Nello Yorkshire sembra piovere per sempre

Considerazioni su un Mondiale a metà tra la farsa e il leggendario.

 

 

Ad Harrogate, in Inghilterra, piove da sempre e continuerà a farlo anche dopo la fine della settimana iridata. Le polemiche maturate durante la manifestazione continueranno anche loro – è necessario – e serviranno a far riflettere nel momento in cui verranno scelte le località ospitanti.

Gli organizzatori, in collaborazione con l’UCI, non sono riusciti a garantire la sicurezza dei corridori in occasione di una prova importante come la cronometro degli Under 23 e su questo va posto l’accento, perché è chi pedala che rischia la pelle, nel vero senso della parola, perché è quello che succede quando ti ritrovi ad attraversare veri e propri guadi in mezzo alla carreggiata.

Quello che meraviglia è che tutto ciò succeda nella civilissima e avanzatissima Inghilterra, dove dovrebbero essere abituati ad arginare i guai provocati dal maltempo e dal vento, che a fine settembre, da quelle parti, sono normali.

Jefferson Cepeda alle prese con la pioggia nella prova élite maschile di domenica. ©Yorkshire 2019, Twitter

Non siamo delle verginelle e capiamo benissimo che una località venga privilegiata per questione economiche e di costi – elevatissimi -, e oltretutto qui si parla di Inghilterra, non il terzo mondo ciclistico; non stiamo a sindacare la scelta di un luogo a discapito di un altro, soprattutto se, come nel caso di Yorkshire 2019, abbiamo visto un tracciato tecnicamente superiore rispetto ai ripetitivi mondiali di Ponferrada, Richmond e Bergen o all’insulso circuito di Doha: a maggiore ragione stride molto quello che è accaduto in questi giorni.

Per iniziare: la cronometro per Under 23 si trasforma in una farsa totale. Non c’è modo di sospendere eventi di questa portata, ma bisognerebbe anche saperli organizzare; bisogna portare al termine per forza la gara e dunque si arriva a correre in situazioni pericolose, che se non mettessero a rischio l’incolumità di ragazzi e ragazze che corrono in bici, avremmo definito grottesche, ridicole, imbarazzanti.

La pioggia invade il percorso, lungo il quale si formano pozzanghere pericolosissime simili a vere e proprie piscine, il tutto a discapito della sicurezza dei corridori. Pensate poi che l’Extreme Weather Protocol in questi casi non può funzionare perché prevede interventi nella gara in caso di strada invasa dalla neve, non dalla pioggia; oppure,  leggete voi stessi, in caso di pioggia ghiacciata e non in caso di autentici nubifragi come quelli che hanno investito la corsa.

Le lacrime di Nils Eekhoff dopo la decisione della giuria. ©Mihai Cazacu, Twitter

In ambito Under 23  succede anche che per la prima volta nella storia il campionato del mondo venga deciso dal VAR, decisione assolutamente sacrosanta una volta viste le immagini. Tuttavia ci chiediamo: non sarebbe stato meglio fermare subito il corridore e non dopo tre ore? La decisione della giuria è stata vissuta con attimi che hanno sovrastato il gesto tecnico e atletico dei corridori, una circostanza che ha superato le vicende della corsa – incerta e bellissima -, quando sarebbe stato più corretto fermare l’atleta durante la gara, visto che la sua scorrettezza, di sicuro, sarà stata posta sotto l’attenzione dei giudici ben prima dell’arrivo. C’è qualcosa da rivedere nel regolamento.

E invece il ragazzo olandese ha continuato a pedalare per centoventi chilometri, lo si è visto rimontare e poi beffare il gruppetto di testa, lo si è visto esultare, vincere e poi vivere il dramma non per un atto sleale commesso in volata, ma per un episodio accaduto tre ore prima. Con buona pace di Larry Warbasse, che in un pezzo scritto per Rouler propone che: “In caso di incidente, foratura o problema meccanico, un corridore deve poter rientrare nel gruppo seguendo la scia della propria ammiraglia.” Una regola non scritta e che invece dovrebbe esserlo, dice l’americano della AG2R.

Warbasse sostiene che chiunque si sia trovato nella situazione di Eekhoff avrebbe fatto lo stesso e che chiunque, anche professionisti di massimo livello, lo fanno e continuano a farlo. Un assunto simile a quello da cui parte un altro americano, Jonathan Vaughters, team manager della Education First, uno di quelli che su Twitter dice sempre la sua senza molti filtri, il quale però arriva a una conclusione più coerente con il nostro pensiero: anche se così fan tutti, la regola c’è e bisogna non solo farla rispettare, ma iniziare a farlo più severamente. Evidenziamo poi l’idiozia di una parte del tifo, che sui social si è scatenata accusando e insultando Samuele Battistella, colpevole secondo loro di aver vinto quel titolo Mondiale.

