Il ciclismo: uno scrittore che tratteggia personaggi, un pittore che immagina paesaggi.
Se lo sterrato è entrato prepotentemente nel ciclismo professionistico odierno, il merito è di Giancarlo Brocci. Dieci anni dopo aver ideato l’Eroica, la Federazione Ciclistica Italiana e la Regione Toscana gli fanno capire che scommetterebbero volentieri su un evento del genere pensato però per i professionisti. Brocci, che non aspetta altro che la possibilità di fondere Chianti e ciclismo, presenta due progetti. Il GiroBio, una sorta di corsa rosa per dilettanti, si farà tra mille polemiche: la genuinità della manifestazione, il fiore all’occhiello della stessa, diventerà una ghigliottina che decapiterà il povero (povero un corno, a pensarci bene: chi ha certi valori può solo essere ricco) Brocci.
L’altro progetto è una Eroica per professionisti. L’idea viene avallata. Partono le ricognizioni sul percorso: Daniele Bennati, Paolo Alberati e Fabrizio Ravanelli (sì, quel Ravanelli) che pedalano e Brocci al seguito in macchina. Nell’arco di qualche anno, “La Gazzetta dello Sport” e RCS nelle vesti di Angelo Zomegnan si intesteranno la paternità di una corsa che invece appartiene a Giancarlo Brocci: per lui, purtroppo, seguiranno periodi difficili. Ma oggi sta bene, finalmente, e si gode le sue creature col distacco di chi si tiene alla larga dalla fiamma che lo ha bruciato.
In appena un decennio, la Strade Bianche è diventata un appuntamento fisso di inizio stagione per i corridori più forti al mondo. In Piazza del Campo non ha mai esultato un carneade: Kolobnev è un plurimedagliato mondiale, Lövkvist ha indossato anche la maglia rosa, Iglinskij aggiunse la Liegi-Bastogne-Liegi 2012 al successo nella Strade Bianche 2010. Nemmeno Moreno Moser può essere considerato una sorpresa: nel 2013, anno in cui ha fatto sua la corsa, sembrava una delle promesse più sincere.

Tutti gli altri vincitori sono dei campioni. Fabian Cancellara è il più grande: si è ripetuto ben tre volte in nove edizioni. Tra cent’anni verrà ricordato alla stregua di un pioniere: come Thys per il Tour de France, Girardengo per la Milano-Sanremo, Garin per la Parigi-Roubaix. In virtù dei tre successi, alla vigilia dell’edizione 2017 gli è stato dedicato uno dei passaggi decisivi: quello di Monte Sante Marie.
L’edizione 2018, fredda e umida per il maltempo che appesantisce l’Italia, rende giustizia al proprio nome: cumuli di neve bianca e grigiastra rendono magica l’attesa. La corsa non ha nessun Cancellara sul quale scommettere. Si scende in trincea con l’unica certezza filosofica: il dubbio.
Dei centottantaquattro chilometri in programma, sessantatré spalmati in undici tratti sono di strada bianca: il 34% della corsa è una sfida a mani nude, un terno al lotto, una valvola di sfogo. Perché viene organizzato tutto questo? Perché lo sport si spoglia di tutti gli accessori e si mostra per quello che dovrebbe essere: un gioco. Il divertimento è svincolato da qualsiasi forma di successo, il tempo che passa si misura con i muscoli che si sfibrano, lo spazio è la strada e la strada una tela bianca sulla quale vomitare la propria creatività. Al termine di giornate come questa, il vincitore può esclamare: sono stato il più forte. Non il più veloce, il più adatto, il più scaltro: il più forte. Colui che ha dato alle sensazioni gambe solide con le quali scavare un solco, colui che ha capito che il coraggio è preceduto da un istante di paura che atterrisce. L’imprevisto è la norma, l’uomo svestito e senza supporti esterni sui quali contare riscopre istinti che credeva sopiti. Il fango rievoca spensieratezza, il freddo pungente la natura di uomini straordinari proprio perché fallibili. La Strade Bianche 2018 apre una stagione di grande ciclismo: quella che celebra il controsorpasso dell’intelligenza umana su quella artificiale, una splendida annata di assoli e naufragi.

Essendo una manifestazione sportiva di alto livello, va da sé che succedono anche molte cose: ma prima degli eventi ci sono le impressioni, quando la fatica è ancora tutto sommato gestibile e l’acido lattico non annebbia la vista. Pedalare sullo sterrato bagnato è un’esperienza sensoriale degna di nota. C’è il fango che schizza e s’incrosta, la ruota che ora slitta ora affonda, la salita che disperde e la discesa irrigidisce. Non esistono drappelli, alla Strade Bianche: al massimo, individualità i cui bisogni ogni tanto possono coincidere. La campagna, desolata e povera, assiste silenziosa: la teoria di fantasmi che la attraversa non può impensierirla. Dietro ad ogni poggio si apre un nuovo scorcio ma Siena continua a rimanere nascosta e irraggiungibile. La civiltà è lontana, è in Piazza del Campo: qui regna il selvaggio.
Ci sono automobili apparentemente abbandonate parcheggiate in bilico su fossi colmi di melma, qualche solitario tifoso che non vuole condividere con nessun altro il passaggio della corsa: chissà se un posto vale un altro, chissà come ci arrivano gli appassionati in certi punti del percorso. La foschia rende inquietanti abbazie, castelli, conventi. Quando a sessanta chilometri dal traguardo si stacca dalla parte giusta, cioè davanti, un gruppetto pericolosissimo, in molti si ricordano che al termine di questo fanciullesco diversivo invernale verrà stilato un ordine d’arrivo.
Ci sono Valverde e Kwiatkowski, Štybar e Moscon, Oss e Rojas. Potrei raccontare di loro, di palmarès più o meno brillanti e speranze che mano a mano crescono o diminuiscono. Ma non lo farò: non perché i corridori citati non lo meritino, anzi. Come sottolinea Sagan (in quel gruppetto c’è anche lui) nel suo “My World”, scritto con John Deering,
“se ci sono cento corridori sulla linea di partenza, al traguardo ci saranno cento storie diverse da raccontare”.
La bravura dello scrittore (che non è chi scrive, s’intende, ma la presenza oscura che di volta in volta butta giù trama e scenografia della corsa) sta nel farle emergere tutte ma con parsimonia: a tempo debito ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità. Non sempre è sufficiente saper aspettare: di tanto in tanto bisogna irrompere sulla scena con forza. Bardet, Van Aert, Benoot, Serry, Power e Visconti: sei personaggi che non hanno assolutamente bisogno d’autore.

