Nemmeno il tre volte campione del mondo è esente da critiche ponderate.
Peter Sagan è il ciclista del momento da ormai diverse stagioni, uno dei punti di riferimento dell’ultimo decennio. L’uomo, carismatico e imprevedibile, si fonde alla perfezione con l’atleta, estremamente talentuoso e completo. Ha già raggiunto e superato quota cento successi in carriera, piantando bandierine in ogni angolo di mondo: America, Italia, Belgio, Francia, Spagna, Australia. Ha dimostrato di saper cogliere l’occasione con astuzia e potenza, mestiere e coraggio. Classiche, semiclassiche, mondiali, frazioni tanto nelle brevi quanto nelle lunghe corse a tappe: insomma, lo slovacco è di gran lunga uno dei corridori più vincenti e amati degli ultimi decenni.
Due anni fa, in seguito ad una delle sue vittorie, lo definii “un corpo alieno nel gruppo, come Merckx, come Fignon, come Bugno, come Pantani”. Atleti molto diversi, per destino e palmarès, eppure accomunati da un’aura che li distingueva da tutti gli altri, al di là delle singole affermazioni, prestazioni, dichiarazioni. Personaggi unici, particolari, sensibili e identificabili. Elaboravano pensieri e azioni inaccessibili per gli altri, uno stare al mondo inconsapevolmente maledetto, romantico, poetico, senza tempo. Da questo punto di vista, metto Sagan al loro pari.
È un qualcosa che va oltre la dimensione sportiva ed entra in quella culturale, sociale, emotiva: soltanto quando si sarà ritirato saremo in grado di capire cos’è stato, cos’ha lasciato e come avrà irrimediabilmente condizionato (e non soltanto reso grande) questo sport. Più che di impronta, parlerei di influenza. Questo, però, non deve escluderlo a priori dalla morsa della critica: ragionata, costruttiva e il più imparziale possibile. Necessaria, soprattutto.

Prima di tutto: che corridore è Peter Sagan? Può essere etichettato con nettezza e univocità? Assolutamente no. Stiamo parlando di un ciclista duttile, piuttosto veloce e resistente, abile sul pavé e nel guidare il mezzo, dotato di fondo. Definirlo soltanto velocista, o scattista, o specialista delle classiche è superficiale e incompleto. È l’esempio perfetto per tirare in causa il paradosso di Schrödinger: Sagan è, al tempo stesso, tutto e nulla di quanto sopraelencato.
Ha battuto gli sprinter in volata, i cronomen nei prologhi, gli uomini da classica nelle prove di un giorno. Ha un motore raro, potente, che raramente si inceppa da gennaio a settembre. Quando non vince arriva spesso secondo o terzo, per vederlo fuori dai primi dieci si deve leggere l’ordine di arrivo di una tappa alpina o pirenaica. Questa poliedricità gli ha permesso di esultare ovunque, rimpinguando il palmarès con successi di ogni tipo.
Tre campionati del mondo consecutivi, un campionato europeo, tre Gand-Wevelgem, un Giro delle Fiandre, una Parigi-Roubaix, undici tappe e sei classifiche a punti al Tour de France, quattro tappe alla Vuelta a España, sei volte campione slovacco (sei in linea, una a cronometro). E ancora, tappe al Tour Down Under, alla Parigi-Nizza, alla Tirreno-Adriatico, al Giro di Svizzera, al Giro di Romandia, al BinckBank Tour; senza dimenticare semiclassiche di prestigio come la Freccia del Brabante, l’E3 Harelbeke, la Kuurne-Bruxelles-Kuurne, il Gran Premio di Camaiore e quelli di Prato, di Montréal e del Québec.
Trionfi roboanti e prestigiosi, alla maggior parte dei suoi colleghi basterebbe averne due o tre per sentirsi soddisfatti e appagati. Non è il caso di Sagan. Nonostante abbia già impresso il suo nome nella storia di questo sport, da un corridore del genere ci si attende sempre di più. D’altronde è lui che ci ha abituato così. Tutto questo clamore, ovviamente giustificato, lo ha coinvolto in paragoni importanti e scomodi. I grandi del passato, da Merckx in giù. Un aspetto della questione che va approfondito.

Il campione del mondo ha corso, ad oggi, venticinque classiche monumento: otto volte la Milano-Sanremo e il Giro delle Fiandre, sette volte la Parigi-Roubaix e due volte il Giro di Lombardia. Ne ha conquistate due, centrando altri tre podi e otto ulteriori top ten. Numeri importanti, è chiaro: sono quelli di un bel corridore, non di un dominatore assoluto. E poi, chi ne fa uso (a volte abuso) dovrebbe spiegare con precisione cosa intende con “classiche” quando parla di Peter Sagan. Al Lombardia ha due ritiri su due partecipazioni; le Ardenne lo riguardano marginalmente, considerando che la prima Liegi-Bastogne-Liegi della sua carriera sarà quella che correrà ad aprile di quest’anno, già ventinovenne. La Parigi-Tours non è mai stata presa in considerazione; San Sebastián l’ha disputata solo una volta (nel 2014) senza concluderla; alla Strade Bianche invece ha centrato due secondi posti consecutivi, l’ultimo cinque anni fa.
Un altro leitmotiv è quello secondo il quale il campione del mondo correrebbe spesso senza squadra, con gregari raramente all’altezza. Quelli che seguono sono i nomi migliori sui quali ha potuto contare Sagan tra Sanremo, Fiandre e Roubaix, dal 2015 (anno del suo arrivo alla Tinkoff e del suo primo mondiale) ad oggi: suo fratello Juraj, Bennati, Boaro, Bodnar, Breschel, Juul Jensen, Tosatto, Gatto, Blythe, Bennett, Burghardt, Saramotins, Oss, Brutt, Selig, Mørkøv, Trusov.