La partenza della prova élite maschile. ©Stefano Rizzato, Twitter

La mattina della prova regina si scopre invece che il percorso è stato cambiato per questioni di sicurezza: viste le condizioni della strada nell’unica salita rimasta sul percorso, decisione sacrosanta sì, ma tardiva. È caos totale per chi è sul luogo, come ben spiegato da alcuni giornalisti inviati come Stefano Rizzato ed Enzo Vicennati. Anche qui ciò che urta non è il taglio del percorso – la corsa è stata ugualmente dura e spettacolare -, bensì la scarsa tempestività e il pressapochismo completamente fuori luogo in un evento del genere: in Inghilterra non sono davvero pronti a gestire situazioni di questo tipo, dunque? Siamo in autunno, le foglie cadono (sic), le strade si intasano e si riempiono di detriti, e nessuno ha preso una contromisura? La gara di domenica, evento clou della manifestazione, doveva essere anche dal punto di vista organizzativo il fiore all’occhiello: è stato un disastro.

I corridori hanno rischiato di farsi male per strada per evitare rami, detriti e pozzanghere che a un certo punto si sono trasformati in veri e propri fiumi che si riversavano in strada: uno schifo totale. Non venite a raccontarci la storiella dell’uomo contro la natura: non regge. Non tirate fuori la retorica dello sport dei nostri nonni o bisnonni: è ipocrisia. Il ciclismo è uno sport che mette a nudo i limiti di chi corre in bicicletta, ma la nostra passione non può e non deve essere finalizzata a vederli correre rischi eccessivi, soprattutto se evitabili. I ciclisti non sono bestie da circo e l’amore per questo sport non può diventare voyeurismo. Anche perché non si può evitare che si facciano del male, si deve. Altrimenti guardatevi una serie TV: troverete sicuramente soddisfazione ai vostri istinti.

Cosa dire, poi, del fatto che per un’ora e mezza non sono arrivate le immagini dal percorso? Gli appassionati, da casa, hanno dovuto avere molta fede per mantenere la calma: qualcuno ha fatto training autogeno, altri un giro a piedi per distrarsi, c’è poi chi rimpallava tra la disfatta Ferrari a Sochi e il turno pomeridiano di serie A. Chiaramente nulla ci poteva essere come il fascino dei corridori che attraversano un giro dopo l’altro il circuito Mondiale. Poi, quando scopri che le immagini non arrivavano perché dei due aerei-ponte previsti per l’invio del segnale uno era rotto e l’altro ha dovuto fare benzina a metà corsa, cosa vuoi fare se non sorridere?

Uno dei tratti più pericolosi affrontati dai corridori nella prova in linea di domenica.

Se arriva una solenne bocciatura per organizzatori e UCI riguardo alla logistica, alle decisioni e alla diffusione delle immagini, la promozione per i disegni dei tracciati è invece totale. Affascinanti i tratti in linea in mezzo a scenari e paesaggi intrisi di romanticismo; spettacolare il tracciato dentro Harrogate che non dava un attimo di respiro, non permetteva recuperi, selezionava il gruppo davanti e all’inseguimento. Non c’è contraddizione rispetto a quello detto in precedenza: differenziamo il lato tecnico da quello organizzativo.

I tracciati erano ben disegnati e da tempo non si vedeva una corsa dei professionisti così spettacolare, non tanto per l’incertezza del risultato quanto per il non essersi risolta con il solito attacco nel giro – o strappo – finale, lasciando una sfida uomo contro uomo già a diverse tornate dalla conclusione. Di questo va dato merito a un circuito nervoso che ha consumato le energie dei corridori; il freddo ha pesato e la pioggia ha inciso, è vero, ma a quella, banalmente, non si comanda.

Un lungo romanzo, dunque, a metà tra il Diario di Giamburrasca e il gotico romantico di Mary Shelley. Come abbiamo visto in questa premessa, un po’ grottesco e un po’ surreale, tra il divertente e il drammatico. Di sicuro quello che non è mancato sono stati i colpi di scena anche in corsa, i trionfi, le polemiche, le lacrime, le rimonte, i ribaltoni, le sorprese, le grande imprese: una settimana, dal punto di vista agonistico, di grande ciclismo.

