Lavare via l’Inferno: le docce della Roubaix

Hanno detto che inizia come una festa, ma finisce in un incubo.

 

 

È appena finita la corsa, quella corsa, che il solo nome apre infinite immagini di polvere, grida, rivoli di sangue nero. Senza scomodare i tempi dell’epica, ancora oggi finirla per molti è un miraggio. Solo finirla, la Roubaix… sì, senza bisogno di nominare la partenza, poiché tutti partono ma è lungo una linea folle tracciata verso la Piccardia che i corridori vanno perduti uno ad uno per una sadica eliminazione; e solo pochi arrivano.

Qualcuno ha detto che inizia come una festa ma finisce in un incubo. Un anno fa. Philippe Gilbert è stremato e si appoggia, occhi chiusi, al cubicolo di marmo di uno squallido edificio novecentesco: le docce del velodromo.
Fa parte della gara. È tradizione, quindi è importante essere qui, almeno per me”. Il belga ricorda come la prima volta che corse la Regina delle Classiche, era il 2007, non ebbe scelta. “Marc Madiot non ci fece andare al pullman, ci fece venire tutti qui a lavarci. E ci sono tornato anche oggi, perché sento che fa parte della storia”.

Al freddo, stretti i corridori gli uni agli altri, senza privacy. Eppure questi ambienti simili ad angusti cunicoli, per qualche corridore sono ancora un qualcosa di fondamentale. Finire qui è un pellegrinaggio, un capitolo conclusivo dopo la fine vera dentro al velodromo, un rito comune. Anche oggi, quando gli autobus sono provvisti da anni di ogni comfort; o forse proprio per questo. Perché la Roubaix è un dramma e un’eccezione in tutto. E va espiata fino in fondo.

Ho una targa lì dentro”, dice Hayman, l’australiano vincitore della Roubaix nel 2016. “Vorrei portarci alcuni dei miei compagni più giovani. Stamani erano tutti entusiasti, ma nelle ultime sei ore sono accadute molte cose e potrebbero essere andati al bus della squadra”.

Ai tempi dei pionieri si mangiava nelle mense popolari, dormendo nelle case della scuola, la doccia era di per sé un lusso. Ancora oggi l’edificio è tozzo, disadorno, con l’intonaco sciupato, rimasto tale e quale a quando fu costruito, quasi un secolo fa.

Almeno una volta nella tua carriera, dovresti fare una doccia a Roubaix”, dice il direttore sportivo della Sky Servais Knaven, che trionfò nel 2001. “Sei lì con tutti gli altri corridori. Tutti sono stanchi e tutti hanno la loro storia da raccontare. È qualcosa di speciale. Il mio nome è lì dentro e l’ho visto un paio di volte. Sai che è dove i ragazzi come Merckx venivano, proprio di fronte a te. Ti dà una connessione con la storia di questo sport“.

©Luca Pedroni, Flickr

Dunque una purificazione, un battesimo, un luogo dove narrare le proprie disavventure agli altri che come te hanno vissuto un giorno maledetto.

Non è il posto migliore dove fare una doccia, a essere onesti“. Racconta Hammond, direttore della Dimension Data: “Fa freddo, ma è questo il bello. È tetro, ma è un bel modo per finire una gara triste. Perché dovresti avere un bel posto, comodo, in un box per fare una doccia dopo 260 chilometri di inferno?”.

Quell’inferno che molti si sentono di aver appena domato, camminando adesso sulle orme della storia, come se per un attimo, mentre perfino l’acqua fa male sulle ossa rotte si udisse il sibilo delle ruote, gli attacchi di Sean Kelly e le trenate di Cancellara. Gli assoli di Moser, il pianto di Ballerini appena bruciato da Duclos-Lassalle e i trionfi di Van Loy.

Avere un nome su di una targa in una piccola doccia. Un nome in un’insignificante targa lucente fra blocchi di marmo.
Le docce comuni del Novecento, che richiamano alla memoria i momenti bui della Storia umana, quando andarvi poteva significare la morte, ecco che per uno degli infiniti prestigi di questo sport qui hanno valenza opposta, vitale, risorgiva.

I corridori guardano la polvere, il sangue aggrumato dopo aver sbandato sul selciato scheletrico di Mons-en-Pévèle. Ricordano d’essere stati inghiottiti ad Arenberg, nella foresta bordata d’alberi e vecchie miniere appena uscite da un passo di Tolkien. Poi le nubi di polvere e i rapporti infiniti da tirare al Carrefour de l’Arbre.

Adesso è tutto finito, qualcuno si asciuga assieme ai compagni scheletriti e riprende i propri sogni, stavolta ad occhi aperti.
Non si riesce a far smettere di tremare le mani, ma non importa perché quel luccichio abbaglia, quei nomi sulle targhe delle docce stanno lì, nelle catacombe di un luogo sacro a significare che qualcuno come loro un giorno ha vinto la corsa delle corse. Ha vinto la Parigi-Roubaix.

 

 

Foto in evidenza: ©ciclistilombardianonimi.blogspot.com