Scegliere in tempo tra Classiche e Grandi Giri significa salvare una carriera.
Il gruppo è la miglior compagnia teatrale itinerante al mondo. Ogni attore recita più o meno bene il ruolo che un regista oscuro gli ha affibbiato. Soltanto alcuni sono fissi: la strada, con le sue insidie, promette però di invertirli. Per quanto lo schema possa essere in divenire, le singole componenti sono però sempre le stesse.
Senza nessuno stupore troviamo quindi: il fuoriclasse, il campione, il dominatore, il gregario, la vecchia volpe, il giovane talento, la meteora, il bambino prodigio, l’incompiuto, il comprimario. E una penna più fantasiosa di quella che scrive questo pezzo potrebbe trovarne anche altri. Ogni generazione si trova ad interpretare lo stesso copione. Il ciclismo, però, si concede un lusso: quello di un’ulteriore figura che va ad arricchire il quadro. Quale? Quella dell’indeciso.
L’indeciso è quel corridore che fisicamente e mentalmente si sente portato (e attratto) per due o più terreni diversi ma che, prima o poi, si vede costretto a sceglierne uno. Nel ciclismo globale (non globalizzato, attenzione) tramontato trent’anni fa, scegliere sarebbe stato quasi controproducente. Già allora c’erano i campioni e le preferenze, è chiaro: ma ognuno, o quasi, correva da febbraio a ottobre e a nessuno, o quasi, passava per la mente di sacrificare un periodo dell’anno per prepararne un altro. Oggi, al contrario, il ciclismo sta attraversando l’era della specializzazione: tenere il piede in due scarpe, in questo caso, può significare confondersi e inciampare.
Come sempre, però, guardare al passato aiuta a leggere in maniera giusta e non troppo pessimistica il presente. Nemmeno prima, insomma, i ciclisti erano necessariamente disposti a tutto per nove mesi all’anno. Bartali ha sempre evitato il pavé, Moser e Saronni scansavano volentieri il Tour de France, Anquetil ha vinto una Liegi e una Gand-Wevelgem perché nelle classiche non riusciva proprio a brillare, Pantani e Indurain preparavano quasi esclusivamente Giro d’Italia e Tour de France. La situazione, oggi, è la stessa ma assai più diffusa.
Partiamo da chi, per motivi anagrafici, concluderà la carriera con l’eterno rimorso di cosa sarebbe potuto essere se avesse scelto una strada e l’avesse percorsa fino in fondo. Luis León Sánchez, trentacinque anni, non si è fatto mancare nulla: uomo da grandi e brevi corse a tappe, abile cronoman, strenuo fugaiolo e cliente scomodo nelle classiche. Il suo ruolino di marcia è emblematico: Parigi-Nizza, una top ten al Tour de France e alla Vuelta ma anche due edizioni della San Sebastián, quattro volte campione spagnolo nelle prove contro il tempo, successi di tappa sparsi in tutto il mondo, la maglia di miglior scalatore alla Vuelta 2014 e la medaglia d’oro ai Giochi Europei di Baku 2015.
Edvald Boasson Hagen, invece, di anni ne compirà trentadue a maggio: ma il suo caso non è certo meno interessante. Affermatosi fin dal debutto, la sua carriera è scivolata via senza capire che corridore sia effettivamente stato: se velocista, uomo da classiche o da pavé. Lui, nel dubbio, ha mescolato un po’ di tutto: una Gand-Wevelgem, tappe al Giro e al Tour, diverse semiclassiche e brillanti prestazioni nelle brevi corse a tappe più prestigiose del circuito. Alcuni piazzamenti mondiali (ottavo nel 2011, secondo nel 2012, terzo nel 2016) e nelle classiche (decimo alla Sanremo 2015, quinto alla Roubaix 2016) lasciano l’amaro in bocca.
Dello stesso gruppetto non può non far parte Rigoberto Urán: da ormai un decennio lo si attende sul gradino più alto di un grande giro o di una classica monumento e invece il colombiano non ha ancora trovato la giornata (o il mese) giusta. Nel mezzo, podi e piazzamenti a Giro, Tour, Vuelta, Liegi, Lombardia e Olimpiadi. Le primavere sono ormai trentadue, il tempo della scelta sembra irrimediabilmente perduto.