Tutti contro il tempo

Filippo Ganna durante l’arrivo della sua prova a cronometro: sarà un bellissimo bronzo per la spedizione azzurra. ©F.C.I., Twitter

Si parte con la grande novità di questa edizione: la staffetta mista a cronometro. Decisamente più interessante e coinvolgente rispetto alla tradizionale cronometro a squadre, ha la peculiarità di dare un senso ulteriore a una manifestazione che si corre per nazionali. Avevamo avuto un assaggio durante l’Europeo, abbiamo avuto conferma a questo Mondiale di come, dal punto di vista tecnico, è un’idea da riproporre; noi ci sentiamo di promuoverla. Sempre che l’UCI non decida di toglierla per inserire altro – chissà perché non ci stupiremmo.

La gara parte un po’ in sordina, pagando dal punto di vista dell’interesse il fatto di essere una novità quasi assoluta e di essere inserita come gara d’apertura della rassegna iridata, e viene vinta come da pronostico dall’Olanda davanti alla Germania e alla Gran Bretagna. L’Italia è sfortunata: Longo Borghini fora nel tratto centrale della frazione femminile e proprio per questo motivo la Nazionale si ritrova al quarto posto finale per pochi secondi. Un suggerimento interessante per dare ancora più di pepe e incertezza alla prova lo dà Cicloweb: appoggiamo pienamente l’idea.

Camilla Alessio, seconda a Innsbruck nella prova a cronometro, è quarta quest’anno nello Yorkshire. Un risultato che attesta qualità e continuità dell’atleta.

La seconda gara della rassegna è invece la crono junior femminile: vince la favorita russa Gareeva, talento da seguire nei prossimi anni anche tra le élite con un oro conquistato nonostante un errore di percorso nel finale  – e ti pareva! Alle sue spalle finiscono l’olandese van Anrooij e l’inglese Backstedt, figlia d’arte – suo padre vinse la Roubaix nel 2004 – che l’anno prossimo correrà con la Trek-Segafredo.

Per l’Italia arriva un altro quarto posto, stavolta con Camilla Alessio. Ci soffermiamo sulla classe 2001 padovana e sulle sue lacrime a fine gara che testimoniano le difficoltà e le pressioni che devono subire ragazze ancora giovanissime: Alessio è stata sul punto di smettere più volte in stagione e il suo sfogo, amaro, arriva pochi giorni dopo la decisione di ritirarsi di un altro talento del ciclismo femminile, Lisa Morzenti, che nel 2016 fu medaglia d’argento ai campionati del mondo juniores a Doha. Riflettiamo su quello a cui vanno incontro e cosa devono sopportare ragazzi di quest’età che dovrebbero usare la bicicletta come gioco e passione.

Certo, catapultarsi in mezzo a una rassegna iridata che da un po’ di anni unisce tutti è un onore ma anche una responsabilità e un peso complicato da portarsi dietro, specialmente per chi arriva da preparazioni esasperate che tra gli juniores, a volte, ricordano quelle dei professionisti, come ci ha detto tempo fa Marino Amadori in un’intervista: “Vedo troppi juniores che scimmiottano i professionisti o i dilettanti. Chiedono troppo alla loro testa e al loro corpo e così, quando arrivano a diciotto anni, sono già cotti, sfasati, senza stimoli.

Il campione del mondo della cronometro tra gli juniores Antonio Tiberi. ©BDC-MAG.com, Twitter

La cronometro juniores al maschile, invece, regala una delle azioni più spettacolari dal punto di vista tecnico e atletico di tutta la rassegna. Antonio Tiberi  è autore di un numero che abbiamo già definito nel podcast, prendendoci i nostri rischi, à la Evenepoel. Alla partenza rompe una pedivella, scende dalla bici con calma olimpica – dovremmo dire mondiale  -, cambia il mezzo, riparte e stravince annichilendo la concorrenza. Lui che alla vigilia, seppure tra i papabili alle medaglie, non era di certo il grande favorito.

Sul podio con lui l’interessante olandese Enzo Leijnse e il talentuoso quanto estroso Marco Brenner, tedesco, rivale di mille battaglie dei nostri Tiberi e Andrea Piccolo. A proposito: bravo pure lui, sesto, al termine di una stagione di qualità ed estremamente dispendiosa a conferma di essere un diamante importante del ciclismo azzurro. Al quarto posto, invece, Quinn Simmons che, come vedremo in seguito, dominerà con il piglio del tiranno la prova in linea.

