La storia del ciclismo femminile afghano ha un valore universale.
Shannon Galpin è un’attivista americana che ha dedicato, e sta dedicando tuttora, la sua vita a lotte di un certo peso. La maggior parte di queste riguardano le donne: il loro ruolo all’interno della società, i diritti che vengono riconosciuti e negati, la loro libertà e la loro sicurezza. Nel 2006, proprio per favorire questo processo, Galpin ha fondato Mountains2Mountains, un’associazione non-profit. Qualche anno più tardi, Galpin avrebbe pubblicato un libro con lo stesso titolo nel quale veniva raccontata la situazione delle donne afghane. Il libro riscosse molto successo e nel 2013 Galpin venne nominata “Avventuriera dell’anno” dal National Geographic.
Di tutte le battaglie portate avanti da Galpin, quella condotta al fianco delle donne afghane è stata la più lunga, la più dura, la più soddisfacente. La più chiacchierata, se vogliamo: un aspetto tutt’altro che marginale, se è vero che l’esposizione mediatica favorisce la diffusione. Galpin andò per la prima volta in Afghanistan nell’autunno del 2008. Un anno più tardi, per il suo terzo viaggio, decise di portare con sé una mountain bike. In breve tempo, la donna poté constatare che la vita delle donne afghane era davvero complicata: per uscire dovevano chiedere il permesso; quasi sempre erano accompagnate da un uomo, il marito o un fratello; dovevano vestirsi in un certo modo e sottostare, in ogni momento, alle decisioni degli uomini.

Tuttavia, in mezzo a quest’ignoranza diffusa, Galpin riuscì a notare un particolare ulteriore: la sua bicicletta, quella con la quale viaggiava in lungo e in largo per l’Afghanistan, veniva osservata di taglio; curiosità mista a disprezzo, per così dire. Quando Galpin si muoveva a piedi o in macchina, veniva servita e riverita: era una donna, è vero, ma non era una del posto, bensì una turista. Quando pedalava, invece, le sensazioni intorno a lei si facevano più contrastanti. Gruppi di bambini e bambine la seguivano correndole dietro, specialmente quando lei attraversava i centri abitati. Negli occhi dei primi ritrovò ironia e scherno; negli occhi delle seconde, al contrario, rispetto e curiosità. In breve tempo, Galpin capì: ad una donna afghana non era permesso pedalare.
Tabù
Da quando, all’inizio degli anni duemila, i talebani persero potere, l’Afghanistan ha cominciato a scrollarsi di dosso paure e imposizioni. Non si può dire che la situazione sia paragonabile a quella occidentale, ma i miglioramenti sono innegabili. La stessa Galpin, durante i suoi primi viaggi, raccontava che aveva visto donne entrare in politica e diventare giudici: un risultato impensabile, soltanto pochi anni prima. E allora, perché le donne potevano entrare in politica e diventare giudici ma non dovevano assolutamente pedalare?
L’ultimo tabù da abbattere: ecco com’è stato descritto questo paradosso. Proviamo a fare ordine. Punto primo, è la donna afghana a partire svantaggiata in quanto donna. Per tradizione, per retaggio storico e culturale, per la religione: chi più ne ha, più ne metta. Secondo un report del 2010 dello Human Rights Watch, l’85% delle donne afghane dichiarava di aver subito violenza fisica, sessuale o psicologica; a volte, anche tutte e tre le tipologie, alle quali va aggiunta la pratica del matrimonio combinato – forzato, in questo caso, è un sinonimo. «Scelsi l’Afghanistan perché mi sembrava il peggior posto al mondo per essere una donna», ha spiegato Shannon Galpin a Much Better Adventures nel 2019.

