La fuga ha guadagnato terreno nel vero senso della parola.
Tutto ciò che riguarda la fuga è cambiato: i motivi che la muovono, i personaggi che la animano, gli effetti che causa. È sufficiente un dato relativo all’ultimo Giro d’Italia per avvalorare questa tesi: delle ventuno tappe in programma, addirittura dieci sono state conquistate da un membro della fuga. Un numero impressionante, considerando che c’erano anche tre cronometro e almeno cinque volate raggiungibili senza particolari patemi d’animo.
Gli unici corridori d’alta classifica ad aver trionfato sono Carapaz, Roglič e Zakarin, rispettivamente il primo, il terzo e il decimo della generale; va da sé, dunque, che nessuno tra Nibali, Landa, Mollema, Majka, López, Yates e Sivakov sia stato in grado d’affermarsi. Escludendo il successo di Haga nella cronometro di Verona, l’ultima settimana è stata monopolizzata dai fuggitivi, capaci di centrare cinque vittorie sulle cinque tappe a disposizione. La fuga è cambiata.

Soltanto le tappe pianeggianti riescono ancora ad essere gestite piuttosto facilmente dal gruppo. Nulla di nuovo, s’intende: si sa che la pianura favorisce le alte velocità del plotone compatto e che un velocista, a differenza dei favoriti per il successo finale che possono accontentarsi di guadagnare secondi di vantaggio sui diretti avversari, ha il dovere di provare a vincere tutte quelle tappe che si prestano alle sue caratteristiche, altrimenti il piatto piange. In giornate del genere, la fuga è composta perlopiù da qualche corridore di seconda o terza fascia, il cui tentativo talvolta si esaurisce da solo. Soprattutto per questo, la vittoria di Damiano Cima ha elettrizzato l’ambiente: perché sembrava insperata e invece, un po’ per la bravura dei fuggitivi e un po’ per le scarse energie rimaste in gruppo, è arrivata.
Il discorso si fa più interessante e complicato quando ci si riferisce alle tappe intermedie o di alta montagna. Se fino a pochi anni fa andare in fuga era considerato quasi esclusivamente il modo migliore per mettere in mostra il proprio nome e quello degli sponsor, nelle ultime stagioni sono in molti ad aver capito che specializzandosi in questa attività è possibile costruirsi una carriera degna di nota: basti pensare a Thomas De Gendt, che così facendo è diventato una delle seconde linee più conosciute e apprezzate. Certo, spesso chi va in fuga lo fa perché non può permettersi il lusso di giocarsi le classifiche e le vittorie di tappa lottando coi migliori: resta il fatto, però, che la fuga è diventata una questione seria, parallela alle vicissitudini del gruppo; usando un’espressione inflazionata ma abbastanza precisa, “una corsa nella corsa”.

E infatti non è un caso che la prima ora di alcune tappe sia la più veloce: consapevoli delle possibilità di buona riuscita, a volte sono anche quaranta o cinquanta i corridori determinati ad entrare nel tentativo di giornata. Il problema, ovviamente per coloro che rimangono in gruppo, è proprio questo: che sempre più spesso la corsa è comandata da qualche decina di attaccanti. Quale squadra può pensare di contenere una sommossa di simili proporzioni? Nessuna, nemmeno il Team Sky negli ultimi Tour de France – e infatti sono state molte le fughe andate in porto. Come se non bastasse la quantità, ci si mette anche la qualità; come dicevamo poco sopra, le squadre hanno intuito che andando in fuga si possono cambiare le sorti di un grande giro o di una classifica generale: per questo mandano in avanscoperta i loro uomini migliori.
Prendiamo la Bahrain-Merida, che nel corso dell’ultimo Giro d’Italia ha mandato in avanti spesso e volentieri due atleti come Caruso e Pozzovivo; il loro compito era chiaro: regolarsi in base all’andamento della corsa, quindi fungere da punto d’appoggio per un attacco di Nibali oppure giocarsi le proprie carte. Caruso e Pozzovivo non sono i primi che passano: il primo fu nono alla Vuelta 2014, ottavo al Giro d’Italia 2015 e undicesimo al Tour de France 2017, nonostante avesse dedicato la prima parte di corsa alla classifica di Porte; il secondo è arrivato sei volte tra i primi dieci del Giro d’Italia, sesto alla Vuelta 2013, due volte quinto alla Liegi-Bastogne-Liegi, due volte sesto al Giro di Lombardia. Ecco, immaginate – o meglio, ricordate, dato che situazioni del genere sono ormai abituali – una fuga composta da un trentina di uomini, tra i quali ne figurano almeno sette o otto sul livello di Caruso e Pozzovivo: l’esito della tappa è pressoché scontato.

