Cosa sta succedendo a Michał Kwiatkowski?

Talento, lucidità e ambizione: gli ingredienti che hanno fatto grande Michał Kwiatkowski.

 

 

Al termine del Tour de France 2019, il corpo di Michał Kwiatkowski urlava dal dolore. Chiedeva aiuto, voleva guarire. Il suo motore era inceppato, alcuni lo definirono usurato o persino grippato, come se le gambe di chi pedala fossero fatte di pistoni e cilindri.

Michał Kwiatkowski, alla fine di quella corsa, si sentiva stanco senza un apparente motivo, figurando come una sbiadita copia di quel cavaliere silenzioso e dai tratti impenetrabili capace di mettere tutti in fila lungo le salite della Grande Boucle conquistate prima da Chris Froome e poi da Geraint Thomas.

Anche grazie a quelle azioni c’è stato chi sosteneva che, se si fosse messo in proprio, avrebbe potuto ambire a lottare per un podio finale. D’altronde parliamo di un ragazzo vincitore di un titolo mondiale, di una Milano-Sanremo, di due Strade Bianche; uno che va forte sia sulle Ardenne che sul pavé, che ha messo in cascina brevi corse a tappe affascinanti e prestigiose come la Tirreno Adriatico e che ha sconfitto corridori come Contador, Thomas e Mollema alla Volta ao Algarve. Un corridore totale, vecchio stampo per caratteristiche e moderno per interpretazione, ma costretto a scontrarsi con il ciclismo delle specializzazioni.

E lo ha dichiarato più volte pure lui, l’ultima volta nel marzo del 2019 in un’intervista rilasciata a un sito inglese: «Anche se in questi anni ho lavorato per gli altri, ho visto che i miei progressi a cronometro e in salita non fanno che avallare la mia tesi, che poi è il mio sogno più grande: vincere il Tour de France. Come c’è riuscito Thomas, ci potrei riuscire anche io».

Di sicuro ciò che non è mai mancato al corridore polacco è l’ambizione di poter essere il numero uno andando oltre i limiti, sin dalle categorie giovanili, quando a volte riusciva a battere Peter Sagan. Ma di questo ne parleremo più avanti.

L’esordio al Tour de France

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Kwiatkowski alla Boucle esordisce quasi col botto. Nel 2013 e a poco più di ventitré anni chiude undicesimo in classifica generale. Era il primo Tour vinto da Chris Froome, che prese la maglia ad Ax 3 Domaines, conquistando l’arrivo in salita e scavando da subito un solco con gli avversari principali – Quintana, Rodríguez e Contador -, che lo seguirono poi nell’ordine nella classifica generale.

Eugenio Capodacqua, sulle pagine di Repubblica.it, dopo la tappa intitolava il suo pezzo con: “Al Tour de France sono arrivati i marziani“. Alle spalle di Froome, infatti, giunse Richie Porte. Difficile definirlo gregario: il tasmaniano, in cuor suo, conservava ancora la speranza di poter vincere un giorno la grande corsa a tappe francese. Un chiodo fisso che lo accomuna al protagonista della nostra storia. Porte, dopo aver tirato il carro in salita, si permise il lusso di staccare corridori di comprovata fama sulle rampe finali. Ventiquattro ore dopo saltò, uscendo di classifica – un po’ per scelta, un po’ per necessità, un po’ per confermare la sua idiosincrasia con il Tour.

Kwiatkowski, che all’epoca vestiva la maglia della Quick Step, prese paga lungo la salita verso Ax 3 Domaines: ventesimo a oltre tre minuti, ma chiuse davanti a corridori come Andy Schleck, Rolland, Gadret, Dani Moreno, Evans, Pinot. Niente male per un ragazzo di ventitré anni, con un peso non adatto al passo degli scalatori e con caratteristiche più da cacciatore di tappe e classicomane.