Punto secondo, le consuetudini: una donna afghana non doveva pedalare perché non si era mai vista una donna afghana che pedalava. Non è una cosa da donne, molto semplicemente. Infine, si è creduto a lungo che pedalare facesse perdere la verginità, una colpa che la donna afghana rischia di pagare con la morte. E poi, in caso di caduta, cosa si sarebbe detto? Una ragazza afghana che cade da una bicicletta ferendosi e finendo nella polvere: un marchio, un’onta, una macchia. Ecco quello che Shannon Galpin registrò all’inizio: paura, diffidenza, attaccamento ad una certa idea di mondo da contrapporre a quella occidentale, acerrima nemica. Anche una riflessione acuta nella sua barbarità: essendo la bicicletta un mezzo di trasporto, una donna che sa pedalare è una donna libera.
Come Galpin avrebbe scoperto di lì a breve, in Afghanistan c’è chi pedala. Gli uomini, ovviamente: per muoversi e per lavorare, ma anche per passione. La Federazione Ciclista Afghana era presieduta da Haji Abdul Sediq Seddiqi, lo stesso che l’aveva fondata all’inizio degli anni ’80. Consisteva in una stanza costruita accanto a casa sua. Per anni, Seddiqi è stato l’uomo che ha permesso al ciclismo di sopravvivere anche in Afghanistan. Col tempo, il numero dei tesserati è aumentato e nel 2011, a Kabul, è nata la squadra femminile. Le ragazze erano giovani, intorno ai vent’anni. Un’altra realtà sarebbe nata più tardi a Bamiyan, circa duecento chilometri da Kabul, distretto famoso perlopiù per le due gigantesche statue di Buddha che i talebani distrussero nel 2001. L’Afghanistan si stava mettendo in moto.
Galpin non perse tempo. Tornata a casa – a Boulder, in Colorado -, si mise in contatto con tutti gli sponsor che conosceva. E ne conosceva, dato che era appassionata di mountain bike fin da giovanissima ed era stata un’allenatrice. Liv, un’azienda parallela alla Giant, fu la prima ad aderire. Poi si sarebbero aggiunti Giant, Shimano, Skratch Labs e Inertia Racing Technology. Galpin fece tutto il possibile: investì di tasca sua, chiese un prestito alla sorella e si appoggiò a sponsor di primo piano. Fece tutto il possibile per fornire alle ragazze afghane e alla loro Federazione gli strumenti necessari per pedalare e per emanciparsi: biciclette, caschi, pezzi di ricambio. Per quanto piccolo e inesperto potesse essere, il movimento ciclistico afghano era ufficialmente nato e ne facevano parte anche le donne.

Ogni volta che Galpin tornava in Afghanistan, trovava un’atmosfera migliore: le ragazze coinvolte miglioravano a vista d’occhio, il progetto guadagnava visibilità e credito e una piccola parte degli uomini stava cominciando a ricredersi. A loro si rivolse Seddiqi, che delle ragazze era diventato allenatore e mentore: chiedeva agli uomini di accompagnare in strada le loro donne, così da evitare loro offese, insulti e minacce. Perché l’evoluzione, per quanto palese, era lenta e i momenti spiacevoli si ripetevano frequentemente. Una ragazza raccontò di essere stata investita volontariamente da un motore. Un giorno sparirono alcune biciclette e Galpin fu costretta a rubarle a sua volta per riportarle dove dovevano stare. «Sono le ragazze più coraggiose che abbia mai conosciuto», dichiarò una volta a Bicycling.
Il successo iniziale, come detto, fruttò una visibilità insperata. Questa, tuttavia, si rivelava essere un’arma a doppio taglio: da una parte c’era l’interesse della stampa, della televisione, di molti sponsor; dall’altra, le ragazze fautrici di questo cambiamento radicale divennero riconoscibili e iniziarono a temere per la loro vita. In ogni momento, infatti, qualche integralista avrebbe potuto sparare con l’intenzione di ucciderle. Senza dimenticare i talebani, ancora attivi in alcune zone dell’Afghanistan. «Realizzai che in quel momento, in Afghanistan, stava succedendo quello che era successo in America e in Europa un secolo prima. Le lotte per la libertà, per la parità dei sessi», spiegava Galpin. «A un certo punto, le donne afghane si sono chieste: merito la libertà di movimento? Si sono date una risposta rivoluzionaria: sì».
Al messaggio sociale, quello principale, si accostò anche quello sportivo. Il primo sport afghano era il cricket, ma le ragazze dimostrarono di saperci fare con la bicicletta da corsa. Una di loro, Masomah Alizada, partecipò perfino ai campionati asiatici che si tennero in Kazakistan nel 2014. Per qualche tempo, la possibilità di vedere qualcuna di loro impegnata alle Olimpiadi di Tokyo 2020 non sembrava così remota. Quando Galpin chiese loro qual era il loro sogno sportivo, le risposero il Tour de France.