Ora l’obiettivo sarà quello di non caricare l’interessantissimo duo azzurro di troppi oneri e aspettative; entrambi il prossimo anno correranno con la maglia del Team Colpack e hanno già pronto un contratto nel 2021 con due team del World Tour: Tiberi con la Trek-Segafredo e Piccolo con l’Astana. I due hanno un futuro che sembra già scritto e preparato e ci auguriamo che tutto ciò non si riveli un boomerang; hanno le qualità per emergere e sembrano avere anche spalle solide; ce lo auguriamo: i detrattori sono già col fucile puntato, pronti a fare pesare ogni minima débâcle o a fare notare ogni minimo dubbio. Il peso delle responsabilità si farà via via più forte e la speranza è quella che questi ragazzi, pronti al grande salto, non arrivino tra i professionisti già spompati. Il nostro auspicio è quello che possano crescere con calma facendo un passo dietro l’altro senza troppe pressioni.

Il podio della cronometro élite, con in mezzo un sorridente Dennis. ©UCI, Twitter

Tra le donne élite vince l’americana Chloe Dygert, ovvero una delle due grandi sorprese di questo Mondiale, non tanto perché il suo non fosse un nome quotato, ma per le proporzioni del suo successo. Van der Breggen e van Vleuten, infatti, vengono distanziate rispettivamente di 1’32 e 1’53”.

Anche tra gli uomini due terzi del podio erano fra i più pronosticati della vigilia. Vince Dennis – e via alle polemiche anche qui, in un Mondiale che non si fa mancare nulla. L’australiano, oramai ex Bahrain, infatti, non disputa la prova con la Merida della sua squadra, ma con una BMC con le scritte coperte. E al termine della prova in linea élite maschile arriva anche il comunicato della rescissione del contratto tra l’australiano e la squadra.

Dennis, che da mesi ha in testa questa cronometro, mette in strada una prestazione di alto profilo e relega al secondo posto colui che già da Tokyo 2020 potrebbe diventare il nuovo dominatore di questo esercizio: Remco Evenepoel. A soli diciannove anni, il ragazzino sale sul podio e all’inizio pare quasi imbronciato nonostante l’ennesimo risultato storico: nessun precedente di atleti sul podio nel mondiale juniores e poi subito in quello élite l’anno successivo. Ma stiamo iniziando a capire come il giovane ex terzino dell’Anderlecht e del PSV non abbia mezze misure o paragoni con il passato. Sarà piuttosto interessante capirne i limiti: quali margini avrà? Fin dove si potrà spingere con queste prestazioni? Che corridore diventerà? Anche noi in questo caso abbiamo fretta: il futuro è un disegno che vogliamo vedere completato al più presto.

Tra Europeo e Mondiale, Remco Evenepoel è l’atleta più medagliato della categoria élite. ©Remco Evenepoel, Twitter

Dietro loro due c’è Ganna: una delle tante note liete di una spedizione azzurra arrivata a questo Mondiale per la verità dietro un po’ di scetticismo, ma capace di conquistare risultati e piazzamenti di qualità ovunque e sfiorando persino il colpo grosso nella prova in linea degli élite. Il classe ’96 piemontese continua la sua costante crescita a grandi livelli: dopo aver conquistato medaglie su pista e su strada anche nelle categorie giovanili, Ganna è ormai maturo e mostra grande affinità su un tracciato lungo, nervoso, difficile da interpretare.

Arriva così la seconda medaglia mondiale della storia sotto la gestione di Davide Cassani, dopo l’argento di Malori a Richmond, sempre a cronometro. Ganna è stato bravo e fortunato ad approfittare di una serie di controprestazioni, su tutte quella di Roglič, dato tra i favoriti alla vigilia e arrivato stanco dalla Vuelta, e dei problemi che hanno coinvolto per l’ennesima volta Campenaerts che perde tempo per un problema meccanico. Ganna è stato perfetto nel gestire una parte finale dove ha resistito al ritorno di diversi corridori come Bevin, Dowsett e Craddock e respingendo l’attacco di Oliveira che gli era davanti all’ultimo intertempo.

Ha mostrato a tutti che il suo pedigree è di quelli di razza importante: fuoriclasse o campione lo scopriremo nei prossimi anni, perché anche in questo caso si tratta di un ragazzo giovanissimo e che oltretutto fino a Tokyo 2020 avrà il compito di misurarsi con costanza su pista. La prova a squadre dell’inseguimento, infatti, sarà il momento clou della sua sin qui giovane carriera; poi si potrà dedicare con più continuità alla strada dove fra i suoi obiettivi ci sono prologhi, cronometro – sognare la maglia iridata non è più impossibile – e perché no: corse di un giorno.

