Peter Kennaugh si è ritirato a trent’anni scarsi, sollevando una questione interessante.
Il 5 aprile 2019 – tra Gent-Wevelgem e Giro delle Fiandre, cinque giorni dopo la vittoria di Kristoff e due giorni prima dell’assolo di Bettiol – una notizia si distingueva dalle altre, nel flusso di risultati e pareri e pronostici ciclistici. “Peter Kennaugh si ritira dal ciclismo professionistico”, scriveva la stampa specializzata.
Avremmo potuto dire che una notizia “aveva squarciato l’atmosfera tesa ed elettrizzante delle classiche”, ma così non è stato, purtroppo: l’annuncio di Kennaugh e della BORA-hansgrohe non è passato inosservato, ma non ha goduto dell’attenzione che avrebbe meritato e che avrebbe sicuramente avuto in un altro momento della stagione. Un’occasione di riflettere sulle luci e sulle ombre del ciclismo contemporaneo si è persa nella polvere alzata da Gilbert, da Sagan, da van der Poel, da van Aert, da Van Avermaet: fuoriclasse che reggono l’urto, che sanno cadere e rialzarsi, che danno l’impressione di non aver mai un dubbio.
Kennaugh e la sua squadra si sono separati e salutati senza strascichi. La BORA-hansgrohe non ha potuto far altro che prenderne atto, augurando a Kennaugh il meglio per il suo futuro. Kennaugh, invece, ha fornito qualche spiegazione in più, puntualizzando che doveva pensare anche al benessere della propria famiglia e che, dopo una vita passata a pedalare e a fare fatica, la sua mente e il suo corpo non volevano più saperne. “Devo concentrarmi sulla persona che voglio essere e che sarò domani; voglio riscoprire la felicità, l’entusiasmo e la motivazione che hanno sempre animato la mia quotidianità e che ultimamente avevo smarrito”, ha scritto prima dei ringraziamenti di rito.
Quella che in un primo momento sembrava una pausa, dopo le parole di Kennaugh si è rivelata quello che forse aveva voluto essere fin da subito: una dichiarazione d’intenti, e l’intento di Kennaugh era quello di ritirarsi dal ciclismo professionistico.
Un lavoro che mi piace
Nato sull’Isola di Man nel 1989, Peter Kennaugh voleva diventare un ciclista professionista sin da bambino. Avrà avuto sette o otto anni, quando cominciò a prendere confidenza con un mondo che gli avrebbe dato tanto quanto gli avrebbe tolto. Prima di affermarsi anche su strada, Kennaugh raccolse i migliori risultati della sua adolescenza su pista: d’altronde, quello era il leitmotiv del movimento ciclistico britannico, almeno fino a quindici anni fa. Molti compagni di squadra diventarono suoi amici e avrebbero avuto una carriera quantomeno dignitosa: si chiamavano Cavendish, Swift, Rowe, Blythe, Clancy, Burke, Thomas.
Se l’evoluzione del ciclismo britannico è stata così rapida e brillante, l’amicizia che legava gli atleti fin dall’adolescenza ha giocato un ruolo fondamentale. In passato, sbagliando, è stato fatto passare il concetto che l’atleta britannico fosse un automa privo di personalità, un mero componente di un ingranaggio – a meno che non si chiamasse Cavendish o Wiggins, ovviamente. Nemmeno la filosofia del Team Sky, pur avvicinandosi molto a quanto detto, può essere derubricata così.
Kennaugh approdò al professionismo nel 2010, l’anno in cui diventò operativo il Team Sky, e non mancò di sottolineare questo aspetto: «Senza dubbio è un ambiente diverso rispetto all’Accademia del ciclismo britannico riservata agli Under 23», specificò in un’intervista concessa al sito della Federciclismo inglese. «Fino a qualche settimana fa vivevo ventiquattr’ore su ventiquattro con alcuni coetanei che conosco da una vita; dei fratelli, in sostanza, coi quali parlavamo e facevamo di tutto. Da ora in poi, invece, si tratta di venire a lavoro: un lavoro che mi piace, certo, ma pur sempre un lavoro».
