Io, Matteo Montaguti, ho deciso di ritirarmi

Tornassi indietro forse cambierei qualcosa ma è stata davvero una bella avventura.

 

 

Non è un caso che il Gran Premio Bruno Beghelli sia stata la mia ultima corsa da ciclista professionista: adesso provo a spiegarvi perché. Prima di tutto, perché è una delle ultime prove stagionali del calendario italiano e si corre dalle mie parti – da Forlì, dove abito, a Monteveglio, dove si è corso, saranno cento chilometri. Secondo, e questo è un po’ meno banale, perché non ci sono più le condizioni per andare avanti: il ciclismo è una giungla, visto e vissuto da dentro è ancora più complicato di come può apparire da fuori, e riconfermarsi ogni stagione mi pesa sempre di più.

A gennaio compirò trentasei anni, le mie dodici stagioni le ho fatte, interpretandole sempre col solito piglio fiero e battagliero di chi ha provato a vincere ogniqualvolta ne ha avuto la possibilità, pronto a sacrificarsi invece per un capitano se questo era presente e tirato a lucido. Non smetto a cuor leggero, il ciclismo è stato – e spero rimarrà, vedremo in che modo – il mio mondo negli ultimi trent’anni, praticamente per quasi tutta la mia vita; fisicamente sto bene, è il morale che recentemente ha iniziato a scarseggiare: tuttora mi capita di domandarmi se ho fatto abbastanza, se davvero ho dato sempre il massimo come mi imponevo, se Matteo è sempre stato felice e se ha sempre saputo voler bene come diceva al gregario Montaguti che è in lui.

Al netto di pregi e difetti, di sviste ed errori di valutazione, mi pare di non avere rimpianti. Qualche dispiacere invece sì: non ho saputo lasciare il segno nel World Tour e non ne intuisco i motivi, qualche volta mi sono trovato tagliato fuori senza una spiegazione né un confronto. Ormai è acqua passata, e se ancora non è passata passerà: di sputare nel piatto in cui ho mangiato per tanto tempo non mi va proprio. Mi restano comunque quindici classiche monumento, quattordici grandi giri, un paio di vittorie dal valore inestimabile; e poi i complimenti dei direttori sportivi, la fiducia dei capitani, la stima di colleghi e compagni di squadra.

Terzo motivo, ma non per questo meno importante degli altri, è il giorno: il Beghelli si è corso di domenica – ve ne sarete accorti, non devo certo dirvelo io. È proprio di domenica, però, che corsi la mia prima gara in assoluto: avevo sei anni, mio nonno mi teneva la sella, all’epoca credevo che si potesse campare di sole domeniche e di sole corse. Sono sempre quel Matteo: un po’ più grande e maturo, sicuramente più disincantato e meno sognatore – se mi fossi preso meno sul serio, se invece di dirmi “è un lavoro” mi fossi detto qualche volta di più “vai e divertiti”.

A chi c’era allora e c’è ancora oggi, a chi c’era allora e oggi non c’è più, a chi allora non c’era ma c’è oggi e tanto basta: a loro è rivolto questo messaggio, a loro e a nessun’altro, e se lo pubblico qui è perché oggi la comunicazione funziona così, mica perché mi interessa un po’ di compassione. Ho riflettuto a lungo sull’impronta che lascio: tutt’altro che indelebile, ma sicuramente umile e umana, tutto sommato buona, fatta di quei valori che mi sono stati trasmessi quand’ero giovane, perché io ho imparato tutto da ragazzo – il professionismo mi ha insegnato altro, tanto di positivo quanto di negativo. Vent’anni fa come adesso, se dovessi scegliere una foto in grado di riassumere chi sono ne sceglierei una di quelle in cui mi si vede a bocca spalancata e denti serrati; una di quelle in cui faccio una fatica terribile, anche se guardandola di sfuggita sembra quasi che stia ridendo.

 

 

Foto in evidenza: ©Roberto Bettini, per gentile concessione di Matteo Montaguti