Doti mostrate sin dall’inizio di quel Tour. La corsa francese parte, infatti, tra i toboga delle stradine della Corsica, che i romani definivano: “Terra desolata, con una mancanza assoluta di strade percorribili“. Sono passati pur sempre diversi secoli, ma quei posti incutono tuttora un certo timore. Non a Kwiatkowski, corridore abile su tutti i terreni e in ogni situazione: chiude terzo ad Ajaccio e quarto a Calvi. Entrambe le tappe hanno un vincitore a sorpresa: ti aspetti Sagan, ma prima ci pensa Bakelants nella capitale còrsa ad anticipare tutti; e poi Gerrans, nella città che secondo fonti non ufficiali avrebbe dato i natali a Cristoforo Colombo, che beffa lo slovacco al fotofinish grazie al lavoro di Impey.

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Tornando alle scorribande pirenaiche: il giorno dopo lo scotto di Ax 3 Domaines, verso Bagnères de Bigorre, Kwiatkowski giunge terzo, anticipato di poco da due tra i cavalli più pazzi del ciclismo contemporaneo, vale a dire Dan Martin e Jakob Fuglsang. Più avanti ottiene un quinto posto nella crono di Mont Saint-Michel e poi è settimo in quella vallonata di Chorges, un paesino della Provenza famoso per essere stato in epoca preromana un importante insediamento dei Galli Caturigi. “Mercato dei re della guerra“, il nome dai toni fantasy di quella località che esalta Froome come unico dominatore nelle terre francesi e distrugge le ambizioni di Contador.

Siamo alla vigilia di un durissimo trittico alpino e il polacco, sguardo deciso e orecchie da elfo, grazie alle qualità contro il tempo scala il vertice della classifica, consolidandosi tra i migliori dieci della generale, restando poi aggrappato alle posizioni che contavano fino all’undicesimo posto finale. Veste persino la maglia bianca di miglior giovane per dieci giorni e sorprende un po’ tutti, Lefevere compreso: «Non siamo partiti per fare classifica, ma per far conoscere a Michał le strade del Tour de France. Poi ci ha preso gusto e giorno dopo giorno ha mostrato progressi. L’anno prossimo tornerà per fare ancora più sul serio». Era il 2013 e tante cose sarebbero cambiate nel rapporto tra il team manager belga e il corridore polacco.

Esaltarsi nelle corse di un giorno

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Nel 2014 prova lui a fare il marziano. La sua stagione è più diamante che cenere. Vince la classifica finale della Volta ao Algarve dopo aver battuto in salita Rui Costa e Contador e a cronometro Malori e Tony Martin. Alla Strade Bianche la stoccata sulla salita che porta a Piazza del Campo costringe Peter Sagan a inchinarsi. Lo slovacco, in quella strana coppia, sembra essere quello che porta i pantaloni e conduce nel tratto più impegnativo, ma Kwiatkowski rifiata alla sua ruota e quando parte annichilisce il futuro tre volte campione del mondo. «Abbiamo corso come facevamo tra gli juniores: sempre in fuga dagli altri. Per me è una sensazione fantastica essere arrivato al suo livello», racconterà a fine gara.

La primavera lo rivela poi come uno dei più forti corridori al mondo e a soli ventitré anni si ritrova capitano della squadra leader per antonomasia nelle corse di un giorno: arriva quinto all’Amstel Gold Race e terzo sia alla Freccia Vallone che alla Liegi-Bastogne-Liegi. Un po’ di sano attendismo, che anni dopo gli costerà anche qualche accusa dal rivale Sagan, lo porta a giocarsi la volata sul traguardo di Ans: «Sapevo di essere veloce e sul Saint-Nicolas eravamo ancora tanti assieme: perché non giocare le mie carte allo sprint?». Completo, schietto, consapevole. Ora il suo pensiero vira verso l’estate dove, in maglia Omega Pharma-Quick Step, punta tutto sul Tour de France.