È importante specificare questo aspetto: Peter Kennaugh ha amato il ciclismo e il suo sogno, fin dall’infanzia, era quello di diventare un ciclista professionista. Quando un corridore decide di ritirarsi a trent’anni dopo aver attraversato un periodo turbolento, è facile saltare alle conclusioni: non valeva il professionismo, non era il suo mondo, non si sentiva coinvolto. Niente di tutto questo.
Nessuno lo ha forzato e il ciclismo non è mai stato né un ripiego, né tantomeno un destino obbligato. «Quando ho avuto la certezza di far parte del Team Sky, ero al settimo cielo», ricordava ancora nell’intervista concessa al sito della Federciclismo inglese. «Dicevo a me stesso che stavo vivendo quello che avevo sempre desiderato vivere. Alcuni miei compagni di squadra, per me, erano soltanto dei poster attaccati alle pareti della mia camera».
Tuttavia, non si può dire che Peter Kennaugh fosse un ciclista convenzionale. «Tra Olimpiadi e Tour de France non ho nessun dubbio: scelgo il Tour de France», diceva a RIDE Media nel 2015. «È la corsa che seguivo da bambino, quella che mi ha emozionato di più. Per me, soltanto pedalare sulle strade del Tour de France vale una medaglia olimpica. Probabilmente noi ciclisti viviamo diversamente l’appuntamento olimpico, rispetto ad altri sportivi, ma io non ho dubbi. Alle Olimpiadi di Londra, per fare un esempio, io non partecipai né alla cerimonia di apertura né a quella di chiusura». E doveva essere singolare vederlo spiegare la pronuncia esatta del suo cognome ai giornalisti che lo intervistavano nei ritiri: «Suona così: Ken-yick. Ma voi chiamatemi come volete, ormai mi sono arreso».
Se in allenamento si è soli e in corsa ci sono altre questioni da affrontare, è in ritiro che un corridore può misurare la distanza che lo separa dai suoi compagni di squadra. Peter Kennaugh non si è mai nascosto dietro a un dito: si presentava alle prime corse dell’anno con qualche chilo di troppo, a casa sacrificava qualche ripetuta per rilassarsi con la ragazza e gli amici, concedendosi anche un drink e un dessert di tanto in tanto.
«A mancarmi è la costanza», avrebbe ammesso qualche anno più tardi. «Sono in grado di allenarmi tantissimo per centrare un risultato, per poi lasciarmi andare e perdere la concentrazione una volta che il risultato l’ho centrato». Quando è arrivata l’ufficialità del ritiro, uno dei meno stupiti è stato Owain Doull: «L’annuncio di Pete è una sorta di testamento», disse Doull. «È fatto così: se non è convinto al 100% di quello che fa, non riesce a rendere e non vuole farlo. E non è detto che sia un male».
Pedalando per otto stagioni consecutive nella squadra più scientifica e organizzata della storia del ciclismo, Kennaugh ha potuto osservare attentamente le differenze che lo separavano dai più illustri compagni. «Quello che ho capito è che ognuno di noi è fatto a modo suo e funziona diversamente dagli altri, tanto nella quotidianità quanto in bicicletta», spiegò una volta. «Guardo Froome e Porte e non credo ai miei occhi. Sono dei professionisti eccezionali: lasciano a bocca aperta perfino noi, i loro compagni di squadra. Si allenano tanto e bene, fanno tutto quello che devono fare e sanno resistere alle tentazioni e alle distrazioni. Sono sicuro che se copiassi il loro approccio, renderei la metà di quello che rendo adesso. Io non sono fatto come loro». Forse avrebbe dovuto, considerando quello che il ciclismo britannico si aspettava da lui.
Convivere con le pressioni
Se dovessimo fare un bilancio della carriera di Peter Kennaugh, sarebbe più che positivo. Per i suoi risultati sportivi è stato insignito del MBE, The Most Excellent Order of the British Empire, un riconoscimento che non tocca a tutti. Il suo palmarès, a maggior ragione se parametrato alla storia del ciclismo britannico, è prestigiosissimo. In pista ha vinto praticamente tutto: campionati britannici, europei e mondiali; scratch, inseguimento a squadre e individuale, chilometro da fermo, corsa a punti, keirin, americana; anche un paio di Sei Giorni riservate agli Under 23. Alle Olimpiadi di Londra arrivò la vittoria più importante: la medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre.
