasi un anno. Una testa così si è vista poche volte, in uno sport dove la testa spesso, o sempre, fa tutto.
Ancora Tim Merlier, incalzato da un giornalista olandese, spiega qual è la migliore caratteristica di van Aert. «Ve lo devo anche dire? La sua testa: tenacia, perseveranza; non ho mai visto nessuno reagire così a un infortunio». Ce ne siamo accorti, ma detto da uno che gli corre a fianco – a dire la verità spesso e volentieri dietro – fa un altro effetto.
Nei giorni del suo ritorno alle gare del cross, la sua squadra annuncia la selezione per il Tour de France e inserisce il nome di van Aert: c’è fiducia nel suo recupero senza nemmeno averlo visto all’opera. Ma il suo obiettivo resta quello di tornare a essere protagonista nelle corse di un giorno, tra Italia, Strade Bianche e Milano-Sanremo, e classiche del Nord disseminate tra Belgio e Francia. Il ragazzo di Herentals è pronto a far girare velocemente le sue ruote domando le pietre. Avrà due nemici in più: Mathieu van der Poel, che sarà al via di tutte le classiche, italiane comprese, e una condizione che potrebbe non essere lontanamente paragonabile a quella del 2019. Avrà, però, allo stesso tempo un potente alleato: quella tenacia che lo ha fatto risorgere dall’asfalto bollente di Pau in quel maledetto 19 luglio che rischiò di togliere di mezzo uno dei corridori più forti del gruppo.
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