Al via della cronometro c’era anche Affini; il neo professionista lombardo, anche lui classe ’96, arriva da una stagione di spessore, con già due bei successi, e da qualcuno era dato più quotato di Ganna in proiezione medaglia. Arriva un sedicesimo posto che non lo soddisfa, ma che resta un punto di partenza per le prossime stagioni. Motore, testa e intelligenza fanno di lui uno dei futuri corridori di vertice del ciclismo italiano.

Purtroppo una delle immagini più iconiche dell’intera rassegna iridata

Abbiamo lasciato volontariamente per ultima la prova Under 23 a cronometro, da molte parti definita una farsa. Intenti come sono a cambiare le regole e i calendari, i punteggi e le categorie delle varie corse, a sminuire federazioni storiche e a esaltarne altre, oppure a misurare l’altezza di calzini e copri scarpe, ecco che UCI – e l’organizzazione – ci regalano una commedia che di divertente non ha nulla. O forse si trattava di humor britannico e allora non c’abbiamo capito niente. Le immagini di Attila Valter e Price-Pejtersen che si fanno un bagno con la propria bicicletta, rischiando di farsi molto male, sono già storia. Monty Python? Prendete nota!

Dalla corsa, è vero, al netto delle scivolate e delle difficoltà sono emersi valori conosciuti: Mikkel Bjerg vince il titolo per il terzo anno consecutivo tra gli Under 23 – era un record già le due volte di fila – e con lui sul podio McNulty e Garrison. I tre composero, in ordine differente, il podio anche nella prova a cronometro juniores nel 2016. Bjerg e McNulty l’anno prossimo si ritroveranno a pedalare fianco a fianco nel World Tour in una sempre più giovane ma agguerrita UAE-Emirates; entrambi dovranno dimostrare le qualità per primeggiare anche al vertice del ciclismo e visto quanto sono stati spremuti fino a oggi non è detto che ci riescano. McNulty resta uno dei talenti in assoluto più interessanti per i grandi giri, Bjerg sembra avere più un profilo da passista per le corse di un giorno o per essere uomo d’appoggio per i capitani nelle corse a tappe.

Dicevamo che i valori sono emersi e allora anche i risultati dei due azzurri non vanno troppo lontano da una stagione non esaltante in questa specialità per i ragazzi italiani: Sobrero, ventisettesimo posto per lui, lo scorso anno chiuse la cronometro mondiale con una splendida top ten; arriva da una stagione fatta di alti e bassi che sembra più incentrata alla preparazione al salto nel World Tour – correrà con il Team NTT – mentre Puppio, già argento tra gli juniores a cronometro due stagioni fa, è ventiduesimo: anche per lui questo è sembrato un anno di transizione, in attesa di periodi decisamente migliori e senza dimenticare che il talento non gli manca assolutamente.

Tutti assieme, prove in linea

I tifosi olandesi festeggiano la vittoria di Annemiek van Vleuten. ©Yorkshire 2019, Twitter

E veniamo alla prove in linea, quelle che entusiasmano di più: non ce ne vogliano cronomen e fornitori. Si apre con la prova juniores maschile su una distanza di centoquaranta chilometri, di certo non usuale per ragazzi di diciassette e diciotto anni. La maglia iridata la conquista uno dei favoriti della vigilia, uno che sembra avere già il fisico dell’atleta ben definito e più maturo rispetto a diversi suoi coetanei.

Quinn Simmons, da subito ribattezzato King, con la sua nazionale imposta un ritmo infernale per tutto il tratto in linea che creerà una netta selezione in gruppo e gli permetterà di involarsi in solitaria verso il traguardo di Harrogate. Fra quattro mesi, il barbuto americano di Durango, Colorado, che va forte anche in Mountain Bike, pratica lo sci alpinismo e ama la Roubaix, muoverà i primi passi nella Trek-Segafredo: per lui un futuro per le corse in linea.

Per il secondo anno consecutivo, dunque, il campione del mondo tra gli juniores effettuerà in un colpo solo il doppio salto: prima di lui, nemmeno a dirlo, Remco Evenepoel. Alle sue spalle arriva Alessio Martinelli, interessante prospetto del 2001, che per il momento preferisce fare un passo alla volta: il prossimo anno continuerà il suo sviluppo nel Team Colpack; visti i progressi – quest’anno è arrivato secondo al Giro della Lunigiana – non è da escludere che per lui l’anno tra gli Under 23 possa essere un trampolino di lancio verso il mondo del professionismo: le qualità e l’approccio alle corse non mancano.