Kennaugh, a differenza di tanti altri ciclisti britannici, ha brillato anche su strada già in giovane età. È stato campione britannico per tre anni consecutivi, dal 2007 al 2009, prima tra gli juniores e poi tra gli Under 23. Nel 2008 ha vinto il Gran Premio Capodarco, nel 2009 una tappa al Girobio concluso poi al terzo posto della classifica generale.
I primi successi col Team Sky, invece, maturarono soltanto alla quinta stagione, vale a dire nel 2014; ma una volta giunto il primo, Kennaugh non si fermò più. Nel 2014 vinse la prova in linea dei campionati britannici e una tappa e la classifica generale tanto alla Coppi e Bartali quanto al Giro d’Austria. Nel 2015 replicò il successo nei campionati nazionali e conquistò la prima tappa del Delfinato. Nel 2016 si limitò a due successi nella primissima parte della stagione: la Cadel Evans Great Ocean Road Race e la prima tappa dell’Herald Sun Tour. Nel 2017 tornò a vincere al Delfinato, frazione che si concludeva in cima all’Alpe d’Huez dopo quattro chilometri scarsi di salita. L’ultimo successo della carriera arrivò nel 2018 al Gran Prix Pino Cerami, ma allora Kennaugh era già passato alla BORA-hansgrohe.
Nel 2010, Peter Kennaugh era la grande speranza del movimento ciclistico britannico: più di Thomas, altrettanto valido, e molto più di Froome, che rispetto ai due aveva seguito un percorso diverso. Con i suoi trent’anni, Wiggins era il presente, tuttalpiù il futuro prossimo. E anche Froome e Thomas, per quanto più giovani di Wiggins, non erano dei ragazzini: se Kennaugh nel 2010 aveva ventuno anni, Thomas ne aveva ventiquattro e Froome venticinque. Dopo il terzo posto conquistato al Girobio, in molti erano pronti a scommettere che nel giro di un lustro Kennaugh avrebbe avuto la possibilità di giocarsi un grande giro.
Rod Ellingworth, una delle figure più importanti del Team Sky e da quest’anno alla Bahrain-McLaren, stravedeva per Kennaugh e avrebbe scommesso ad occhi chiusi sul suo talento. Nel 2013, per far capire l’aria che tirava, rilasciava dichiarazioni del genere: «Sui percorsi vallonati, Peter è il corridore più forte col quale abbia mai lavorato. Se continua così, avrà ottime chance nella prova in linea delle Olimpiadi di Rio de Janeiro».
Qualcuno potrebbe chiedersi cos’è andato storto; qualcun altro, invece, potrebbe accusare il Team Sky di aver preso una cantonata tremenda. La verità sta nel mezzo e non è difficile da ricostruire. Raccogliere ottimi risultati da adolescente non implica una carriera piena di allori. Forse Kennaugh è stato sopravvalutato; sicuramente, come avete già letto, il piglio col quale ha affrontato il professionismo non è stato irreprensibile: allenarsi poco durante l’inverno significa presentarsi sovrappeso e in ritardo alle prime gare dell’anno, trovare un buon colpo di pedale soltanto in estate, deludere le aspettative del pubblico, della stampa e della squadra; senza dimenticare l’ambizione, la costanza, il bisogno perenne di riscrivere i propri limiti che caratterizza gli sportivi. Kennaugh è stato un ciclista professionista soltanto a sprazzi e un approccio simile, per quanto creativo e talentuoso, non è sufficiente per vincere un Tour de France – nemmeno per sfiorarlo, ad essere sinceri.