Prima della corsa francese c’è ancora modo di far vedere quanto per lui non ci sia nessun terreno sfavorevole. Infatti vince il prologo al Romandia battendo specialisti come Dennis e il compagno di squadra Tony Martin: «Per la prima volta in vita mia sono stato seduto a lungo sul trono del leader in una cronometro», afferma raggiante a fine gara. È la sua ottava vittoria in carriera, la sesta in stagione e ora arriva il Tour de France per rimpinguare un palmarès che corsa dopo corsa inizia ad assumere un’interessante fisionomia. Di sicuro, della sua generazione, Peter Sagan è uno dei pochi a vincere con più regolarità, ma nessuno è capace di farlo su così tanti diversi terreni. Kwiatkowski diventa lo spauracchio di ogni corridore in ogni competizione.

Il Tour del 2014 è quello vinto da Vincenzo Nibali e le cose per il polacco non vanno come sperato, nonostante una prima settimana che lo vede ancora in piena lotta per la classifica. A Sheffield, dove il siciliano si inventa un colpo da finisseur, è terzo alle spalle di Van Avermaet. Verso Arenberg, nella giornata definita “Dantesque” da L’Équipe, guida da veterano sul pavé. Vince Boom e Nibali consolida la sua leadership. Durante la corsa si consumano i drammi sportivi di Contador e Froome, i due grandi favoriti di quella corsa. Si libera spazio ulteriore per poter ambire al podio: Kwiatkowski al termine di quella tappa è quarto, ma quel diamante diverrà cenere sulle prime salite.

Verso Gerardmer si ridimensiona. Il primo arrivo in salita lo respinge e, mentre davanti arriva la fuga, lui cede quasi tre minuti a Nibali e Contador, abbandonando ogni sogno di lottare per la classifica. A fine Tour de France sarà ventottesimo, il suo secondo miglior risultato in carriera in un grande giro. Finirà di nuovo terzo nella classifica dei giovani, stavolta preceduto dai due enfant du pays Pinot e Bardet, ma davanti a un certo Tom Dumoulin, a Ion Izagirre e al connazionale Majka, che di quella corsa fu protagonista assoluto in montagna.

Per chi tira la Polonia?

Un momento della sua carriera rimarrà impresso come il fotogramma del volo di un albatro negli occhi del guardiano del faro: il Mondiale di Ponferrada del 2014. Kwiatkowski, alla vigilia, è nella cerchia allargata dei favoriti, ma l’impressione è che sull’insulso tracciato spagnolo ci possa essere sempre e comunque qualcuno capace di poterlo staccare su una delle due salitelle; oppure, in caso di arrivo di un gruppetto, qualcuno più veloce di lui allo sprint. E allora i favoriti a cinque stelle sono i soliti nomi in voga in quel periodo: Valverde, Gerrans e Sagan su tutti, il Belgio dei soliti Gilbert e Van Avermaet, mentre il campione uscente Rui Costa si appella, come l’Italia, ai santi protettori della corsa dura.

La gara è lineare come annunciato dal percorso; ci pensa la pioggia a provare a rovinare i piani delle squadre dei favoriti e a mettere un po’ di pepe su un piatto insipido. Negli studi Rai, vedendo a un certo punto gli uomini della Polonia a tirare, regna la confusione: «Per chi tira la Polonia?», si domandano; «Per il Belgio di Boonen», la risposta immediata. Per la cronaca, il fuoriclasse di Mol chiuderà al quarantanovesimo posto.

A sette chilometri dall’arrivo, mentre la strada disegna una lunga parabolica e si immette sopra la diga che caratterizza la parte finale – unico momento davvero suggestivo di quel tracciato -, ecco spuntare una maglia biancorossa indossata da un corridore facilmente riconoscibile grazie a una delle fisionomie più caratteristiche del gruppo: elegante, ben disteso sulla sua bici, affronta quella svolta resa ancora più complicata dalla pioggia con la stessa naturalezza di un pesce nell’oceano. È Michał Kwiatkowski, che in un attimo si riporta su un quartetto che sembrava iniziare a sognare qualcosa di importante: De Marchi, Kiryienka, Andersen e Gautier, i nomi dei protagonisti di quell’azione.

