La vittoria di Vinokourov alla Liegi del 2010 resta ancora oggi controversa.
“Vinokourov è tornato, Vinokourov è qui, Vinokourov è la classe. Volevo dimostrare di poter vincere senza doping, e l’ho dimostrato. Questa è una vittoria pulita. Sono qui per far capire agli altri corridori che con l’allenamento ce la si può fare, che il lavoro paga, che si vince anche senza doping”. Al termine della Liegi -Bastogne-Liegi 201o il biondo kazako in preda all’euforia parla in terza persona, ha pagato, è tornato competitivo e ora conquista il suo secondo successo nella classica belga.
Tre stagioni prima fu cacciato dal Tour de France: positivo a un controllo antidoping all’indomani delle due vittorie di tappa ottenute una nella cronometro di Albi e l’altra nella frazione che si concludeva a Loudenvielle-Le-Louron. Uno scandalo, l’ennesimo di proporzioni enormi, che investe una Grand Boucle già tormentata dalla positività di Sinkewitz (e l’abbandono della corsa dei media tedeschi) e delle notizie su Rasmussen colpevole di aver mentito su dove si trovasse durante un allenamento per saltare un controllo antidoping. Un Tour che dovrà ancora vivere gli anni più infamanti con l’affare Armstrong che sarebbe esploso un po’ di tempo dopo. Vinokourov era leader assoluto della squadra kazaka, che ha come nome la capitale e che va avanti grazie ai fondi statali. Quando ritornerà a pedalare, non verrà più visto da alcuni colleghi, giornalisti e tifosi come un atleta dalla fedina ripulita e che ha pagato per quello che ha fatto. Anche se quella squadra resta tutt’oggi faro del movimento mondiale con a capo proprio “Vino”.
Si passa velocemente dalle pietre alle coste, i favoriti principali di quella Liegi-Bastogne-Liegi sono due: Philippe Gilbert vincitore una settimana prima dell’Amstel Gold Race e Cadel Evans che a metà settimana si era imposto sul Muro di Huy alla Freccia Vallone, vestito della livrea iridata conquistata a Mendrisio pochi mesi prima. In seconda fascia Andy Schleck vincitore uscente, spalleggiato dal fratello Frank, Valverde alla caccia del tris e altri spagnoli piazzatisi alla Freccia Vallone proprio alle spalle dell’australiano campione del mondo: Purito Rodriguez, Contador e Antón. L’Italia ha meno velleità bellicose che in passato in una corsa che per due decenni l’ha vista dominare e schiera come migliori carte Cunego e Nibali. Ci sono poi Vinokourov dall’est, Hesjedal dal lontano Canada e Horner dagli Stati Uniti, mentre Francia e Olanda vivono ancora una fase di impasse prima dell’esplosione di talento di questi ultimi anni e i loro uomini migliori rispondono ai nomi di Voeckler, Gesink e Tankink.
C’è sole in partenza. Temperatura gradevole. La Liegi chiude il ciclo delle grandi classiche di Primavera e che nel 2010 ha visto un dominatore assoluto sulle pietre: Fabian Cancellara. Lo svizzero distrugge Boonen sul Muur al Fiandre, e una settimana dopo chiude i conti anche con la Roubaix: nelle due grandi classiche del pavé vincerà con un margine totale di 3’15” sul secondo arrivato, Boonen in Belgio e Hushovd in Francia.
L’ordine del giorno presenta una Liegi con un percorso leggermente modificato rispetto alla stagione prima, duecentosessantotto chilometri costellati di salitelle, per un profilo altimetrico nervoso come uno studente prima dell’esame di maturità. Sulle strade si riversano fiumi di persone, tra i camper e le auto parcheggiate, birra, carne e patatine fritte. La corsa è una lunga attesa verso gli ultimi trentacinque, quaranta chilometri. La progressione dal concetto di noia e di attesa a quello di inquietudine parte ai piedi della Redoute, una salita che negli anni ha perso il suo essere decisivo, ma ha lasciato intatto il fascino discreto e la capacità di indurire le gambe introducendo il finale di corsa. Arrivati in cima c’è un tratto in falsopiano, poi si scende e ci si infila verso la Côte de la Roche aux Faucons e poi successivamente la Côte de Saint-Nicolas: i punti decisivi per scremare il gruppo prima del tradizionale finale sulla rampa che porta ad Ans.
L’avvio è solito canovaccio di una pièce conosciuta e prevede un lungo batti e ribatti iniziale come un riscaldamento prepartita. Alcuni provano a prendere la fuga, ma vengono risucchiati dall’inerzia del gruppo, altri stanno in coda rilassati, poi parte l’azione che contraddistinguerà la prima parte di corsa: Thomas De Gendt (chi sennò?) in maglia Topsport Vlaanderen è il promotore principale. Al suo secondo anno da professionista solo pochi giorni prima sfiora l’impresa alla Freccia del Brabante arrivando secondo dopo una lunghissima fuga e battuto allo sprint de Rosseler. Ogni tanto le fughe arrivano e De Gendt da subito se ne rende conto, fino a trasformare queste azioni in un marchio di fabbrica. Ci sono gli scattisti, i velocisti, gli scalatori, i passisti, e poi ci sono i fugaioli. Davanti con lui c’è Finetto, buona speranza del ciclismo italiano nelle classiche impegnative, Veikkanen, uno dei rari finlandesi capaci di muoversi tra i professionisti e poi ancora Perez, Bouet, Devenyns e Terpstra.