Doull e Blythe, che di Kennaugh sono stati compagni in pista o su strada, lo conoscono molto bene ed entrambi convengono su un dato di fatto: essere Peter Kennaugh non dev’essere stato semplice, perlomeno non sempre. Se Wiggins poteva diventare il primo britannico a vincere il Tour de France, Kennaugh sembrava possedere il talento per diventare il primo britannico ad inaugurare un ciclo vincente nelle grandi corse a tappe. «Lamentarsi non è la soluzione. Se la mia carriera è andata così e non in un altro modo, è colpa mia», riconosceva a CyclingTips nel 2018. «Potevo fare meglio, potevo vincere di più. Sento di non aver espresso tutto il mio potenziale». Tuttavia, la pressione era reale. «Era normale che si parlasse di me: da giovane avevo vinto molto, quindi non punto il dito contro il pubblico o i giornalisti. Ma la pressione con cui ho dovuto convivere non me la scordo».
Niente di nuovo, per chi ha un pizzico di memoria. L’Italia è passata dall’erede di Coppi all’erede di Nibali, passando per l’erede di Gimondi e quello di Pantani. Così il Belgio, che sta ancora aspettando il corridore da grandi giri dai tempi di Merckx, e la Francia, che ha visto invecchiare Hinault nell’attesa di un campione in grado di riportare in patria il Tour de France. Una storia scritta col condizionale, adoperando prima toni entusiasti e poi funebri, promesse strappate e accartocciate con la rabbia cieca di un bambino capriccioso e ferito. Di Peter Kennaugh ne è pieno il ciclismo e lo sport in generale.
Nessuno ha capito davvero che corridore potesse diventare Kennaugh: non soltanto se il suo ruolo fosse quello del gregario, dell’outsider o del capitano, ma addirittura quale potesse essere il suo terreno preferito. È sempre stato un corridore abbastanza completo: resistente, discreto in salita, nelle brevi corse a tappe poteva dire la sua perfino nella classifica generale; riusciva a primeggiare anche nelle corse d’un giorno e non disdegnava percorsi misti e cronometro.
Talmente completo da riscoprirsi indeciso, se è vero che nell’ultimo decennio ha rilasciato dichiarazioni contrastanti: da giovane si diceva sicuro del suo futuro nelle grandi corse a tappe; poi, quando Froome e Thomas lo sopravanzarono nelle gerarchie, spiegava che aiutare i propri capitani a vincere lo riempiva di gioia, lui che non riusciva a rimanere concentrato per tre settimane consecutive; infine, durante l’ultimo anno alla Sky, raccontava d’aver imparato a gestire le grandi corse a tappe vivendole di giorno in giorno: l’ideale per un gregario, forse, ma di certo non per un capitano, che deve avere sempre presente la visione d’insieme.
La lunga militanza nel Team Sky non può non aver influito. Dieci anni fa, il binomio sembrava inattaccabile: la grande realtà britannica che svezza i più cristallini tra i talenti britannici, Kennaugh su tutti. Otto anni dopo, Kennaugh lascia il Team Sky e sceglie la BORA-hansgrohe. Non si può dire che non abbia contribuito alla leggenda: era presente quando la squadra è stata fondata, ne è stato uno dei migliori rappresentanti ed ha accompagnato Froome verso la prima vittoria al Tour de France, nel 2013.
Ripensando a quell’edizione, il ritiro prematuro dal ciclismo di Peter Kennaugh appare meno inaspettato di quanto si potesse credere in un primo momento. Nel corso della nona tappa, che andava da Saint Girons a Bagnéres de Bigorre, Kennaugh rimase coinvolto in una caduta. Il giorno prima, Froome aveva vinto ad Ax 3 Domaines, conquistando così la maglia gialla. Da un gregario rimasto attardato, dunque, sarebbe stato lecito attendersi una ripartenza fulminea. Una volta a terra, invece, Kennaugh si prese qualche momento per guardarsi intorno e per riprendersi. «Pensai: è rilassante, pur trattandosi di una caduta. E poi ripartii, di nuovo a testa bassa per rientrare in quel folle circo che è il Tour de France».
Oltre il ciclismo
Non è difficile immaginare i motivi che hanno portato Peter Kennaugh a cambiare squadra. Prima di tutto, le regole del gioco erano appena cambiate: nei grandi giri ogni squadra doveva contare su otto corridori e non più su nove, com’era fino al 2017; in più, Kennaugh si avvicinava ai trent’anni e il ruolo di promessa non gli si addiceva più. Il Team Sky, dal canto suo, aveva ingaggiato corridori come Bernal, Geoghegan Hart, Moscon, Dunbar e Sivakov, suggerendo nemmeno così velatamente a Kennaugh che il suo tempo era ormai scaduto. Sulle sue tracce c’erano anche Katusha e UAE-Emirates, ma alla fine la scelta ricadde sulla BORA-hansgrohe.
