Nella prima settimana della Vuelta non sono mancati gli avvenimenti.

 

 

Come da tradizione, la Vuelta si conferma una delle corse più indecifrabili e imprevedibili della stagione. Dei tre grandi giri è sicuramente il più predisposto a questi risultati: non godendo la Vuelta del prestigio di Giro d’Italia e Tour de France – e ad un prestigio inferiore corrispondono minori responsabilità, dunque una maggiore sfrontatezza -, a differenza delle altre due corse beneficia inoltre e non poco dello spostamento in calendario occorso a partire dal 1995. Infatti basta un attimo perché la Vuelta si trasformi sia nell’ultimo periodo utile per salvare una stagione negativa, sia nell’evento di preparazione ai Campionati del Mondo. Il percorso di quest’anno non differisce poi molto da quello abituale: pochissima pianura e tante salite, perlopiù brevi e dure. L’assenza di molti scalatori e di una squadra sufficientemente forte – o coordinata, come vedremo – per controllare la corsa stanno avendo un unico effetto: scombussolare una gara già di per sé già estremamente confusionaria.

Non è un paese per velocisti

Se la pianura francese è battuta del vento, quella spagnola è secca e asciutta; se la prima incontra sovente tratti vallonati ma costanti, la seconda è frastagliata da lingue d’asfalto che s’impennano e precipitano senza sosta né avvertimento. Più che di pianura, per quanto riguarda la maggior parte del territorio spagnolo si potrebbe parlare di tutto quello che non é salita: l’unica eccezione è rappresentata dai lembi costieri, e forse non è un caso che le uniche due volate disputate in nove giorni di corsa siano state ad Alicante e a El Puig – entrambe affacciate sul Mar Mediterraneo. La prima l’ha vinta Bennett, la seconda Jakobsen: erano i due velocisti più attesi della vigilia e hanno rispettato il pronostico.

La vittoria di Sam Bennett ad Alicante. ©El Español, Twitter

Il primo si è presentato ai nastri di partenza della Vuelta forte di tredici vittorie stagionali, raccolte tra gennaio e agosto e distribuite in quasi tutte le corse alle quali ha partecipato: le più importanti sono giunte alla Parigi-Nizza, al Delfinato, nella prova in linea dei campionati irlandesi e al Binck Banck Tour. Soltanto una squadra che annovera tra gli altri anche Ackermann e Sagan può permettersi di non convocare per il Tour de France un velocista come Bennett. Cambierà aria, probabilmente andrà alla Quick-Step; e fa bene, anche perché la BORA-hansgrohe si sta interessando sempre di più alle classifiche generali, dunque gli interessi del velocista di turno non sono garantiti. La vittoria di Alicante sembrava il preludio ad un dominio assoluto, e invece il giorno dopo c’ha pensato Jakobsen a negargli il bis, approfittando di una manovra errata di Bennett – una rotonda imboccata dal lato sbagliato – e giustiziandolo al fotofinish. Jakobsen non è il campione olandese per caso: ha in Richeze un ultimo uomo preziosissimo e nelle proprie gambe una potenza invidiabile.

Per esperienza e costanza, il velocista di riferimento rimane Bennett, ma l’unica alternativa è appunto Jakobsen. Mezgec sta andando forte, ma le sue qualità risaltano maggiormente nelle volate a ranghi ristretti o su traguardi particolarmente accidentati; Bauhaus poteva rendersi insidioso, ma si è ritirato nella tappa di Andorra; Theuns, Aberasturi, Sarreau, Venturini e Sajnok possono ambire ad un piazzamento, come peraltro hanno già fatto, ma difficilmente potranno mettere le loro ruote davanti a quelle degli sprinter più quotati.

Rimane Gaviria, ovvero colui che, se in forma, non ha niente in meno rispetto a tutti gli altri; tuttavia, una stagione sfortunata e una squadra a tratti irriconoscibile stanno rallentando la definitiva consacrazione di un talento cristallino. La caduta nella cronosquadre d’apertura s’è fatta sentire nei giorni successivi e anche per questo, almeno per ora, Gaviria non vale Bennett e Jakobsen. Eppure, pur trovandosi nel momento peggiore della sua ancor giovane carriera, Gaviria ha centrato podi di tappa alla Tirreno-Adriatico, al Giro d’Italia, al Giro di Polonia e persino alla Vuelta – terzo dietro a Jakobsen e Bennett a El Puig: un atleta come lui deve vincere, siamo d’accordo, ma non stare così bene e concludere secondi o terzi qualcosa vorrà pur dire.