Kwiatkowski non è solo veloce se lo porti in uno sprint al termine di una corsa dura, non è soltanto capace di difendersi in salita o sul ciottolato, di superare di gran lena lo sterrato o di battere i più forti al mondo nelle cronometro: Kwiatkowski sa essere anche letale nella lettura della corsa, nel cogliere il momento, un predatore ben nascosto capace di scovare la sua vittima al primo movimento. Se ieri è attendista perché sa che l’unico modo di giocarsi la Liegi è nascondersi, centellinare ogni sforzo e poi giocarsi lo sprint, oggi sa che, se le nazionali più forti aspetteranno Gilbert o Valverde, anticipare potrebbe rivelarsi l’arma vincente.

E così il suo naso fiuta da dove arriva il vento giusto: dietro, l’Italia aveva provato a indurire per l’ennesima volta le gambe dei più veloci, nella prima salita del circuito denominata Confederación, uno stradone largo largo che tira leggermente all’insù. Il tutto nella speranza di favorire i proprio capitani. Una volta scollinato, però, spunta la sagoma dell’elfo polacco, che successivamente aggancia il quartetto nei pressi della diga e sullo strappo finale se ne va.

C’è una discesa che, come ricorda Cassani, «non è tecnica, in pratica non serve nemmeno toccare i freni». E Kwiatkowski mantiene un esiguo vantaggio nel ripido tratto in contropendenza che segue lo strappo di Mirador fino al rettilineo finale. Esulta, meritandosi il fotogramma da vincitore, mentre da dietro gli altri si lanciano a testa in giù per conquistare le altre due medaglie e gli arrivano vicinissimi. Calcolo riuscito alla perfezione. Kwiatkowski diventa il campione del mondo più giovane dai tempi del primo sigillo di Freire nel 1999.

Dal 2015 al 2018: a ogni stagione corrisponde almeno un successo importante

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Michał Kwiatkowski ha conquistato, fino a oggi, ventisette vittorie. Se escludiamo il suo primo anno in maglia Caja Rural nel 2010 e il suo esordio nel World Tour in maglia RadioShack nel 2011, tra 2012 e 2018 ha colto almeno un successo a stagione. Ha iniziato nel 2012, vincendo il prologo di una piccola corsa a tappe in Belgio, e ha finito nel 2018, dove ha conquistato due tappe e la classifica finale del Giro di Polonia. In mezzo ha vinto sempre a modo suo – poco o molto dipende dai punti di vista, sicuramente tanti sono stati i successi di qualità.

Nel 2015 veste per l’ultima volta la maglia della Quick Step, che per quella stagione avrà come sponsor principale Etixx. Lui in realtà la ricopre con la livrea più ambita da ogni ciclista e con la quale si farà un’altra foto da collezione che andrà ad appendere vicina a quella di Ponferrada.

Vince solamente due volte, ma che vittorie. Prologo alla Parigi-Nizza, a dimostrare che resta sempre uno dei più forti a cronometro, precedendo di pochi centesimi Dennis, all’epoca detentore del Record dell’Ora, e di sette secondi Tony Martin.

A fine corsa sarà secondo in classifica generale, battuto solo da quel corridore che in quei giorni era considerato il più forte al mondo nelle brevi corse a tappe: Richie Porte. Veste la maglia di leader per due tappe e quella bianca di miglior giovane fino alla fine, perché anche se parliamo di un campione del mondo non va dimenticata la sua giovane età.

«Sono soddisfatto del mio percorso di crescita sin qui. Ora punto tutto sulle classiche, ma poi ci saranno Tour de France e Mondiale di Richmond: non devo avere fretta di conquistare tutto e subito o di migliorare anche dove mi manca qualcosa». Le sue parole a fine corsa spiegano come la sua stagione, in un modo o nell’altro, abbia sempre il mirino sul Tour de France. Un’ossessione che nel giro di qualche anno seguirà un moto ondoso, che porterà risultati incoraggianti e premi come miglior uomo squadra ma che, allo stesso tempo, ne eroderanno l’anima e il corpo.