I riconoscimenti arrivavano sempre più spesso. Nel novembre del 2015, la squadra femminile afghana venne decretata “Avventuriera dell’anno” per l’anno successivo. Nel 2016, il parlamento italiano s’impegnò affinché la loro storia venisse considerata nell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace. Il premio più tangibile per il lavoro fatto, tuttavia, rimane Afghan Cycles, il documentario che Sarah Menzies e Jenny Nichols hanno girato insieme a Shannon Galpin. «Mi recai per la prima volta in Afghanistan nel 2013», ha raccontato Menzies a Crosscut nel 2018. «In un primo momento pensavo di realizzare qualcosa di breve, ma ben presto ho capito che avevamo a che fare con qualcosa di veramente importante. Dovevamo scavare a fondo. Una bicicletta può dare indipendenza e mobilità. La loro storia è universale».
Alcuni passaggi sono forti e toccanti. «Abbiamo un proverbio che fa così», spiega una delle protagonista. «Se io mi siedo e tu ti siedi, tutti si siederanno; se io mi alzo e tu ti alzi, tutti si alzeranno». Parla anche un talebano, credendo che le telecamere siano spente. «Per quanto mi riguarda, è sufficiente che una donna giri in pantaloni per il bazaar di Kabul per spararle», afferma. «La gente dice un sacco di cose», racconta una ragazza nel trailer, «ma se dovessimo curarci di tutto quello che dice la gente, allora non usciremmo più di casa». La prima di Afghan Cycles arrivò nel fine settimana degli Hot Docs 2018 di Toronto. Tuttavia, Shannon Galpin passò due giorni interi a piangere. Non era gioia. Mentre la storia delle ragazze afghane toccava uno dei suoi punti più alti, il progetto era definitivamente naufragato.
Corruzione
Quando gli atleti della squadra maschile iniziarono ad accennarglielo, Galpin non ci credeva. Seddiqi non poteva predicare bene e razzolare male; lui, il grande capo del ciclismo afghano, il primo a muoversi in una certa direzione per provare a cambiare le convinzioni d’un paese. «Attribuii tutto alla gelosia dei maschi nei confronti del successo e della notorietà che stava riscuotendo la storia delle loro colleghe», riconobbe a Bicycling. «E invece mi sbagliavo. Avevano ragione».

Seddiqi s’intascava una parte dei soldi che la Federazione riceveva da Galpin e da chi decideva di contribuire, mentiva sulle trasferte organizzate per permettere agli atleti di correre fuori dall’Afghanistan e vendeva alcune delle biciclette che costituivano il tesoro del movimento ciclistico afghano. Invece di accompagnarle in India per correre, una volta Seddiqi portò le ragazze a visitare Nuova Delhi. Quando Galpin entrò in possesso di alcune fotografie che immortalavano uomini comuni in sella a delle biciclette da corsa, si rese conto che i ragazzi non raccontava frottole: Seddiqi la stava prendendo in giro.
Quando i due si confrontarono, Seddiqi rivelò subito i suoi intenti dimostrandosi più infastidito che dispiaciuto. Disse che alle corse preferiva le gite perché le ragazze non erano pronte per correre, oppure perché non gli erano stati dati i soldi necessari a coprire tutte le spese. Galpin gli mostrò allora le fotografie e lui calò definitivamente la maschera: lui era il grande capo, lui era il riferimento del ciclismo afghano, lui era arrivato per primo e dunque aveva il diritto di gestire la Federazione Ciclistica come meglio credeva. Non solo: pare che Seddiqi avesse sposato tre giovani atlete, ogni volta divorziando in breve tempo. «E tutte e tre si sono lamentate del suo carattere e del suo modo di fare», dichiarò Mohammad Zaher Aghbar, il presidente del Comitato Olimpico Afghano. Hashmat Barakzai, uno dei ciclisti più forti del paese, scappò in Germania chiedendo l’asilo politico prima di rivelare che Seddiqi usava la squadra femminile come se fosse il suo salvadanaio e il suo harem.
Ci furono delle elezioni. La squadra maschile, avendo sfiduciato Seddiqi, si schierò dalla parte del neoeletto Hussain Hamidi. Quella femminile, soggiogata dalla paura di eventuali ritorsioni, continuò a rimanere al fianco di Seddiqi, il quale rifiutò di lasciare il suo posto. Successe lo stesso per la presidenza del Comitato Olimpico Afghano. «Quello che sta succedendo è pazzesco», lamentava Galpin. «Basta rifiutarsi e puntare i piedi per mantenere la propria carica. Nella politica afghana succede lo stesso. Sembra di essere in una dittatura». Galpin fu costretta a interrompere l’impegno preso col ciclismo afghano: non si fidava più e probabilmente, se non era riuscita a convincere molte donne di quanto stava accadendo, nemmeno loro si fidavano di lei. «Troverò un altro modo per seguire la faccenda», disse, «ma per il momento devo cessare l’attività».

Come se non bastasse, Galpin ebbe dei gravi problemi di salute. Un giorno, mentre pedalava, sentì un rumore conosciuto all’interno della sua testa: una specie di ronzio, una sensazione spiacevole che l’aveva già riguardata tempo prima. Nella sua testa si era formato un grumo di sangue, il secondo in tredici mesi. I dottori furono intransigenti: doveva rivedere la sua vita e il suo stile di vita, rimanere tranquilla il più a lungo possibile e prestare estrema attenzione alle cadute, dato che le medicine per fluidificare il sangue le sarebbero potute costare un dissanguamento anche per un taglietto.
La squadra femminile che Shannon Galpin aveva allestito e conosciuto non esisteva praticamente più. Le ragazze decisero di accettare l’invito di una Gran Fondo francese. Ma quando arrivarono sul suo solo francese, non resisterono alla tentazione: due di loro scapparono, appellandosi allo status di rifugiate; altre due, sorelle, chiesero l’asilo politico in quanto atlete e si trasferirono in Francia con le rispettive famiglie. Come spiegò al New York Times Robina Jalali, la prima donna insieme a Friba Razayee a rappresentare l’Afghanistan alle Olimpiadi – quelle di Atene 2004 -, «è sempre più difficile ottenere i documenti per competere all’estero, poiché si ha la sensazione che una ragazza che parte troverà il modo di rimanere dov’è e di non tornare in Afghanistan». Per un periodo, la squadra femminile afghana non esisté più. La prima ondata, quella che aveva segnato la strada, si era esaurita. Toccava alla seconda portare avanti la battaglia.