E quella di Fabio Jakobsen a El Puig. ©Cycling Weekly, Twitter

E gli attaccanti esultano

Un territorio accidentato come quello spagnolo è perfetto per le ambizioni della fuga: il gruppo di attaccanti che si formerà sarà numeroso, di squadre che tireranno per contenerlo ce ne saranno poche perché la maggior parte di esse è già rappresentata davanti e l’altimetria e la planimetria renderanno impossibile allestire un inseguimento costante e organizzato. È una delle lezioni più semplici, ma evidentemente esercita ancora un certo fascino: la prima parte della Vuelta 2019 ha tirato avanti grazie a momenti simili. La fuga ha realizzato il suo scopo in ben tre occasioni, facendo tesoro dei fattori elencati poco sopra e approfittando di alcune dinamiche parallele che riguardavano il mantenimento della maglia rossa.

Le quattro Professional invitate, seppur con risultati diversi, hanno letteralmente sguazzato in quello che spesso è successo. Madrazo della Burgos-BH giunge al giro di boa indossando la maglia di miglior scalatore, impreziosita dallo stupendo successo di tappa conquistato all’Observatorio Astrofísico de Javalambre grazie ad una condotta di gara oculata – e strana, basata perlopiù sull’elastico e sul contropiede – e all’intuito di Bol, compagno di squadra che ha saputo rompere i cambi di José Herrada.

Quest’ultimo ci permette di parlare della Cofidis, la Professional che ha raccolto di più insieme alla Burgos-BH: le lacrime di rabbia di Herrada, terzo dietro a Madrazo e Bol all’Observatorio, sono state vendicate prima dalla vittoria del fratello Jesús e poi dal giorno in maglia rossa trascorso da Edet. Caja Rural ed Euskadi-Murias non hanno comunque lesinato sforzi e tentativi: la prima ha centrato quattro piazzamenti tra i primi dieci grazie ad Aberasturi e Aranburu, mentre la seconda ripone tutte le sue speranze in Rodríguez e Barceló, generosi e abili in salita – Rodríguez, ad esempio, ha concluso decimo sulle micidiali pendenze di Mas de la Costa.

Il giorno di Madrazo. ©Bisikletta, Twitter

Oltre a Madrazo e Jesús Herrada, la fuga ha premiato Arndt della Sunweb, formazione che tuttavia continua ad attraversare un periodo nero: Roche era davvero in forma, tanto per centrare una vittoria di tappa quanto per piazzarsi tra i primi quindici della classifica generale, eppure una caduta ha eliminato anche lui. A trarre vantaggio da queste imboscate sono stati comunque in molti: Teuns ed Edet, per dire, non avranno alzato le braccia al cielo, ma hanno indossato la maglia rossa per un giorno e dopo nove tappe occupano rispettivamente il decimo e il settimo posto della generale; stesso discorso per Hagen della Lotto Soudal, sesto, e per Pernsteiner della Bahrain Merida.

La seconda parte della Vuelta continuerà nel solco della prima; la classifica, essendo già abbastanza definita, non dovrebbe più risentire dell’esito positivo d’una fuga, ma per chi fa d’una vittoria di tappa l’obiettivo di una stagione – talvolta di una vita – di tempo e spazio per provarci ce n’è ancora a volontà.

La Cofidis è una delle realtà del momento, tra risultati e innesti per il 2020. ©Tacx, Twitter

Quattro più uno

Partiamo dal contorno – non ce ne vogliano i corridori che nomineremo, ma quanto fatto fin’ora non basta a collocarli alla pari dei primi della classe. Majka ha perso Formolo – davvero sfortunato – ma non la continuità che ormai lo caratterizza da un paio d’anni, e infatti è ottavo e un piazzamento finali nei primi dieci della generale pare ampiamente alla sua portata. Kelderman, uno dei corridori più sfortunati del gruppo, si è trovato da solo in classifica generale dopo che la Sunweb, la sua squadra nonché una delle più sfortunate del gruppo, ha perso Roche: per ora occupa il nono posto e si difende benino, speriamo che gli acciacchi del recente passato lo abbiano finalmente abbandonato. Nieve e Chaves si dividono invece i gradi di capitano della Mitchelton-Scott; lo spagnolo è più costante, il colombiano più efficace ma soltanto se in giornata: Nieve è undicesimo mentre Chaves quattordicesimo, se la situazione non dovesse migliorare converrebbe forse puntare ad un successo di tappa.