Strappi e sudore

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«Sto sudando, respirando, fissando, pensando ed affondando in profondità. Sembra quasi di nuotare. Il sole è ardentemente caldo oggi sul cacciatore e il pescatore. Sto provando a ricordare quando, ma mi fa venire le vertigini».

Mancano pochi chilometri al traguardo di Valkenburg. Una strofa di Sweat dei Tool ci viene in soccorso per esprimere le sensazioni di Kwiatkowski. Gilbert, dopo aver fatto scatenare Hermans sulle soleggiate prime rampe del Cauberg, parte al contrattacco e il solo Matthews resiste alle rasoiate dell’ex campione del mondo.

Kwiatkowski, una volta superato lo strappo, si accoda a Valverde che lo doppia a una velocità che sembra appartenere a un altro sport. “Kwiato” è scosso, scuote il capo. Il suo appare l’inconfondibile gesto di un pugile alla corda. Intontito, fa su e giù con la testa, guarda la canna, poi davanti a sé, poi di nuovo la pipa, poi il ciclocomputer: i suoi non sono cenni studiati, ma appaiono mandati a memoria dall’eccessivo sforzo mentale e muscolare. «Avevo preso la salita troppo indietro», dirà al termine della sua fatica.

E allora mette in campo l’esperienza, dopo lo smacco subito nel 2014 su questo stesso finale. Dodici mesi prima, infatti, mentre il Cauberg si inaspriva, attaccò Samu Sánchez. Kwiatkowski rispose e poi si mise davanti a scandire un ritmo alto che sfilacciò ulteriormente il gruppo; subito dopo scattò Gerrans. “Kwiato” chiuse di nuovo per primo; al terzo tiro, quello di Gilbert, il polacco non poté che far entrare la palla in rete senza opporre resistenza. Tradotto: le sue gambe avevano prodotto uno sforzo superiore, la sua testa non riusciva più a comandarle e si sfilò.

Scollinò con qualche centinaio di metri di distanza, mentre Gilbert si involava verso il suo terzo successo in questa corsa, e lui arrivò quinto, battuto allo sprint anche da Gerrans e Valverde, che poi giustizierà con il fare di un vendicatore pochi mesi più tardi al Mondiale.

Ora, invece, mentre si forma un gruppetto di una ventina di corridori che si va a giocare il successo, si accuccia buono buono, non dà cambi; ha imparato dai suoi errori: diventa opportunista. C’è la possibilità di farlo. La sua maglia è inconfondibile, è vero, ma davanti c’è chi ha la stessa smania di vincere, in mezzo a ruote impazzite che stridono da tutte le parti come in un quadro simbolista.

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Sulla carta, ancora una volta come in altre circostanze, c’è qualcuno che parte favorito rispetto a lui in uno sprint ristretto. Nordhaug lancia, lunghissimo, una volata che mai e poi mai lo avrebbe visto vincitore; Van Avermaet ignora il suo compagno di squadra Gilbert e risponde alla chiamata; a centro strada, però, è la maglia bianca di Kwiatkowski – lanciato con le spalle sul manubrio non si distingue il cerchio iridato – ad avere qualche metro di vantaggio e a bucare il traguardo per primo: una puntura di spillo che si tramuta in coltellata per tutti i suoi avversari.

Talmente tanta la gioia che per esultare scuote la bici e per un attimo sembra possa addirittura cadere. Valverde, secondo, lo guarda quasi incredulo. La sua rimonta si è infranta contro il ventiquattrenne polacco e sono due, dopo il Mondiale di Ponferrada, le volte in cui Kwiatkowski è il più forte, veloce, abile, lesto, furbo. «L’esperienza è tutto in gare come queste e oggi ho sfruttato gli errori commessi in passato: lo scorso anno ho capito che devi imparare a gestirti su una salita come il Cauberg, e al termine di duecentocinquanta chilometri di corsa e già prima della corsa sapevo che velocità avrei dovuto tenere in salita per avere ancora energie nel finale».

