Anna van der Breggen si ritirerà al termine della prossima stagione.
Anna van der Breggen ha deciso e in un certo senso non poteva fare altrimenti. Non parliamo, almeno per ora, del merito della decisione, ma dei meccanismi interiori che hanno portato a mettere in atto quel processo decisionale. Van der Breggen è abituata a decidere tanto per carattere quanto per circostanze esterne. Ma non è facile, mai, perché quando si presenta una ragazza di trent’anni con nel palmarès due Giri d’Italia, un oro olimpico a Rio de Janeiro 2016, un titolo mondiale in linea a Innsbruck 2018 e altre innumerevoli medaglie, l’apparenza finisce per ingannare e si danno per scontate tante cose. Sembra facile, per chi guarda e si ritrova al massimo a commentare. Le persone non sanno; e questo, per quanto possa sembrare un gioco di parole, van der Breggen lo sa molto bene.
Viso da brava ragazza, quasi d’altri tempi. Occhi azzurri, pieni. Guance spruzzate di un leggero rosso. A ben guardare il suo volto è tutto guance. Quando si mostra al pubblico, accenna un sorriso acqua e sapone che sembra quasi incompatibile con quella specie di godzilla su due ruote nel quale si trasforma; quella trasformazione che le ha permesso di consacrarsi nello sport che l’olandese di Zwolle ha scelto a soli otto anni, nel 1998. Il lato più vero di van der Breggen è quello che si mostra lontano da occhi indiscreti, per esempio nel retro di un podio qualunque dopo una vittoria. Se capita di osservarla, si nota una sorta di trasfigurazione. Una trasfigurazione dai contorni lievi, ma dal cambiamento notevole. Sul volto di quella campionessa cala l’ombra e arrivano i pensieri. Perché decidere costa, è questa la realtà. Ha un prezzo, talvolta pesante, ma di certo ha un valore. E prezzo e valore non sono la stessa cosa.
Il prezzo lo impone qualcuno, il valore esiste. Il prezzo l’ha fatta diventare Anna van der Breggen; il valore era in Anna van der Breggen ben prima che lei stessa fosse van der Breggen, o almeno la van der Breggen che tutti conoscono oggi. Quando nel 2009 ha firmato un contratto per il Team Flexpoint era seguitissima più per il fatto di essere olandese che non per le doti che doveva ancora materializzare. Ed essere olandese, nel ciclismo degli anni dieci del duemila, somiglia all’essere brasiliani nel calcio. L’atteggiamento è di attesa: fammi vedere cosa sai fare, perché non ci sono dubbi che tu sappia fare. Come fosse una colpa: piacevole, certo, perché credono che tu sia una fuoriclasse; pesante, però, perché se non lo sarai, e non sarebbe uno scandalo, avrai molte più cose da spiegare. E per quanto impegno e buona volontà potrai metterci, pochi si fermeranno a parlare di te mentre le tue connazionali vincono l’impossibile. Bel prezzo da pagare, perché poi la storia sta dalla parte di chi vince e non di chi spiega.
Certe volte si è indotti a credere che la decisione sia un’azione che squarcia un ipotetico cielo pirandelliano. In realtà, se è vero che può essere così, è altrettanto vero che non sempre lo è. La decisione può essere accettazione non rassegnata e svogliata, ma cooperante e attiva. Anna van der Breggen ha corso il rischio di essere una fra le tante olandesi del ciclismo. L’ha fatto accettando il peso del tempo. Tre anni di lenta crescita, da quel 2009, ma senza acuti; poi al team Sengers Ladies le prime zampate vincenti: si parla di tappe al Tour de Bretagne, al Tour en Limousin e di un quinto posto ai mondiali di Valkenburg. Si parla soprattutto di un titolo a cronometro agli Europei Under 23 di Goes.
Guardando la carriera di van der Breggen si ha la sensazione di una sintassi logica perfetta: non manca alcun tassello, non ci si può chiedere “da dove spunta?” come accade ed è sempre accaduto per qualche carneade del ciclismo. La ragazza di Zwolle è ai vertici degli ordini di arrivo da tempi non sospetti con la perseveranza dei frutti che matura la primavera. Nel 2013 non ottiene i risultati sperati ed è per questo che nel 2014 arriva alla Rabo-Liv, una delle armate del circuito femminile. Serve pazienza, perché in squadra ci sono Marianne Vos, olandese come lei, e Pauline Ferrand-Prévot. Nonostante la primavera di van der Breggen sia brillante, nel più grande appuntamento della stagione, il Giro Rosa, è gregaria. Una gregaria atipica, perché agguanta il podio dietro alle due atlete citate nell’ordine, ma pur sempre un’atleta al servizio di altre atlete. Uno spettro manifestatosi a metà, perché nello sport non basta essere bravi: bisogna essere più bravi. Una meritocrazia spietata.