Latour aveva iniziato bene ma è già scivolato indietro, stesso discorso per Knox, Geoghegan Hart e Poels, mentre due parole a parte li meritano i ritirati: Kruijswijk non pensava alla classifica generale ma si trattava pur sempre del terzo classificato del Tour de France; de la Parte, Roche e Formolo non facevano paura ma tra averli e non averli un po’ di differenza c’è; Urán e Carthy, infine, sono i due ritiri più spiacevoli, sia per le ambizioni del colombiano sia per il valore dell’Education First notevolmente ridimensionato dopo il loro ritiro – al quale si è poi aggiunto quello di van Garderen.

Il capitano dell’Astana mostra ancora qualche lacuna tattica, ma le doti da scalatore sono innegabili. ©Mihai Cazacu, Twitter

I quattro favoriti per la vittoria finale sono Quintana, Valverde, López e Roglič ma indicarne uno su tutti gli altri ci è impossibile. Roglič ha perso Kruijswijk ma ha trovato Kuss e ri-trovato Gesink; in salita non vale gli altri tre, ma ha dimostrato di sapersi gestire magistralmente, senza dimenticare il vantaggio che può accumulare nella cronometro individuale che segue il primo giorno di riposo – sperando che vada meglio della cronosquadre d’apertura, dove la Jumbo-Visma è finita a terra. López è sembrato il più forte in salita e ha una squadra pronta a sostenerlo nel bene e nel male – un gregario come Fuglsang non ce l’ha nessuno, se il danese sta bene; tuttavia, la caduta nel tratto di sterrato nel finale della nona tappa potrebbe condizionarlo, e poi le tempistiche del colombiano non sono mai azzeccate: o attacca troppo presto oppure troppo tardi.

Valverde ha vinto una tappa e non ha perso un colpo, ma ricordiamoci che stiamo parlando di un atleta di quasi trentanove anni e mezzo: classe, esperienza ed estro sono dalla sua parte, ma non sarà semplice per lui reggere il confronto di tre rivali così validi e nel pieno della loro maturità. Quintana, che di Valverde è compagno di squadra, è il leader della Vuelta 2019: ha vinto una tappa, la seconda, avvantaggiandosi e staccando alcuni colleghi in un tratto di pianura; il suo rendimento, però, è ancora altalenante e l’ombra del Quintana imballato pare sempre in agguato. Nella Movistar il talento non manca di certo: i problemi sono altri.

Quintana afferma che il capitano è Valverde, mentre Valverde rilancia il contrario. Pretattica, direte voi, ma poi sono arrivati gli ultimi dieci chilometri della nona tappa e con loro una serie di dubbi amletici: andando verso Andorra, Valverde attaccava per levarsi di dosso López e Roglič nonostante poco più avanti ci fosse Quintana insieme a Pogačar; per aumentare il distacco tra Quintana e gli altri, è stato fatto fermare Soler, che in quel momento era la testa della corsa, solitario al comando a qualche chilometro dall’arrivo; Soler manda platealmente a quel paese chi gli ha imposto tale scelta, scuote la testa e infine sbianca quando si rende conto che Quintana – il motivo per il quale lo avevano fatto fermare – era appena stato staccato da Pogačar.

Raro caso di giovane talento da non sottovalutare nemmeno sulle tre settimane. ©Cyclingnews.com, Twitter

La tappa di Andorra l’ha vinta proprio Pogačar, quinto a un minuto e quarantadue da Quintana. È al primo grande giro della sua carriera, ma lo sta correndo col mestiere e con la sicurezza del veterano. È il capitano unico della UAE-Emirates, dato che Aru è crollato un’altra volta dopo un inizio promettente e caparbio nonostante la sfortuna – tutta la UAE-Emirates a eccezione di Conti è caduta nella cronosquadre di apertura. Gli altri quattro potrebbero avere una marcia in più, è vero: Valverde e Roglič non hanno impressionato ma tengono botta, López e Quintana hanno vestito o vestono tutt’ora la maglia rossa. Eppure, se c’è un corridore capace di far saltare il banco, quello è Pogačar. Probabilmente non avverrà niente di eclatante – o probabilmente è già successo e non ce ne siamo accorti: può capitare, in mezzo a tanta confusione, di perdersi qualcosa.

 

Foto in evidenza: ©Movistar Team, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.