Kwiatkowski impara, migliora, guarda indietro per leggere meglio ciò che gli si pone davanti; fa dell’intelligenza tattica la sua arma migliore e nonostante i soli ventiquattro anni potrebbe tranquillamente essere generale in una grande guerra. Le sue capacità di leggere i vari momenti sarebbero la fortuna per interi battaglioni.

Kwiatkowski contro Lefevere

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Generali e comandanti, si diceva. Quando sopra di te decide uno come Lefevere, le cose si possono fare complicate. Il team manager della Quick Step dichiara, pochi giorni dopo quel successo: «Kwiatkowski è troppo pesante per pensare di vincere un Grande Giro»: una bella iniezione di fiducia in vista del Tour de France, dove Kwiatkowski vorrebbe dividere i gradi di capitano con Rigoberto Urán. Un commento in controtendenza con quanto detto dopo la Boucle dell’anno precedente.

E le azioni di quel Tour, difatti, sono in ribasso sin da subito. Nonostante i connotati da corridore belga e le parole del suo team manager, Kwiatkowski vuole lottare per fare classifica. La partenza dall’Olanda e poi l’attraversamento del Belgio, però, lo respingono. Al termine della quarta tappa, la prima in territorio francese, il polacco è già in ritardo di quasi dieci minuti in classifica, dopo aver perso terreno anche nella frazione con arrivo a Huy tagliata perfettamente per le sue caratteristiche.

Non c’è serenità nella sua testa né fluidità nella pedalata. Le notizie di un divorzio dalla Quick Step lo colpiscono: «Circolano di continuo voci che sostengono che a fine stagione lascerò questa squadra, ma io non ci voglio pensare, voglio mantenere la calma e pedalare. È vero, ho ricevuto un’offerta dal Team Sky, ma vorrei restare qui. La decisione, però, spetta a Lefevere», racconta durante i primi giorni di Tour.

La sua campagna francese durerà diciassette tappe. Si ritira il 22 luglio nella frazione di Pra Loup, Alta Provenza, prima di affrontare la penultima salita di giornata, il Col d’Allos. Aveva provato ad andare in fuga in compagnia di Urán, ma le sue gambe non volevano proprio saperne di girare per il verso giusto. Ormai in ritardo e staccato, si siede sul ciglio della strada per un attimo, pensieroso, prima di salire in ammiraglia: sarà la sua ultima Boucle con la squadra belga. «È la giornata più nera della mia carriera: ritirarmi al Tour de France, la corsa che più amo, e in maglia iridata. Come volete che mi senta?».

Lungo la discesa del Col d’Allos, intanto, si registrava il dramma sportivo di Contador: «La ruota si è bloccata e non ho potuto evitare la caduta. Una brutta giornata per me». Lo spagnolo, che poche settimane prima aveva conquistato il Giro d’Italia, sognava l’accoppiata con il Tour, ma ancora una volta le strade francesi lo avrebbero respinto. I minuti persi quel giorno gli costeranno anche il podio finale.

Non sappiamo quanto il peso delle parole possa avere influenzato il ritiro di Kwiatkowski, ma persino noi siamo in grado di poterlo immaginare. Giusto ventiquattr’ore prima, nel giorno di riposo, il grande capo della squadra belga annuncia ai microfoni di Sporza che a fine stagione Kwiatkowski avrebbe lasciato la Quick Step: «Kwiatkowski è arrabbiato con me perché gli ho detto di lasciare perdere l’idea di fare classifica al Tour. Lui ha la possibilità di vincere tutte le corse di un giorno, indistintamente, ma si è messo in testa di voler lottare per la maglia gialla. È vero, è arrivato undicesimo due anni fa, ma avete idea di come fosse ridotto alla fine di quella corsa? Un corridore è come una macchina: puoi avere un gran motore, ma devi capire anche il tuo corpo. Lui è troppo pesante per pensare di impensierire gli scalatori: uno come Quintana lo staccherà sempre».