Sono passate oltre tre ore e non succede nulla. Il ciclismo è attesa. È attesa della prossima salita, della prossima corsa, del prossimo attacco, la “Doyenne”, la decana delle classiche, non si è sottratta di certo all’attendismo che ha caratterizzato buona parte del secondo decennio degli anni duemila. Ci si aspettano i Saxo-Bank dei fratelli Schleck, ma ecco i BMC di Evans iniziare un lungo inseguimento che assomiglia a una digestione postprandiale. Il vantaggio si accorcia: sullo Stockeau, dove Merckx ha costruito alcune fra le sue imprese indimenticabili, esce Jens Voigt in avanscoperta, mentre davanti il drappello dei fuggitivi inizia a perdere pezzi.
Succede poco fino alla Redoute, c’è qualche rimescolamento, ci sono state anche delle cadute: tutto nella norma. C’è Monfort che una volta tanto non si mette in luce solo per un piazzamento fuori dai dieci al Giro che prova ad anticipare un gruppo che vede ora in testa gli uomini di Gilbert, l’uomo di casa, colui che riconosce le facce di amici e parenti scalando quelle colline. Mentre i fuggitivi vengono ripresi, ci sono altri tentativi velleitari: Barredo, Garzelli, Tony Martin. Sulla Redoute l’andatura non è elevatissima, in un punto il gruppo sembra proprio rallentare e nel tratto più ripido i big si guardano negli occhi.
Sulla Roche aux Faucons cambio di sceneggiatura: Frank Schleck fa il forcing per il fratellino. Andy attacca, Gilbert risponde e sembrano andarsene in due, Valverde, coinvolto in una caduta pochi chilometri prima si accoda, poi arrivano anche Cunego, Rodriguez e altri. Qualche chilometro dopo Vinokourov, rimasto vigile come un predatore in un bosco, sferra l’azione decisiva . Il kazako parte come una macchinina polistil, gli altri si guardano, il gruppo si fa più nutrito a causa di qualche rallentamento: si muove Kolobnev al contrattacco e si accuccia alla ruota del capitano del Team Astana.
Un russo e un kazako, qualche anno prima avrebbero corso sotto la stessa bandiera, viaggiano di comune accordo per i quindici chilometri finali. A cinquecento metri dal traguardo il forcing di Vino è decisivo. Due mani sul petto: la corsa è sua. Kolobnev è secondo, dietro Valverde staccatissimo, anticipa Gilbert per il terzo posto.
Sul palco arrivano fischi, la sera e il giorno dopo nemmeno i giornali sono teneri con il corridore tanto che Vinokurov manderà una lettera a tutti gli organi di stampa, dicendosi amareggiato per la scarsa fiducia nei suoi confronti, che ha già pagato per un errore commesso, di aver effettuato nelle ultime settimane trenta controlli tutti negativi e di correre con un passaporto biologico che indica come tutto sia regolare. Di essere vittima e capro espiatorio di un ciclismo che invece di superare i suoi problemi, si fossilizza su errori commessi nel passato dai propri protagonisti.
Qualche tempo dopo un’inchiesta finisce su tutti i giornali del mondo, questo è quello che riporta La Stampa nel 2012, riguardo una presunta combine tra Vinokourov e Kolobnev e per la quale ancora oggi si aspetta un verdetto definitivo: “Il kazako Alexandr Vinokourov, campione olimpico su strada negli ultimi Giochi di Londra 2012, avrebbe versato 150 mila euro al russo Aleksandr Kolobnev per vincere nel 2010 la Liegi Bastogne Liegi. […] L’accusa viene dalla Procura di Padova, presso la quale il pm Benedetto Roberti avrebbe raccolto «prove inoppugnabili» di una combine tra Vinokourov e Kolobnev, con tanto di email e bonifici bancari fra i due corridori nei giorni e nei mesi successivi alla corsa belga. […] Avevo delle ottime chance di vincere – si leggerebbe in una delle email inviate da Kolobnev a Vinokourov -. L’ho fatto per rispetto tuo e della situazione in cui ti trovavi. Se al tuo posto ci fosse stato un altro corridore, avrei cercato la vittoria”. Kolobnev invece non si oppose al successo del kazako. “Ora aspetto da te una risposta. Copia i mie dati e cancella questo messaggio, se no sono guai”. In coda alla mail sarebbero riportate le coordinate del conto corrente di Kolobnev presso una banca svizzera. La risposta di Vinokourov sarebbe arrivata l’8 maggio con una email e poi con un primo bonifico di 100 mila euro il 12 luglio, seguito da un secondo bonifico di 50 mila euro in data 28 dicembre.”
Accuse rispedite al mittente, gli avvocati hanno presentato la loro difesa: “e-mail falsificate da qualcuno entrato nel sistema“. Il 7 maggio di quest’anno secondo il sito olandese wielerflits.nl i due saranno ascoltati dai giudici a Liegi in un processo continuamente rimandato e che nove anni dopo non ha ancora raggiunto un verdetto definitivo. Nel frattempo l’albo d’oro riporta ancora i nomi di Vinokourov e Kolobnev in quella Liegi del 2010, ma il ciclismo è molto abile a riscrivere la storia e gli ordini d’arrivo e l’impressione è che tutto possa ancora cambiare: povero Vino.
Foto in evidenza da Peloton Magazine