Un corridore che ricerca costantemente lo spettacolo merita tutta la nostra attenzione.
La lingua che ci appartiene, e alla quale inevitabilmente apparteniamo, svolge un ruolo fondamentale nelle nostre esistenze. Rimarca la provenienza, sottolinea le peculiarità, suggerisce le intenzioni, indica la strada. Può favorire lo scambio e il confronto ma anche dare adito al fraintendimento. Accomuna e differenzia, arricchisce e divide. Pensare in una data lingua, e non in un’altra, porta a conclusioni estremamente diverse. Pierre Rolland, ad esempio, è passato dalla viscerale necessità del francese all’obbligo dell’inglese: il suo codice è stato vittima di un cortocircuito.
La prima intervista rilasciata interamente in inglese risale al Tour de France del 2016, la stagione più anonima della sua carriera. E per un ciclista come Pierre Rolland, perdersi nell’anonimato è uno smacco insopportabile. Passi la sconfitta, fa parte del gioco, d’altronde ogni atleta si presta a questa folle legge dello sport secondo la quale si perde quasi sempre per vincere una volta ogni tanto. Ma passare da vigliacchi e da deboli: questo non può esistere. L’intervista andò benino. “Finché si parla di ciclismo”, spiegò Rolland, “me la cavo. Se dovessi parlare di letteratura sarebbe un problema. Ho dovuto imparare l’inglese perché la Cannondale è una squadra americana. Dopo una vita passata in ambienti francesi, chissà che questo cambiamento non mi faccia bene”.
L’indole è rimasta quella di sempre, fiera e battagliera, un vero uomo si adatta alle circostanze ma non è disposto a barattare la sua identità. L’unico acuto degno di nota, però, rimane la vittoria di tappa al Giro d’Italia 2017, a Canazei. Qualche settimana fa, l’ufficialità che non dovrebbe aver stupito i più attenti: Pierre Rolland ha firmato con la Vital Concept. Diciassette francesi su ventidue atleti in organico, Rolland ritroverà anche Cyril Gautier, fedele amico: alle vacanze che programmano sempre insieme, d’ora in poi per qualche stagione si aggiungeranno anche gli allenamenti. Quel che non ha fatto il ciclismo, lo ha fatto l’amicizia. Rolland, per spiegare questo apparente salto all’indietro, ha usato parole come gruppo, compagnia, rapporto, risate. “Il ciclismo è uno sport durissimo. Per questo, è essenziale praticarlo circondati dalle persone che amiamo”.
L’inglese, nel ciclismo, è la lingua dell’ordine, dei numeri, della vittoria che arriva come sublimazione dell’organizzazione. Pierre Rolland è francese: ha il gusto dell’epica, dà valore in egual misura all’impresa e al crollo, è convinto che la chanson de geste sia stata inventata per narrare le sue peripezie. Il miglior Rolland è quello giovane e sfrontato, promettente e indomabile che vinceva sull’Alpe d’Huez con la maglia della Europcar. Quel giorno, c’era ancora Voeckler in giallo: fu l’ultimo. Rolland lo aspettò e vegliò come un figlio col padre malato, finché il vecchio gli disse: non stare qui a marcire per me, vai e vinci. Rolland, gasato dalla possibilità e dalla responsabilità, eseguì. Respinse Schleck ed Evans, rimase con Samuel Sánchez, alla fine staccò lui e Contador. “Non ho mai pensato di perdere”, chiarì Rolland a gloria smaltita. “Non ho mica abbandonato Voeckler per arrivare secondo o terzo”.
Pierre Rolland è l’esperanto del ciclismo. Il suo è un linguaggio universale creato a tavolino per arrivare alle corde di tutti. E’ fatto di attese disilluse e roboanti trionfi. Nel suo vocabolario, arrendevolezza è sinonimo di sconfitta. Carismatico e infuocato, lancia invettive pesanti. Afferma che fare classifica non fa per lui, ci vuole troppa attenzione, e lui è un bandito, mica una guardia; e il ciclismo, continua, è talmente duro che se annulli la possibilità di divertirti e inventare, allora cosa rimane?; la classifica finale del Tour de France, non riesce proprio a chetarsi, si potrebbe stilare alla partenza: basta controllare i dati relativi alla potenza espressa, la corsa non dovrebbe discostarsi poi molto da questa previsione. In Francia, poiché il nazionalismo è da condannare mentre il patriottismo da insegnare, lo hanno soprannominato Pierrot. Maschera nata in Italia, una volta adottata dai francesi perse furbizia e malignità per vestire i panni del mimo malinconico innamorato della Luna: la prossima fuga che Pierre Rolland cercherà di portare via dal gruppo sembra porti lassù.
Foto in evidenza: ©Georges Ménager, Flickr