Il Team Sky e un nuovo capitolo nella rivalità con Sagan

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A fine 2015 Kwiatkowski lascia la Quick Step e dal 2016 diventa un corridore del Team Sky. Il suo numero di successi, intanto, è fermo a quota tredici e l’ultimo resta quello all’Amstel Gold Race. La decisione di andare a correre con i britannici è comprensibile: oltre a uno stipendio importante, Kwiatkowski avrà la possibilità di correre come capitano nelle corse di un giorno, dove il Team Sky nonostante il budget e la rosa a disposizione non ha ancora sfatato il tabù vittoria in una delle cinque Monumento, e nel frattempo potrà imparare dai migliori come si vince un Tour de France.

«Come corridore da classiche lo conosciamo, quello che ci incuriosisce è vedere i suoi progressi nelle gare a tappe», dice a inizio stagione Brailsford. Intanto Kwiatkowski lancia messaggi chiari contro Lefevere: «Qui posso migliorare e imparare da corridori come Froome; e di sicuro mi sento già da ora più supportato di quanto non lo fossi con la Quick Step».

E intanto, in un test a inizio stagione con la nuova squadra, si segnala come lui sia l’unico a tenere Froome dopo un’accelerazione in salita: l’amore platonico tra Team Sky, grandi giri e Kwiatkowski sembra poter sbocciare in un ménage à trois.

L’esordio con la nuova maglia si fa subito interessante: due secondi posti in altrettante prove della Challenge Mallorca. Nella prima vince la volata di un gruppetto anticipato da Cancellara, mentre il giorno dopo sorte simile con la differenza che a vincere non è la Locomotiva di Berna, ma il lombardo-veneto Brambilla. Tutto fila più o meno liscio in chiave corse del Nord. Più o meno, perché deve saltare la Volta ao Algarve per un problema fisico, mentre alla Tirreno-Adriatico sfiora il successo nella penultima tappa dopo una fuga con alcuni fra i suoi maggiori rivali per le corse di un giorno.

Alla Milano-Sanremo ottiene il suo miglior risultato su quattro partecipazioni: dopo due ritiri e un sessantasettesimo posto quando correva con la Quick Step, è quarantesimo. Il risultato di certo non lo soddisfa, ma serve per prendere le misure e capire a che punto si trova in vista delle corse che lo vedranno impegnato al Nord.

Pochi giorni dopo ad Harelbeke va in scena un nuovo capitolo della rivalità con Peter Sagan, ed è giunta l’ora di fare un passo indietro. Si legge spesso come Sagan e Kwiatkowski siano amici e rivali. Che siano amici in realtà è tutto da provare, che siano rivali invece…

Lo slovacco, nella sua biografia intitolata “My World“, lo cita spesso. Lo definisce “il mio coetaneo” quando lo chiama in soccorso per ricordare alcuni episodi delle gare giovanili che disputavano nell’est Europa: “La squadra polacca arrivava con le bici e i kit coordinati e tutto il resto, e poi arrivavo io e scendevo dal sedile posteriore di mio padre con le ruote della bici incastrate tra le gambe e gli scarpini infilati sotto il sedile del passeggero“; oppure “il mio antico rivale” per descrivere la più grande beffa subita da Sagan nella sua carriera da professionista: la volata persa nella Milano-Sanremo del 2017.

Sagan e Kwiatkowski sono due corridori che hanno fatto, in questi anni, la storia delle proprie nazioni. Hanno battuto record su record: primo polacco e primo slovacco a conquistare l’iride, primo polacco e primo slovacco a vincere una classica monumento. Hanno spostato in alto l’asticella per due nazioni fino a quel momento poco avvezze a frequentare i piani alti del ciclismo professionistico.

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Quello che una volta si poteva definire un mondo a parte, povero, come raccontato da Sagan, e con pochi talenti capaci di arrivare ai massimi livelli, ora grazie alla breccia dei due diventa una presenza costante negli albi d’oro di alcune fra le corse più importanti del mondo.

