Willunga Hill è la festa del ciclismo australiano: la stagione può cominciare.
Scrivere di ciclismo non è sempre stimolante. Può essere ripetitivo nonostante lo spazio nel quale si svolge invita al rinnovamento e alla creatività. Il problema è che scrivere di ciclismo è facile, son buoni tutti a far dire ad un corridore che la tappa è difficile ma lui ci proverà, che l’avversario merita rispetto ma vedi mai una caduta o una giornata storta; e poi c’è la strada che è come la vita, l’asprezza della salita seguita dall’incoscienza della discesa – come nella vita, ancora – che il trucco per rimanere in equilibrio e andare avanti è pedalare – guarda caso come nella vita, maledetta.
Le metafore abbondano e gli avverbi reclamano il loro spazio. Nel bene o nel male, originale o retorica che sia, la fantasia gioca nel ciclismo un ruolo fondamentale. Cosa sia il ciclismo è una domanda piuttosto vaga e soggettiva ma tutto sommato leggera. Cosa sia la fantasia, invece, è questione ben più difficile. Le uniche parole che mi vengono in mente sono quelle che usò Calvino nelle “Lezioni Americane”: la fantasia è un posto dove ci piove dentro.
E quindi, mescolando similitudini, sensazioni e bisogno di riempire la pagina in qualche modo, Old Willunga Hill diventa lo Stelvio o l’Alpe d’Huez. Mentre invece, se fosse in Europa, tornerebbe buona per movimentare un finale altrimenti scialbo, un trampolino con vista sul traguardo per corridori come Alaphilippe o Ulissi – che infatti al Down Under corre sempre da protagonista.

Menomale che piove dentro la fantasia perché a giudicare dal colpo d’occhio su Willunga Hill deve piovere poco. Ci sono anche gli alberi, certo, ma a bordo strada la terra è abbrustolita, fatta apposta per sterpaglie ed erbacce. Il caldo e il vento la rendono una salita estiva, per rinfrescarsi serve un bicchiere di vino e trovarlo nella vicina McLaren Vale non dovrebbe essere un problema, dato che la sua celebrità deriva proprio da quello, dal vino: fresco e frizzante, possibilmente, altrimenti uno più consistente e pastoso finirebbe soltanto per accentuare la sensazione di ingolfamento delle vie aeree.
Data la stagione e l’atteggiamento del pubblico, uno poco avvezzo alle corse ciclistiche potrebbe pensare al Tour de France: niente di più diverso, per tempistiche, prestigio e geografia. Siamo in Australia, una delle terre promesse del ventunesimo secolo. L’integerrima e mite Australia, dove entra e rimane a galla soltanto chi lo merita e con quel sole che a star dietro ai telegiornali sembra il più accogliente del mondo – falso, ovviamente: ci fa questa impressione perché da loro è estate quando da noi è inverno. Chissà se l’asfalto ribolle anche nella civile Australia e se quando passa una corsa come il Down Under qualche cartaccia in terra ci finisce: la leggenda racconta che no, non è mai successo.
Non che ce l’abbia con l’Australia, s’intende, mai stato e ad ora non mi interessa nemmeno. Posso avercela, magari, con chi racconta questi pezzi di mondo in unico modo, mettendo in risalto soltanto alcuni aspetti – sempre gli stessi, peraltro. E queste città tutte interscambiabili tra loro, metropoli o megalopoli fa poca differenza, il termine suona male e l’idea di fondo che gli dà un senso è terribile.