Bronzo ancora per gli Stati Uniti, arrivati a questa rassegna davvero tirati a lucido in (quasi) tutte le categorie – vinceranno, infatti, il medagliere finale – e lo conquista Magnus Sheffield, non poteva chiamarsi altrimenti, magnifico nel selezionare il gruppo e permettere la stoccata del suo capitano: nel finale riesce a vincere la volata per la medaglia precedendo il sempre presente Leijnse e il campione italiano di categoria Garofoli, quinto e a lungo all’attacco prima di entrare nel circuito finale.

Se gli junior regalano emozioni, diverso il discorso per la corsa delle ragazze di questa categoria; si arriva in una volata di un gruppo ancora abbastanza numeroso e a vincere è, nemmeno a dirlo, un ‘atleta americana: Megan Jastrab, una che quest’anno su nove gare a cui ha partecipato, ne ha vinte cinque, finendo tre volte seconda. Alle sue spalle la belga De Wilde, che regala al Belgio metà delle medaglie conquistate in questa – molto deludente per loro – rassegna, e al terzo posto l’olandese Nooijen. Per l’Italia, che non era andata a medaglia nemmeno lo scorso anno dopo i due titoli consecutivi conquistati da Balsamo e Pirrone, ma che lo scorso anno piazzò comunque tre ragazze nelle prime sette, il miglior risultato è l’undicesimo di Camilla Alessio.

Oro nella prova a cronometro, quarta in quella in linea, dopo un estenuante tentativo di recupero sulla leader van Vleuten, Chloe Dygert è uno dei personaggi copertina di questa manifestazione ©indystar, Twitter

Restando alle donne, nella giornata di sabato la prova élite femminile regala una delle imprese più clamorose della storia del ciclismo di vertice, rendendo la corsa persino noiosa per chi la stava seguendo in televisione. Annemiek van Vleuten si conferma la regina di queste ultime stagioni vincendo con un attacco a oltre cento chilometri dalla conclusione, amministrando e trionfando davanti alla compagna di nazionale Anna van der Breggen: una doppietta quasi annunciata.

Al terzo posto finisce Amanda Spratt, seconda lo scorso anno, una che se non avesse incontrato sul suo cammino il duo olandese, probabilmente avrebbe uno dei palmarès più ricchi della storia del ciclismo femminile. Per l’Olanda è il terzo titolo mondiale donne consecutivo. L’Italia fa quel che può in una corsa più dura del previsto a causa proprio dell’affondo di van Veluten; quinta è una sempre regolare Elisa Longo Borghini, la quale, pur non arrivando da stagioni straordinarie, è sempre tenace ed esemplare lì con le migliori. Lei che nel 2012, a soli 20 anni, conquistò la sua prima – e sin’ora unica- medaglia, nel Mondiale in linea.

Il podio del Mondiale Under 23. ©ACCPI Assocoriddori, Twitter

Facciamo un piccolo passo indietro, almeno dal punto di vista temporale, e parliamo della corsa degli Under 23. Vince Samuele Battistella ed è il secondo oro della nostra tanto criticata spedizione, che si fa strada – è il caso di dirlo – tra mille difficoltà: strade pericolose sulle quali allenarsi, sempre meno praticanti, nessuna squadra nel World Tour e Professional che chiudono, difficoltà nel trovare corridori di vertice per i Grandi Giri (la disciplina più amata dagli italiani), corse che resistono a fatica, fondamenta sulle quali basarsi che sembrano sempre meno solide: eppure siamo sempre lì. Silvio Martinello, sempre attento nelle analisi, definisce ciò “il paradosso del nostro ciclismo”, non possiamo che essere d’accordo.

Battistella vince correndo davanti dal primo metro, con il piglio del veterano consumato. Resta sempre nell’avangaurdia del plotone anche quando va via una fuga di dodici corridori, fra cui il compagno di nazionale Covi, corridore tenace, adatto a questo tipo di tracciato e che si sacrifica per la causa azzurra: anche per lui l’anno prossimo il salto, previsto da tempo per altro, nel World Tour  con la casacca della UAE Team Emirates. Battistella si fa sempre trovare in testa al gruppo, è l’unico azzurro presente nel momento della selezione decisiva, ed è lui, con uno scatto sullo strappo di Oak Beck, a portare via il quartetto che si giocherà le medaglie.

