Cento chilometri di fuga solitaria e una benedetta bicicletta alzata al cielo.

 

Ventiquattro corridori in fuga sono davvero troppi. Tra loro potrebbe nascondersi un imbucato di spicco e i cambi sarebbero pericolosamente troppo regolari. Un conto è un tentativo consistente durante la seconda o la terza settimana di un grande giro, quando il più vicino in classifica ha mezz’ora di ritardo; e un conto, invece, è un attacco così corposo in una frazione di una breve corsa a tappe. La quinta tappa del Giro dei Paesi Baschi 2016 va da Orio a Arrate e misura centocinquantanove chilometri. È la giornata più dura: otto gran premi della montagna e una pioggerella che tiene sul chi va là. Diego Rosa fa tutte le considerazioni di cui sopra. Tra i ventiquattro c’è anche lui ma è consapevole che il gruppo non li lascerebbe andare e che, arrivati a un certo punto, persino l’armonia tra i fuggitivi si sarebbe incrinata. E allora meglio andare da soli, anche se al traguardo mancano cento chilometri.

Il salto di qualità che tutti si aspettava e gli chiedevano, Rosa l’ha compiuto negli ultimi mesi del 2015. Dopo aver scortato Fabio Aru nella vittoriosa Vuelta a España, ha spianato la strada a Vincenzo Nibali al Giro di Lombardia riuscendo comunque a chiudere al quinto posto, confermando che il successo arrivato tre giorni prima alla Milano-Torino era tutt’altro che casuale: non si anticipano corridori come Majka, Aru, Pinot, Poels, Pozzovivo, Bardet, Landa e Dan Martin se non si ha stoffa. Diego Rosa ha scoperto di averne molta. E la gamba piena è il miglior compromesso: il coraggio emerge più facilmente e la fortuna compie il suo dovere con estrema precisione. Eppure, tra forma, coraggio e fortuna, Rosa sceglie quest’ultima: “Preparati quanto vuoi, ma è fondamentale”, ammise scafato a Miriam Terruzzi qualche anno fa. Una scottatura lo aveva marchiato.

Nonostante corresse nell’Androni Giocattoli-Venezuela, Diego Rosa si presentò al Giro d’Italia 2014 con la voglia di lasciare il segno. Era reduce da una primavera fatta di nessun risultato e una mole impressionante di lavoro proprio in vista del Giro d’Italia. La sesta tappa, da Sassano a Montecassino, sciupa sogni e ambizioni. Una rotonda e l’asfalto bagnato a undici chilometri dal traguardo disperdono il gruppo. Rodríguez si frattura tre costole e una mano, Vicioso riporta una frattura scomposta pluriframmentaria del femore destro, Giampaolo Caruso si rialza a stento dopo aver fatto temere il peggio. Brajkovič e Villella si ritirano, gran parte dei capitani rimangono attardati, la vittoria è appannaggio di Matthews. Diego Rosa ha un buco sul ginocchio. In ospedale gli danno tre punti di sutura e un avvertimento: c’è un’infiammazione profonda, arriva fino alla tibia. Lui stringe i denti, gli antidolorifici gli fanno entrare qualche linea di febbre, in alcune occasioni rimane per poco dentro il tempo massimo. Si ritira nel corso della diciottesima tappa, un fantasma che ormai avevano rimosso tutti, la sua storia una delle tante in uno sport che macina chilometri e persone con un’indifferenza disarmante.

Uno pensa che i Paesi Baschi siano accoglienti e caldi, d’altronde siamo pur sempre in Spagna. E invece no, nessuno si azzardi a dirlo. I Paesi Baschi sono focosi e chiusi, ispidi e spigolosi: piove spesso e volentieri e le salite sono brevi e secche. Un malessere costante, un’insofferenza incurabile. Diego Rosa ha scelto un bel posto per realizzare l’impossibile. Il suo vantaggio sale: un minuto, tre minuti, addirittura sei minuti. Sta compiendo un’impresa e, come durante ogni impresa che si rispetti, non c’è quasi nulla da raccontare: il vincitore è un dominatore, e quando un corridore domina significa che non c’è stata corsa, e se non c’è stata una corsa di cosa stiamo parlando? La Cuneo-Pinerolo di Coppi, per esempio, sarà leggendaria e memorabile, certo, ma spettacolare no di certo: cosa può esserci di così avvincente nel vedere un essere umano che annichilisce con tale superiorità tutti gli altri? Niente, ovviamente. E così per Diego Rosa, che scollina in solitaria per cinque volte, che resiste al ritorno del gruppo e che distanzia di minuti Contador, Quintana e tutti gli altri. Un centimetro prima della linea bianca di Arrate inchioda, scende e alza la bici al cielo: sono rimasugli di un biker che al fuoristrada ha preferito la strada, che al coraggio antepone la fortuna e che baratta volentieri un pizzico di spettacolo per un pezzo di storia.

 

Foto in evidenza: ©Flowizm…, Flickr

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.