Piccole donne
Il 28 settembre 2018, nella provincia afghana del Bamiyan, venti donne in sella ad una mountain bike aspettavano soltanto il segnale per partire. Un piede sul pedale, l’altro puntato terra per mantenersi in equilibrio e darsi la spinta. Qualche ora più tardi avrebbero corso anche una cinquantina di uomini. Era la prima edizione della Annual Hindukush MTB Challenge, la prima gara ufficiale di mountain bike mai organizzata sul suolo afghano. È stata voluta e organizzata da Farid Noori, giovane afghano che da un po’ di tempo vive a Boulder, la stessa città di Shannon Galpin. Ed è proprio a Galpin che Noori si è rivolto: la voleva nella sua associazione non-profit, la Mountain Bike Afghanistan, visti i suoi trascorsi umanitari e le sue conoscenze. «Ho un profondo rispetto per lei», ha asserito Noori a Bicycling. «Seppure io sia un afghano appassionato di ciclismo, lei conosce l’Afghanistan e il movimento ciclistico afghano meglio di me. Forse, meglio di chiunque altro». Nonostante i problemi, il ciclismo è ancora vivo in Afghanistan.
Sicuramente ha contribuito il Drop and Ride, un club di freestyle che ha installato la sua base nella zona ovest di Kabul. L’ha fondato Asghar Mehrzadeh, guida e maestro dei cinquanta ragazzi che più volte alla settimana vi si recano per divertirsi, per socializzare, per imparare qualche nuovo trucchetto. Mehrzadeh è un maestro atipico: è piuttosto giovane e l’unico modo che conosce per insegnare qualcosa ai ragazzi è vedere dei video su YouTube e imparare a fare ciò che vede. «Ho iniziato questa attività perché sono letteralmente innamorato di questo sport», diceva a France24. «E poi, pensavo, dovrà pur esserci qualcuno appassionato tanto quanto lo sono io. E infatti c’era. Quando sono arrivate anche le ragazze, per un momento ho pensato alle conseguenze che ci sarebbero state se le avessimo accettate. Ma poi ho detto sì. La vita di una donna in Afghanistan è complicata e non possono pedalare liberamente in strada. Qui possono, invece, e mi piace pensare che questo possa contribuire a spezzare il tabù».

Le conseguenze, ovviamente, ci sono state. «Calci e pugni, ma niente di così grave e serio. Ci sono abituato. Mi accusano di aprire la porta alla cultura occidentale», ha spiegato Mehrzadeh. Una delle quindici ragazze si chiama Zahra e ne sa una più del diavolo. «Sono fortunata perché i miei genitori sono intelligenti e capiscono cos’è giusto e cos’è sbagliato, ma mi rendo conto che ce ne sono molti che non lo capiscono e che impediscono molte cose alle loro figlie. In Afghanistan vengono malviste due cose: le donne che pedalano e le donne che si mescolano senza ritegno ai ragazzi. Immaginate i pensieri degli integralisti: per loro ci stiamo macchiando di peccati gravissimi».
L’unica possibilità che avevano le cicliste afghane per provare a qualificarsi per le Olimpiadi di Tokyo è andata recentemente in fumo: alla vigilia di un importante appuntamento, le loro biciclette sono state irrimediabilmente danneggiate. A correre in loro soccorso c’ha pensato la Federazione Ciclistica Italiana, che ha aperto alla possibilità di ospitare le ragazze tra maggio e giugno per permettere loro di allenarsi con le atlete azzurre sotto la supervisione di Dino Salvoldi. «Ci stiamo organizzando per dare caschi, occhiali, abbigliamento e anche le biciclette, oltre agli automezzi necessari», ha fatto sapere Renato Di Rocco. «Manterremo i contatti con loro, anche quando saranno rientrate nel loro Paese. Grazie anche alla partecipazione di altri enti e speciali progetti, le cicliste afgane potranno tornare nuovamente in Europa». Le Olimpiadi, seppur a malincuore, possono aspettare; il ciclismo afghano e le donne afghane, al contrario, avevano un conto in sospeso con la tradizione.
Foto in evidenza: ©Much Better Adventures