L’esito poi è noto: i quattro davanti rallentano, le energie sono finite, c’è paura di quel rettilineo finale, infame, difficile da leggere; dal tira-tu-che-tiro-io emergono i tre inseguitori: Eekhoff è il più veloce e passa per primo il traguardo; il lungagnone olandese, però, verrà squalificato. Higuita in rimonta, uscito in grande condizione dalla Vuelta, sarà quinto, Kron sesto. I superstiti del quartetto davanti si piazzeranno nell’ordine: Battistella secondo, Bissegger, terzo, Pidcock quarto, Foss settimo. Tutti questi corridori scaleranno, ovviamente, una posizione.

Battistella conquista così un titolo non pronosticabile alla vigilia, ma che corona un triennio fra gli Under 23 di assoluto livello, dove ha dimostrato di crescere stagione dopo stagione. Anche lo scorso anno, a Innsbruck, fu il primo degli azzurri al traguardo: sedicesimo. Il ventunenne di Rossano Veneto si conferma così tra i corridori italiani da tenere in maggiore considerazione per il futuro nelle corse di un giorno: esplosivo, resistente, dotato anche di uno discreto spunto, potrebbe ambire, nel mondo del professionismo – passerà con il Team NTT – a provare a vincere classiche vallonate o ad andare a caccia di tappe nei grandi giri.

Gli altri azzurri fanno la loro parte: Covi, abbiamo detto, è fondamentale nell’inserirsi nella fuga iniziale, Konychev, che a fine corsa sarà squalificato, controlla nel gruppo dietro, Dainese viene tagliato fuori da un problema meccanico e si ritirerà: come immaginato alla vigilia, però, era difficile pensarlo davanti su un finale così complesso. Ferri, è l’ombra del velocista della SEG, conclude nelle retrovie, mentre Aleotti deve abbandonare presto i sogni di gloria per via di un incidente alla bici: anche lui in un finale così duro ci sarebbe stato benissimo.

Trentin è uno splendido argento nella prova élite maschile. ©CyclingPub, Twitter

E chiudiamo questa lunga carrellata con la prova élite. Interessante la chiave di lettura data dall’ex giornalista di Tuttosport Paolo Viberti il quale mette l’accento sulla crisi di freddo patita da van der Poel e sul fatto che a Matteo Trentin si è spenta la luce a duecento metri dal traguardo perché probabilmente, togliendosi la giacca nell’ultimo giro, ha abbassato notevolmente la temperatura del suo corpo finendo svuotato di tutte le energie.

Un analisi più precisa di quella poco lucida fatta in diretta in telecronaca, “ha sbagliato qualcosa con il cambio durante la volata“, ma a discolpa dei telecronisti va data la delusione enorme avuta in quel momento: Matteo Trentin partiva come il favorito in quello sprint a tre, e in quegli attimi era difficile valutare oggettivamente quello che si vedeva, soprattutto dopo ore di diretta. Sempre Viberti insiste sull’eccessiva magrezza di diversi corridori che sono andati in difficoltà, contrapposti ai primi arrivati al traguardo; scorrendo l’ordine d’arrivo, infatti, oltre al robusto Pedersen, anche Küng, Moscon e Sagan che completano i primi cinque posti, sono tutti discreti marcantoni. L’ordine d’arrivo, in poche parole, non ha mentito sulle forze in campo.

L’Italia è promossa a pieni voti: Cassani, dopo le due vittorie consecutive nell’Europeo, risponde dalla strada alle critiche che ogni anno lo investono: “Va bene l’Europeo e i suoi trionfi, ma il Mondiale è tutt’altra cosa”. Nazionali forti e coese come quella di Cassani, al momento non ce ne sono. Visconti è perfetto nel guidare il gruppo nei primi giri, Cimolai è sempre davanti nella fase che precede l’allungo di Trentin a ruota di van der Poel. Bettiol e Colbrelli nel gruppo dietro hanno corso in copertura mettendo nel sacco Belgio e Francia.

L’Italia non avrà la profondità del Belgio per le corse di un giorno, non avrà punte come Olanda e Francia (ma sarà poi vero?), ma ha corso alla grande, dimostrandosi ancora una volta la nazionale più compatta e con un finalizzatore in grande giornata, peccato per quegli ultimi metri: ma è la legge del ciclismo e anche il suo incredibile, quanto discreto, fascino democratico.

Il Belgio esce con le ossa rotte dalla prova élite come da quella degli Under 23: nazionale faro che non riesce a fare meglio dell’ottavo posto di Van Avermaet; chissà con Gilbert, caduto qualche giro prima, cosa sarebbe successo. Di certo il belga di Lokeren non fa una gran figura: quando Gilbert, dopo la caduta, si ritrova dietro ad inseguire aiutato da Evenepoel, Van Avermaet mette davanti un compagno a tirare: cosa ti passava per la testa Greg?