Un altro drappello, formato stavolta da corridori nel pieno dei loro anni, si trova esattamente davanti al bivio. Da che parte andare? Colbrelli vuole una Monumento (speriamo pensi al Lombardia, rischioso invece il Fiandre) ma rischia di snaturarsi e di perdere quello spunto veloce che potrebbe consentirgli di centrare traguardi parziali ma importanti; stesso discorso per Kwiatkowski, atleta eccezionale che ha già battezzato le corse di un giorno strizzando però l’occhio ai grandi giri per la seconda parte della sua carriera: tentare l’assalto ad una Liegi o ad un Lombardia sarebbe, forse, più congeniale.
Gallopin continua a cambiare pelle a stagioni alterne senza riuscire a trovare quella più adatta, Jon Izagirre e Adam Yates faticano altrettanto ma perlomeno si tolgono lo sfizio saltuario di centrare un’affermazione o di cogliere un bel piazzamento: il primo è stato protagonista di un finale di stagione che lo ha visto piazzarsi alla Vuelta (nono), a Innsbruck (undicesimo) e al Lombardia (sesto), che aggiunti al quinto posto centrato alla Liegi 2017 fanno un bella matassa di dubbi da sciogliere; il britannico, dal canto suo, non sa se fidarsi della vittoria ottenuta alla San Sebastián 2015 o del quarto posto al Tour de France 2016. Decidersi in fretta, dunque: il tempo, i chilometri e le occasioni scorrono impietosi.
In mezzo a tutta questa frenesia, c’è anche chi può permettersi di tentare l’avventura e rimandare la scelta di qualche anno: Moscon, Benoot, senza dimenticare Alaphilippe e l’altro Yates, Simon. Due talenti del genere non resisteranno facilmente alla tentazione di provarsi seriamente anche su territori limitrofi al loro abituale: il francese, prima o poi, si presenterà almeno sulla carta da capitano per una grande corsa a tappe mentre il britannico, al contrario, vorrà mettere alla prova progressione e stoccata tra i saliscendi di Sanremo, Liegi e Lombardia. Vedremo se il futuro ci regalerà scenari simili e soprattutto valuteremo con attenzione le scelte di questi due fuoriclasse.
I due indecisi per eccellenza di questo momento storico, però, non sono stati ancora evocati: Romain Bardet e Dan Martin. L’irlandese ha già due Monumento nel carniere e sogna il podio del Tour de France: ma senza questa ingombrante ambizione quante altre edizioni di Liegi e Lombardia avrebbe potuto centrare? Considerando i piazzamenti registrati, almeno un’altra di ognuna delle due.
Il francese è il corridore dal quale ci si aspetta una risposta in tempi brevi. Un inizio di carriera votato alla conquista del Tour de France potrebbe essere stato minato da una leggera flessione nelle ultime due edizioni della Boucle (terzo nel 2017 con appena un secondo di vantaggio sul quarto, Landa, e sesto lo scorso anno) e da un 2018 estremamente prolifico nelle corse di un giorno: nono alla Freccia Vallone, sesto al Giro dell’Emilia, terzo alla Liegi, secondo al Giro della Toscana, alla Strade Bianche e al mondiale. Sarebbe un peccato ripetere, duole ricordarlo, l’errore che a suo tempo fece Damiano Cunego: se alcune sue scelte fossero state più nette, oggi avrebbe un paio di grandi giri o di Monumento in più.
Il ciclismo globale di una volta sembra, purtroppo, irripetibile. Forse è giusto così: la storia acquista valore perché unica, il presente si rivela interessante grazie al suo essere nuovo. Corridori come Sagan, Van Avermaet, Valverde o Nibali, da questo punto di vista, vanno lasciati fuori perché rischiano di falsare il rapporto dei valori in campo: sono esemplari rari e la tendenza è un’altra, non è la loro. Oggi, piaccia o meno, conviene scegliere alla svelta: rimanere a metà tra due strade, altrimenti, equivale a perdersi.
Foto in evidenza: ©Georges Ménager