Sono professionisti di lungo corso, apprezzati e stimati, con esperienze importanti tra classiche e grandi corse a tappe. Alcuni di loro vantano anche un buon numero di vittorie e piazzamenti, dal Giro d’Italia alla Vuelta a España passando per Tour de France e campionati del mondo. È vero che non li ha avuti accanto tutti insieme, ma insomma, il succo del discorso si capisce: non è Sagan ad avere una squadra mediocre, ma la Quick-Step ad esempio ad averne una troppo forte e talentuosa. Disparità del genere sono sempre esistite nel mondo dello sport.
Si arriva, quindi, alla polemica che ha tenuto banco nelle ultime stagioni: il campione del mondo si lamenta perché gli corrono tutti contro. Roba vecchia, lo si fa ininterrottamente da una vita. Ogni fuoriclasse, persino il buon corridore nella stagione di grazia, ha subito questo trattamento: Sagan non è il primo e non sarà l’ultimo. Lamentarsi è umano, per l’amor di dio, ma inutile. È il prezzo da pagare per il talento che la natura gli ha concesso.
A farglielo notare con più sincerità è stato Tom Boonen, il quale ha sempre avuto un buon rapporto col corridore slovacco, come raccontano le tante foto che li ritraggono accanto o mentre si scambiano un caloroso saluto. Indubbiamente il belga ha usufruito e non poco del gioco di squadra proprio della Quick-Step: aspettarsi un giudizio diverso era quindi impossibile. La cosa più interessante detta da Boonen, infatti, è un’altra: Sagan non deve lamentarsi perché in passato (e a volte ancora oggi, aggiungiamo noi) ha adottato la stessa, identica tattica.
Questo integra perfettamente quanto detto sopra: affermare che il campione del mondo ha corso, in qualche occasione, affiancato da una squadra mediocre, implica allo stesso tempo che, per vincere (o tentare di farlo), abbia dovuto sfruttare il lavoro delle altre. Basta ripensare alle tante volate vinte, soprattutto alle edizioni 2016 e 2017 del campionato del mondo: Sagan nelle prime posizioni a ruota delle nazionali più strutturate, approfittando delle loro tirate e scie per poi uscire negli ultimi duecento metri e mettere tutti nel sacco. Giusto o sbagliato non sta a noi deciderlo, la linea è molto sottile considerando anche l’importanza del successo in ballo: che allora non si lamenti se qualche avversario agisce così, però.

E se la sua duttilità fosse un limite? Essere un corridore completo era normale cinquant’anni fa, oggi invece sembra più una scelta tanto romantica (dimostra sicuramente coraggio e volontà di aderire alla storia di questo sport) quanto controproducente.
Sagan, nelle ultime stagioni, ha fatto sicuramente un ulteriore passo in avanti dal punto di vista atletico e mentale. Però è migliorato globalmente, è aumentata la cilindrata del motore ma non la sua capacità di rendere meglio in specifiche situazioni. Il Sagan che oggi si lancia nelle volate non è più veloce del corridore che era ad inizio carriera; se si esclude la vittoria conquistata nel 2018, il miglior risultato dello slovacco nella Parigi-Roubaix era il sesto posto del 2014, quando non era ancora il faro che è oggi; stesso discorso per il Fiandre, dove si era già classificato secondo nel 2013, ormai sei anni fa, quando alla “sua” Ronde ne mancavano ancora tre.
Sagan è competitivo su (quasi) ogni terreno ma dominante in nessuno (tranne che nelle volate a ranghi ristretti: lì è pressoché imbattibile). Negli sprint di gruppo Gaviria, Ewan, Groenewegen e Viviani non gli sono certamente inferiori, anzi. Nelle classiche del Nord è sicuramente uno dei punti di riferimento ma non è il solo: Terpstra e Van Avermaet reggono il confronto. Stesso discorso per quanto riguarda quei percorsi che potremmo definire collinari, che premiano scattisti e corridori veloci che si trovano comunque a loro agio in salita: Valverde, Alaphilippe, Daniel Martin, Kwiatkowski sono, in questo caso, oggettivamente più preparati e pericolosi di Sagan. Una scelta più precisa, come ad esempio fecero a loro tempo Cancellara e Boonen dedicandosi quasi esclusivamente alle pietre, avrebbe fruttato allo slovacco meno successi ma probabilmente di caratura maggiore.
Confrontare corridori di epoche diverse è un esercizio insensato: sempre. Non che quando Sagan vince è il più grande di sempre o il nuovo Merckx, mentre quando perde va preso per quel che è senza tirare in ballo campioni del passato. Noi auguriamo il meglio a Peter Sagan: che ci legga, ma che rimanga com’è (scenette comprese, anche se a volte la sua simpatia sfocia in esagerazione); che continui a cercare il successo come più gli aggrada, e anche a perdere corse già vinte; e che lasci perdere il California almeno per un anno, ché vincere al Giro d’Italia dà più soddisfazione.
Foto in evidenza: ©Peter Sagan, Twitter
Pubblicato per la prima volta su: www.rivistacontrasti.it