Gli esempi da riportare sono molti. Zakarin e Mollema, per dirne due, hanno guadagnato dei piazzamenti onorevoli a suon di fughe. Al Tour de France 2016, uno dei fuggitivi più assidui fu Nibali, che scelse un approccio più tranquillo in vista della prova su strada delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Un anno prima, nella Grande Boucle 2015, fu Pinot, ormai finito fuori classifica, a propiziare la maggior parte delle fughe andate in porto: una di queste, l’ultima, la capitalizzò lui stesso andando a vincere sull’Alpe d’Huez.
E quanti altri nomi potremmo fare: Alaphilippe, Nieve, Van Avermaet, Boasson Hagen, Barguil, Majka, Chaves. Gli anni in cui la fuga era vista quasi esclusivamente come la strada più immediata per farsi conoscere non sono passati del tutto, ma la quantità e la qualità dei corridori che ci provano sono considerevolmente aumentate.
Se tutto ciò avviene, diverse responsabilità le hanno le squadre dei capitani. Da una parte, come detto, c’è l’impossibilità e l’insensatezza di sacrificare quattro o cinque compagni per riacciuffare la fuga di giornata; dall’altra, a incentivare tentativi corposi è anche l’atteggiamento dei favoriti per la vittoria finale, che aspettano e aspettano nella speranza che il rivale di turno mostri un segno di debolezza: i valori sono talmente livellati che la paura di saltare e dover dire addio alla possibilità di vincere la corsa la fa da padrona.

Insomma, è un cane che si morde la coda: molti corridori vogliono entrare nella fuga di giornata perché sanno che il gruppo potrebbe concedere loro molto vantaggio, disinteressandosi al successo di tappa; il gruppo, appunto, lascia che siano i fuggitivi a giocarsi la vittoria, consapevole che rientrare su una fuga corposa significa sacrificare troppi uomini; gli attaccanti,tuttavia, continuano a provarci perché hanno capito che raramente i favoriti per la classifica generale vogliono necessariamente vincere una tappa: sono più occupati a marcarsi e a studiarsi, d’altronde le prestazioni si assomigliano molto e gli interessi in ballo sono tanti.
Trovare una soluzione a questo rebus sembra impossibile: se le tappe pianeggianti rimangono appannaggio del plotone, quelle mosse o d’alta montagna favoriscono i fuggitivi, che attaccando in massa rendono la tappa praticamente incontrollabile. Dopo anni di classifiche tentate e puntualmente mancate, il ciclismo italiano pare aver compreso l’antifona: prima o poi, entrare nella fuga di giornata paga. Lo hanno dimostrato Giulio Ciccone e l’Androni Giocattoli-Sidermec, dopo anni in cui soltanto De Marchi, Brambilla e pochissimi altri s’interessavano alla causa. Sopperire all’assenza di scalatori e velocisti di prim’ordine con dei fugaioli cocciuti potrebbe essere la soluzione giusta per l’Italia, qualche boccata d’ossigeno nella speranza di tornare a respirare a pieni polmoni.
Foto in evidenza: ©Giro d’Italia, Twitter