Old Willunga Hill, ecco di cosa stavo parlando. In Australia, da qualche parte, vicino o lontano da questi centri sempre più moderni e all’avanguardia e pieni di bisogni che esistono soltanto nel mondo malato di oggi, c’è Old Willunga Hill: poco più di duecento metri di dislivello, tre chilometri di lunghezza e un pendenza media del 7,4%. Il gruppo la prende come se fosse una volata di centocinquanta metri, otto minuti scarsi col rapporto lungo e vince chi sa resistere il più a lungo con l’acido lattico che avvelena e atrofizza le gambe, il cervello e le ambizioni. Distacchi non se ne creano, cosa vuoi che siano tremila metri di salita con le strade, i rapporti e la preparazione d’oggi.
Però non è nemmeno una scampagnata, i tratti duri ci sono e per quanto breve non si arriva mai al traguardo. Phil Liggett, storica voce del ciclismo raccontato, c’era anche nel 2016, quando il Down Under tornò a far visita a questo santuario pagano. Quando Porte stroncò la resistenza di Henao, il testa a testa tra i due era sembrato durare parecchio: e invece lo striscione d’arrivo non si vedeva ancora. Sinceramente coinvolto, Liggett si chiese retoricamente: “Quanto è lungo un chilometro su Old Willunga Hill?”.
Il Tour Down Under nasce nel 1999 e Willunga Hill c’è sempre stata, è lì ferma dal giorno zero ad aspettare che la sua spina dorsale si riempia di amatori e tifosi in bermuda e ciabatte. La prima edizione la vinse O’Grady, un altro ciclismo e un altro millennio. Armstrong e questa gobba lunga tre chilometri non hanno niente in comune ma quando scelse il Down Under per tornare ufficialmente alle corse nel 2009 l’organizzazione si sfregò la mani: i tifosi a bordo strada raddoppiarono, la corsa generò un ritorno economico mai visto nelle zone toccate mentre la copertura televisiva fu pressoché totale. Erano ancora gli anni in cui Armstrong non aveva niente da invidiare a Re Mida. Secondo Wikipedia, a voler essere pignoli, Willunga – paese, non salita – sarebbe il luogo in cui nel 1907 venne stampato un bollettino medico con intenti promozionali a favore del dottor Sheldon: evidentemente deve aver avuto successo, dato che se ne parla ancora oggi. Meglio andare oltre, comunque: mettere nella stessa frase Armstrong, un dottore e il ciclismo è deontologicamente sconsigliato.

Willunga Hill, dicevo, non è sempre stata punto d’arrivo: per lungo tempo è stata punto di sparo, piuttosto. Contador e Luis León Sánchez, ad esempio, vinsero da finisseur. Il secondo nel 2010, sfruttando il lavoro di un compagno di squadra come Valverde che si rivelò decisivo pur rimanendo fermo, dato che con lui rimasero al palo anche Evans e un giovanissimo Sagan. Contador, invece, vinse nel 2005: non lo aspettava nessuno, d’altronde nemmeno un anno prima un aneurisma rischiò di spedirlo al padreterno. Quella nata sulle rampe di Old Willunga Hill l’ha sempre definita “la vittoria più importante della carriera”.
Poi, da quando nel 2012 questa protuberanza è diventata sede d’arrivo, la corsa è mutata: fino a quel momento appannaggio delle ruote veloci, da lì in poi è diventata una questione tra classicisti e motori da corse a tappe. Il nuovo destino di Willunga Hill venne battezzato da Valverde, il cui graffio non può certo mancare in cima ad un poggio. Poi fu il turno di Gerrans, quattro volte vincitore del Down Under, il Merckx dell’emisfero australe. Poi, dal 2014, detta legge Richie Porte: cinque trionfi consecutivi, non ci sono né caldo torrido né vento forte che tengano, se un tifoso gli allungasse un calice di vino della McLaren Vale potrebbe assaggiarlo e godersi il panorama.
Willunga Hill non è né lo Stelvio né l’Alpe d’Huez, e ci mancherebbe. Però essendo ad inizio stagione – quindi in tempi di magra – bisogna prendere quel che passa il convento. È un rituale straniero, che ha poco di spettacolare e nulla di tradizionale. Ma è, allo stesso tempo, la grande festa del ciclismo australiano e il primo appuntamento stagionale degno d’attenzione. Quest’anno ancora di più, dato che per la prima volta a Willunga Hill si chiuderà il Down Under. È un’escursione, un’immersione nella natura, un’esperienza che riattiva le pulsioni: forse, con un po’ di fantasia, si può immaginare il resto della stagione. Che è lunga, imprevedibile e forse travagliata: ma perlomeno è iniziata, finalmente.
Foto in evidenza: ©Santos Tour Down Under, Twitter