Sembrava la fine per Johan Museeuw, invece fu solo un passaggio chiave.
Johan Museeuw pedalava come un forsennato perché nessuno gli aveva mai insegnato a fare diversamente. Quando sentiva odore di pietre il suo istinto lo trasformava in cacciatore e in poco tempo le corse del nord divennero le sue prede. Veniva dalle Fiandre, e gli fu affibbiato il nomignolo de “l’ultimo dei fiamminghi“. Un giorno però, proprio sulle pietre, la sua storia in bicicletta arrivò a tanto così da una brusca fine.
Foresta di Arenberg, 12 aprile 1998. Il gruppo è lanciato ventre a terra spingendo sulle biciclette come un enorme formicaio che ha trovato il modo di procacciarsi cibo. Il cielo è tetro e la pioggia sta provando a dare un minimo di tregua. La nebbia puzza di zolfo e riempie i polmoni di corridori e spettatori, mentre camper e auto sono macchie ingrigite di lamiera che affollano l’entrata del sentiero delle betulle.
Devi avere coraggio, devi avere fiducia, non devi conoscere il timore, si ripetono come un canto di guerra i corridori poco prima di imboccare la Foresta. C’arrivano a tutta, lungo serpentone dai denti spuntati e dalla coda agitata. I sassi di Arenberg sono scivolosi come se sopra si fosse ribaltata una betoniera di letame, il fango ricopre ogni pietra e minuscoli atleti in bicicletta, in confronto alla vastità del male di questo luogo, si affidano alle proprie abilità e si raccomandano al destino.
Johan Museeuw quel giorno arriva d’inerzia dentro la sua maglia Mapei-Bricobì, forte del successo sette giorni prima al Giro delle Fiandre. È favorito assoluto, è padrone di queste corse, è cittadino onorario di un paese chiamato pavelandia e che per qualche settimana all’anno è al centro della geopolitica mondiale. I cavalieri, appena imboccata la foresta sulle loro piccole carcasse di alluminio, sembrano inghiottiti dentro un tunnel. Sullo sfondo si lasciano vecchie miniere di carbone e il silenzio assordante all’improvviso diventa un frastuono ovattato.
Tranchée d’Arenberg: perché la sua tristezza ricorda i condotti tagliati dalle trincee durante la prima guerra mondiale; la strada è in leggera discesa e i corridori si infilano a cinquanta all’ora come pattuglie al macello, i primi passano indenni, non ci sono transenne e qualcuno, imbizzarrito, salta da una parte all’altra della carreggiata dribblando i tifosi a bordo pista per cercare l’accoglienza del sentiero in erba. Alcuni ombrelli sono aperti, gocciola, il manto ora è una fanghiglia ricoperta di detriti e liquame pronti ad avvelenare chiunque finisca a terra.
Qualcuno cade e si rialza, qualcun altro invece no, è ferito, la gente attorno a lui urla, i suoi colleghi lo evitano accuratamente, altri sembrano maldestri trapezisti. C’è chi fa foto, un fiotto di sangue si mescola alla merda, alcune macchine si fermano, c’è una calca di gente attorno al corridore. Lo si riconosce subito, è Johan Museeuw. L’istinto gli dice di alzarsi, l’adrenalina lo fa scattare in piedi, ma l’immagine del suo ginocchio frantumato lo ricaccia a terra. Vicino a lui il dottore Porte presta i primi soccorsi, pulisce la ferita osservando l’osso ben visibile che ha lacerato la pelle e lo manda in ospedale con una diagnosi ben chiara: frattura scomposta della rotula sinistra.
Il suo, come lo definisce la Gazzetta all’epoca, è un peregrinare da un ospedale all’altro: prima Kortrijk e poi Ostendee, fino a quello di Gand. La gamba viene ingessata, ma è un errore. Si infetta e va in cancrena a causa dell’impatto con della cacca di cavallo e i dottori pensano persino di amputare la gamba. Museeuw si ammala per colpa di un batterio (il clostridium) e come riportato da la-croix.com inizia a soffrire di rabdomiolisi, un male che a volte può colpire anche i sopravvissuti a un terremoto o chi abusa di metanfetamine. Perde otto chili e a causa del dolore si somministra regolarmente morfina.
Il suo mondo era finito, la sua carriera spezzata, ma l’ostinazione ebbe la meglio. Tre mesi dopo è di nuovo in bicicletta: “Pensavo di non poter più tornare a essere un corridore e quando salii di nuovo su una bicicletta lo feci con tutta calma: fu il giorno più bello della mia vita“. Ancora meglio di quando dodici mesi dopo è terzo al Fiandre e nono alla Roubaix, ma mai come l’anno ancora successivo quando insieme alla sua Mapei domina di nuovo le strade della classica francese, sfrutta il gioco di squadra e chiude in solitaria davanti a tutti nel velodromo, staccando il piede dal pedale e sventolando fiero il ginocchio sinistro che solo due anni prima si era sbriciolato. Quel giorno a finire in ospedale fu il suo team manager Patrick Lefevere, svenuto per la gioia.
Foto in evidenza: ©Matheus Katharus, Wikipedia