Arrivato nella squadra tedesca, Kennaugh poté registrare fin da subito le differenze che ci sono tra il Team Sky e tutte le altre squadre. L’organizzazione rimaneva ottima, l’ambizione comunque presente; a cambiare era l’atmosfera: più serena, più distesa, più leggera. Non sappiamo se questo sia un bene o un male e non c’interessa: ogni squadra adotta una filosofia diversa e prova a vincere le gare che più gli interessano e nelle ultime stagioni ci sono riuscite tanto la Sky quanto la BORA-hansgrohe. Fatto sta che Kennaugh tornò a vedere il ciclismo con occhi diversi, con quelli di un ragazzo alla prima esperienza di un certo tipo. A pensarci bene, per lui era una novità.
Per un decennio abbondante, Kennaugh aveva lavorato ogni giorno con le stesse persone: Brailsford, Ellingworth, i compagni dell’Accademia che approdarono al Team Sky insieme a lui. Lavorare ogni giorno con le stesse persone significa ascoltare gli stessi discorsi, affrontare le stesse questioni, lavorare nella stessa maniera e puntare agli obiettivi di sempre, svolgendo la mansione di sempre.
«Avevo bisogno di nuovi stimoli e di nuove esperienze», spiegò in una bella intervista rilasciata a Cyclingnews sul finire del 2017. «Accusavo la monotonia, la routine, la ripetitività. Non pedalavo più con entusiasmo. Mi sembrava che per Sky fossi diventato “soltanto Pete”. Cambiare squadra è elettrizzante: hanno investito soldi su di me, hanno puntato su di me e si aspettano certe cose da me. Non vedo l’ora di iniziare. Le prime impressioni sono state ottime: a differenza di Sky, che ha un approccio molto più conservativo, qui si corre con sfrontatezza. Ecco, forse mi mancava anche questo: correre seguendo la passione e le emozioni».
Di lì a poco, Kennaugh avrebbe vissuto quello che lui stesso ha definito «il periodo più brutto e più difficile della mia vita».
Il 2018 di Kennaugh era cominciato in Australia, tra Tour Down Under e Cadel Evans Great Ocean Road Race: nessun risultato degno di menzione, ma un paio di azioni che denotavano caparbietà e la sensazione che il suo stato di forma potesse soltanto migliorare – d’altra parte, era soltanto gennaio. Dopodiché, il buio: tornato in Europa, Kennaugh non riusciva a prendere la sua bicicletta e a mettere insieme un allenamento decente. Il corpo era come svuotato, la testa non rispondeva: la sua persona stava rifiutando l’attività di una vita.
I chilometri percorsi erano sempre meno, finché Kennaugh non maturò la decisione di fermarsi e di restare qualche settimana senza pedalare. Un periodo difficile e apparentemente inspiegabile, durante il quale si sono rivelate decisive la presenza dei suoi cari e la comprensione della squadra. Per non ingrassare, Kennaugh andava a correre e tornava a casa dopo aver accumulato una decina di chilometri: qualsiasi esercizio che potesse tenerlo allenato andava bene; tutto fuorché la bicicletta.
Intervistato da CyclingTips qualche mese più tardi, Dan Lorang espresse la sua opinione a riguardo. Lorang era l’allenatore di Kennaugh alla BORA-hansgrohe e non si stupì poi molto dell’accaduto. «È una reazione da mettere in conto, da preventivare: non dico normale, perché non succede a tutti, ma nemmeno così strana. Peter ha cambiato ambiente dopo tanto tempo: nuovi obiettivi, nuovi compagni di squadra, un personale e degli obiettivi diversi coi quali rapportarsi. Può darsi che un corridore si faccia carico di pressioni ulteriori per impressionare la squadra, per provare che l’investimento fatto vale la pena. Credo sia il caso di Peter: voleva dimostrare troppo alla squadra e a sé stesso e ha finito per sovraccaricarsi. Essere troppo eccitati e motivati, per assurdo, è deleterio».