Forse nel retro dei podi, prima di andare davanti al suo pubblico, Anna van der Breggen pensa a questo. Pensa a quanto non sia stato facile aver sempre dovuto dimostrare di più di quello che sarebbe bastato a qualunque altra ragazza. Pensa a quella cronometro finale di Nebbiuno al Giro d’Italia 2015 che rivoluzionò la classifica generale facendo balzare lei al primo posto e Megan Guarnier, in rosa fino a quel momento, addirittura al terzo. Quanta rabbia quieta c’era in quella ragazza dal sapore di altri tempi? Tanta, anche se non si vedeva sul viso. Si intuiva nei muscoli delle sue gambe, la perfezione della fatica. Un anno più tardi, alle Olimpiadi di Rio, la stessa rabbia sarebbe stata scaraventata via dalle braccia alzate al cielo e poi rilanciate, quasi a volerle liberare di qualcosa, dopo la volata su Emma Johansson ed Elisa Longo Borghini. Proprio nel giorno in cui l’Olanda sportiva e non solo pregava per la tragica caduta di Annemiek van Vleuten, che poi sarebbe rinata con altrettanta volontà. Quanta voglia di decidere in quella medaglia guardata per qualche frazione di secondo sul podio e poi subito girata verso il pubblico alle sue spalle? Timida ma decisa, talvolta altera, spietata come l’inevitabile. Non sembrerebbe a vederla, ma è così.
Perché Anna van der Breggen è anche ciò che non sembra. Questo le ha evitato di essere una olandese fra le tante, questo le consente di sopportare il peso di quel pensiero che ancora oggi non ha smesso di replicarsi fra le sue cellule neuronali, nonostante la realtà abbia sconfitto ogni possibile scenario alternativo: quanto devo ancora dimostrare per non essere una qualunque? Non lo sarebbe comunque, ma lei vuole decidere come sottrarsi a quella paura. Lo fa perdendo la prima piazza a Plumelec agli Europei del 2016 a vantaggio della connazionale Ellen van Dijk; cambiando team nel 2017, scegliendo la Boels-Dolmans; e infine aggiungendo altri tasselli a quella crudezza dei fatti. In una settimana il trittico delle Ardenne: Amstel Gold Race, Freccia Vallone e la prima storica edizione della Liegi-Bastogne-Liegi femminile – e un Giro delle Fiandre, una Strade Bianche, un’altra Liegi-Bastogne-Liegi e altre due volte la Freccia Vallone. Dall’America all’Europa, per parafrasare Manzoni: perché vola in California e vince l’omonimo Tour, torna in Italia e vince per la seconda volta il Giro Rosa. Questa volta con una soddisfazione in più, forse: sul podio c’è Annemiek van Vleuten, terza. La talentuosa ragazza, dapprima gregaria di mostri sacri, viaggia con la vittoria a portata di mano o di pedale, sintetizzano i cronisti, mentre in van der Breggen si solidifica un’interiorità di consapevolezze e di qualche boccone amaro.
Quando si parla di nazionale olandese al femminile si pensa all’invincibile armata. Qualcuno semplifica: vincono sempre e solo le olandesi. Che non è vero, ma rende l’idea. Non siamo avvezzi agli elenchi, ma ogni tanto ci stanno pure bene: Vos, van Vleuten, van der Breggen, Pieters, Blaak. Questa è una metà, la prima, che la nazionale olandese potrebbe schierare ai Mondiali – non che l’altra metà sia così inferiore, intendiamoci. Che male c’è? Meglio, diranno i più. Gente dalla memoria corta, perché tanto hanno vinto i team a causa della grandezza dei loro componenti quanto hanno perso per lo stesso motivo. Perché mettere d’accordo cinque fuoriclasse è difficile. Serve qualcuno capace di avere una visione di gara e di imporla, ma ancora prima servono atlete consapevoli che il loro turno arriverà. Qualche malumore fra le olandesi dev’esserci stato, almeno così dicono voci ben informate. Ma si è trovato il coraggio di andare oltre anche rinunciando ad ambizioni personali. Van der Breggen conquista la maglia iridata sotto il cielo azzurro e le case color pastello di Innsbruck, dopo Vos, dopo Blaak e prima di Van Vleuten.
Non ha scelto di essere figlia di un paese di fenomeni, ma ha deciso di esserlo nell’unico modo possibile. Contro ogni predestinazione e facili entusiasmi da enfant prodige. Passo dopo passo affinché tutto abbia un senso. Pieno di significato come l’iride dei suoi occhi. Come la vittoria a Malga di Montasio al Giro Rosa 2019, quando comunque il Giro non avrebbe più potuto vincerlo, saldo com’era nelle mani di van Vleuten. Ma non fare nulla di straordinario avrebbe voluto dire tradire quell’analisi di significati e significanti che nel segno della coerenza e della persistenza l’avevano portata fino a lì. A costo di buttarsi sopra l’erba e cercare di raccattare il respiro chissà dove nella cassa toracica. Al traguardo dedica la vittoria alla mamma che pochi giorni prima ha subito un delicato intervento chirurgico e per qualche istante trasfigura davanti alle telecamere, e non in un cono d’ombra come sempre.
Anna van der Breggen ha deciso che al termine del 2021 si ritirerà dal ciclismo pedalato: avrà soltanto trentuno anni. Rimarrà nello staff della Boels-Dolmans, è vero, ma già sappiamo che i commenti sulle tempistiche si sprecheranno: li ascolteremo e ci rifletteremo, come probabilmente farà van der Breggen. Ma non tornerà indietro, statene certi. Forse un domani, in Olanda, ci sarà una ragazza di quindici anni in sella a una bicicletta, con l’ambizione di diventare ciclista e la paura di essere una delle tante. Qualcuno le chiederà chi era Anna van der Breggen. Lei gli risponderà. E sarà come per i Beatles in una vecchia canzone.
Foto in evidenza: ©UCI, Twitter