In una lunga intervista apparsa su l’Equipe, Thomas Vockler si prende tutta la responsabilità per il flop mondiale nella prova élite maschile. Il problema è che la Francia chiude l’intera manifestazione senza una medaglia. ©Antoine Vayer, Twitter

Distrutta anche la Francia, oltre a uscire da questo Mondiale con zero medaglie – sì che il movimento francese è più in salute rispetto al nostro – viene a mancare totalmente il suo capitano. Alaphilippe, infatti nel momento dell’attacco decisivo di van der Poel, al quale risponde con facilità Trentin, prova a stargli dietro, ma rimbalza malamente: “Non ho nessun rimpianto“, dirà a fine gara: “È stata una gara troppo brutale per me“. Ce ne siamo accorti, caro Julian. La carta di riserva, Cosnefroy, da tanti indicato come possibile outsider ai fini di un posto sul podio, non si vede praticamente mai.

Qualcosa in più arriva dalla Spagna che nonostante il ritiro di Valverde – prima abbandono per lui in carriera a un campionato del Mondo, a fine corsa parlerà di “corsa folle” – mostra entrambi gli Izagirre in buona giornata e Gorka infatti riuscirà a concludere con un onorevole nono posto. Peter Sagan, invece, aveva una sola cartuccia, come già successo nei tre mondiali vinti: l’ha sparata nello strappo finale per provare a riavvicinarsi in zona podio, ma gli è andata male perché i quattro ormai erano andati. Una tattica sparagnina di questo Sagan in versione 2019 che non brilla eccessivamente e fatica a scaldare gli animi come in passato.

Una corsa al massacro, ad eliminazione che vede al traguardo solo quarantasei corridori, fra i quali Vakoc, uno che pochi mesi fa pensava di non poter più correre in bici dopo un gravissimo incidente e che arriva ultimo a quasi venti minuti dal primo e lo stesso van der Poel, che nonostante la grave crisi di freddo patita mentre sembrava involarsi verso una medaglia sicura, onora gara e avversari chiudendo lo stesso la corsa quarantatreesimo posto a quasi undici minuti di ritardo: “Sono stato male e non so perché, ma ho voluto chiudere la corsa per onorare il mio primo campionato del mondo e fare esperienza.

Valgren nelle ultime gare sembra essersi ritrovato: a fine corsa dirà che questo è il giorno più bello della storia del ciclismo danese. ©cyclingnews, Twitter

Chiosa sulla Danimarca: anche tra gli Under 23 avevano nel complesso una delle squadre più forti e complete, ma se lì la tattica è stata un po’ assurda, con corridori che si correvano contro, Bjerg che tirava e poi si spostava chiedendo il cambio dopo aver staccato tutti di ruota, qui sono stati perfetti e fortunati nel piazzare Pedersen davanti nella sua migliore giornata della vita da corridore. Dietro, Fuglsang ha controllato e stoppato, Valgren ha seguito Sagan chiudendo  con un sesto posto che dà ancora più peso e prestigio a una nazionale che, pur avendo avuto negli ultimi decenni buoni interpreti per le corse di un giorno, conquista per la prima volta il titolo mondiale. E lo fa con uno dei meno quotati della spedizione.

Mads Pedersen, nato nel dicembre del 1995, diventa così il più giovane campione del mondo dai tempi di Freire a Verona. Chissà se, come nel caso dello spagnolo, questo titolo lo proietterà in una nuova dimensione. In carriera da professionista, Pedersen aveva stupito tutti nel Fiandre del 2018, chiuso secondo: anche lì fu una giornata dura e battuta dal maltempo, e anche li anticipò i migliori. Qualcuno se lo ricorderà in fuga al Giro nel 2017, tappa di Terme Luigiane, tirò alla morte per aiutare il suo compagno di squadra Stuyven a conquistare la tappa: quel giorno vinse, però, Dillier.

Al tempo, Pedersen era un giovane di buone speranze, impensabile immaginarlo due anni dopo con la maglia iridata, quella maglia iridata che ora avrà gli occhi puntati addosso ad ogni competizione. Pedersen, nel 2020, avrà il compito di onorarla prendendo il via nelle gare più ambite e di sicuro sarà marcato a vista. La morale di questa storia è che nessuno avrà più il coraggio di sottovalutarlo.

Foto in evidenza ©Uci, Twitter

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.