Dopo averne parlato con Lorang e uno psichiatra, Kennaugh si è arreso alla realtà dei fatti ed è ripartito con calma, un passo alla volta. Ci sono addirittura uno studio e un diagramma a certificare quanto detto da Lorang. Secondo il modello Yerkes-Dodson – così si chiama – la prestazione migliora grazie all’eccitazione fino ad un certo punto. Quando questo limite viene varcato, si parla di sovraeccitazione e la prestazione peggiora. Il modello è chiamato anche “U invertita”, dalla forma che rappresenta la teoria. Non che ci volesse uno studio particolarmente approfondito per capire che strafare e sovraccaricarsi di aspettative, pressioni e responsabilità non portano niente di buono. Tuttavia, dato che questo studio c’è, citiamolo. Essendo stato sviluppato nel 1908, può darsi che all’epoca godesse di un’importanza che oggi sembra banale.
Nel giro di qualche settimana, Kennaugh tornò ad attestarsi su ottimi livelli. Fu lui in prima persona a decidere di rientrare al Romandia per aggiungere chilometri importanti al suo fisico – «per essere preso a calci e ritornare più forte», disse a Lorang. Portò a termine il Romandia, ma non la Eschborn-Francoforte e il Delfinato. La BORA-hansgrohe non poteva tenerlo in considerazione per il Tour de France dopo una prima parte di stagione così travagliata. Kennaugh lo sapeva, e per non rimanere fermo decise di partecipare ad un appuntamento classico che si tiene ogni anno sull’Isola di Man: una cronometro aperta a tutti.
Kennaugh, che deteneva il record, vinse e riuscì a ritoccarlo di cinque secondi nonostante un problema al cambio elettronico e ad un pedale. All’arrivo si dichiarò distrutto ma felice, finalmente, dopo che la bicicletta gli causava soltanto fastidio. Pochi giorni più tardi avrebbe conquistato il Grand Prix Pino Cerami, anticipando corridori come Bakelants, Nizzolo, Meurisse e Roelandts: sarebbe stata l’ultima affermazione della sua carriera.
La seconda parte del 2018 fu positiva. Pur non centrando vittorie, Kennaugh si mise in luce in più d’una occasione. Nella prova in linea dei campionati del mondo di Innsbruck chiuse al sedicesimo posto, nel drappello di Quintana e Fuglsang e a quaranta secondi scarsi dal sesto posto di Kreuziger, dal settimo di Valgren, dall’ottavo di Alaphilippe e dal nono di Pinot. Dieci giorni più tardi arrivò terzo alla Tre Valli Varesine, battuto da Skujiņš e Pinot ma davanti a Woods, Urán, Visconti, Ciccone, Valverde e Nibali.
Dopo qualche turbolenza, Peter Kennaugh era tornato a pedalare bene e con piacere. Tutto sembrava presagire una nuova stagione di serenità e successi. E invece, nonostante avesse manifestato a Cyclingnews la volontà di tornare al più presto alla vittoria in una prova del World Tour, il 5 aprile 2019 arrivò la notizia del suo ritiro.
Tra i tanti messaggi di stima, Kennaugh ha ricevuto anche quello di Wiggins, che su Eurosport non ha lesinato complimenti: «Conosco Peter da una vita, aveva un talento naturale e incredibile. Un ragazzo eccezionale, al quale auguro il meglio: sono sicuro che farà bene qualsiasi scelta prenderà. Capirà presto che nella vita non c’è solo il ciclismo, che c’è una vita oltre il ciclismo. Ha avuto coraggio e ha affrontato la vicenda a testa alta».
Ha avuto modo di riflettere, Kennaugh; il tempo non gli è mancato nelle ultime due stagioni e lui l’ha sfruttato benissimo: ha capito che porsi domande scomode è di vitale importanza, che le risposte sono importanti fino ad un certo punto e che il tempo, quando non cura, quantomeno allevia. Può darsi che ancora non abbia riscoperto la felicità; se non altro ha capito cos’è che lo rendeva infelice.
Foto in evidenza: ©Cycling Weekly, Twitter