Il primo a muoversi è il francese. Inizialmente escluso dalla contesa, rientra in un tratto di sterrato: il tempo di riprendere fiato e coraggio ed è già solitario in testa alla corsa. È un bel tipo, Bardet: sulla bici ha scritto: “Take the risk or lose the chance”, un promemoria per i momenti più difficili. Come ha scritto magistralmente Bidon, Bardet si interessa anche di politica e business, attualità e management: alla mattina il suo letto, più che ad un giaciglio, assomiglia al tavolo di un programma televisivo pronto ad andare in onda con la rassegna stampa del giorno. È arrivato in Toscana qualche giorno prima della Strade Bianche e ha alternato allenamenti e ripasso del percorso in solitaria con visite a cantine della zona e assaggi vari con la famiglia: dice che l’Italia gli piace, la Toscana ancora di più.
Alla sua ruota, silenzioso ma efficace, si acquatta Van Aert. Spera che le condizioni atmosferiche e l’accidentato manto stradale (a voler essere generosi) possano favorirlo. I problemi sono due: su strada (la specialità rimane questa anche se si corre tra acquitrini) si va più forte e il chilometraggio è superiore a quello previsto nel ciclocross, la terra dalla quale il belga proviene. Sulla rampa finale di Santa Caterina le sue giunture salteranno: zoppicherà come un cavallo ferito ma riuscirà a tagliare il traguardo in terza posizione. Dopodiché crollerà al suolo, sfinito: su di lui si piegherà Sarah De Bie, la sua ragazza, capelli biondi e cappellino rosa, ma Van Aert non si smuove. Sul podio si toccherà ripetutamente l’occhio sinistro: non è l’emozione ma un residuo di fango che il belga annega sotto una bottiglietta d’acqua. In barba all’epica.
Quando Van Aert e Bardet si ricongiungono, nessun altro reagisce. La coppia, col fiatone ma affiatata, arriva ad avere un vantaggio importante e l’impressione che la vittoria se la giocheranno quelle quattro gambe. Finché da dietro non si muovono Serry, figlio di contadini, e Benoot, figlio della voglia. Il primo, generoso e resistente, chiede troppo al suo serbatoio: il rumore del fondo raschiato suona sinistro, si pianta su una rampa fangosa nel momento in cui il rampante belga lo abbandona al suo destino.

Il quinto posto conquistato tre anni prima al debutto nel Giro delle Fiandre pesa come un macigno sulla sua ancor giovane carriera: in patria scrissero che Boonen e Cancellara fecero peggio, nonostante Benoot urlasse a gran voce che si sentiva tagliato per la Liegi o per le corse a tappe e non per il pavé. La Strade Bianche la conosce bene: si è già piazzato nelle due edizioni precedenti, in più nel 2017 scelse Siena come meta delle vacanze con la sua dolce metà. Allora Piazza del Campo li ospitò per un gelato, adesso Benoot vuole conquistarla da ciclista. E lo fa, con una facilità imbarazzante: la sua prima vittoria da professionista arriva al termine di una giornata perfetta, la migliore che un corridore possa immaginare. Il belga è un tutt’uno con la sua bici, è impossibile stabilire tra corpo e mezzo chi sia la protesi dell’altro. Quando stacca Bardet e Van Aert sull’ultimo sterrato delle Tolfe si assiste alla sua trasfigurazione: lo sforzo profuso sembra troppo grande da sostenere, la bocca diventa quella di un forno al cui interno bruciano energie e ambizione.
“Non vedo l’ora di rivedere l’ultima parte di gara in televisione”, rivelerà raggiante in serata.
Power e Visconti, purtroppo per loro, entrano in gioco quando il successo è ormai irraggiungibile. Non sono due protagonisti ma ogni opera che si rispetti vanta spalle e comparse prestigiose: il siciliano, che si ritrova capitano perché più fresco di Nibali, e l’australiano, ventidue anni e la freschezza di colui che del proprio lavoro non conosce ancora le difficoltà ma soltanto l’ebrezza. Talmente sicuro di sé da spronare e richiamare Visconti, uno dei senatori del gruppo. Il siciliano terminerà quinto, Power sesto, Serry nono.
Mentre parole roboanti invadono le bocche degli appassionati e le colonne dei giornali, i corridori tentano di dare un nome a quella frizzante sensazione che fa pizzicare loro lo stomaco. “Questo è ciclismo puro”, riassume Bardet. Puro, in questo caso, è un rafforzativo: indicativo ma superfluo. “Questo è ciclismo”, avrebbe potuto dire il francese. Che non l’abbia detto deve far riflettere per il futuro.
Foto in evidenza: ©Strade Bianche, Twitter