La loro rivalità inizia quando si sfidavano ancora quattordicenni: “Avendo la stessa età e correndo da ragazzini fino alla categoria juniores rispettivamente in Polonia e in Slovacchia, ci conosciamo bene a vicenda. Spesso i nostri stili sono stati messi a confronto e immagino che visti da fuori abbiamo caratteristiche analoghe, riconducibili perlopiù alla nostra capacità di competere in diversi tipi di corsa e in varie condizioni“, racconta nel suo libro Peter Sagan, nel capitolo dedicato al Giro delle Fiandre del 2016 vinto proprio dallo slovacco in maglia iridata. Sagan, quella volta, vedendo Kwiatkoswki muoversi, capì che era arrivato il momento di fare sul serio.

Ma pochi giorni prima di quel successo, Kwiatkowski irride il suo rivale in uno sprint a due ad Harelbeke, nella corsa denominata quella volta E3 Harelbeke. Usa l’astuzia, oltre che la forza, proprio come un anno dopo sul traguardo della Sanremo e proprio come fece nel 2007 in una corsa tra ragazzini in Polonia, quando lo sprint a due premiò il corridore con la K: “Molti pensano che Sagan sia di un altro pianeta, ma io so come batterlo“. E difatti.

All’E3 Harelbeke Kwiatkowski imposta una lunghissima volata, di potenza, anticipando Sagan ai trecento metri e provando un gusto doppio nel vederlo arrivare dopo di lui: Peter Sagan porta l’abito che fino a pochi mesi prima vestiva il polacco. «So quanto pesa indossare la maglia di campione del mondo», dice beffardo a fine corsa Kwiatkowski; e poi confessa in una guerra dialettica che vivrà un nuovo capitolo la stagione successiva: «Sono partito lung perché so che lui si aspettava che io lo aspettassi, e così l’ho fregato anticipandolo».

“Kwiato” conosce bene il suo rivale. Sin troppo. E quasi un anno dopo si compie quella che è ancora oggi la sconfitta che più brucia allo slovacco. La butta sulla psicologia, è un fine stratega e gli anni passati in gruppo non fanno che acuire questa caratteristica. Insistendo sul vestiario del campione del mondo afferma: «Di sicuro la maglia che indossa gli mette pressione, tutti si aspettano che sia lui a vincere». E alla Sanremo gioca, quasi sadico, con la mente del suo avversario. Sul traguardo di quella corsa regalerà uno dei fotogrammi più memorabili del secondo decennio degli anni duemila.

Dopo il Poggio restano in tre: loro due più Alaphilippe. Negli ultimi minuti “Kwiato” si accuccia alla ruota di Sagan, sul finale lascia uno spazio di qualche centimetro tra la ruota posteriore dell’avversario e la sua anteriore, e non appena lo slovacco se ne accorge gioca d’anticipo. “Kwiato” prende la rincorsa, gli sta in scia e poi sul traguardo lo batte di pochi millimetri.

La lucidità del polacco nel commentare il suo sprint: «Ero sicuro che Sagan avesse un’accelerazione migliore. D’altronde, lui è più forte di quasi chiunque altro in volata e allora ho agito d’astuzia. Ho impostato la volata come se fossimo in pista. Lui è partito, io sono rimasto rilassato, ho fatto la mia volata e gli sono piombato addosso sul traguardo a una velocità maggiore».

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Naturalmente Peter Sagan dedica un capitolo del suo libro anche alla Milano-Sanremo 2017, definendo quel finale “la madre di tutte le volate“.

Dopo il Poggio credevo che il più fosse fatto, quando quel mio fastidioso rivale polacco, il buon vecchio Kwiato, con la sua maglia Sky dal collo e dalle maniche iridate, spunta alle mie spalle e con lui c’era pure Alaphilippe. Insomma, cosa deve fare un uomo, per vincere quella gara? Correre più veloce di loro, immagino. Fra tutti e tre ci controllavamo a vicenda, perché ci stavamo giocando la gara. A ripensarci, credo di aver tirato troppo e quando entrammo in città e mi aspettavo che l’uno o l’altro mi dessero il cambio, loro in realtà stavano già preparando la volata“. E fu così.

Ancora oggi deve arrivare il momento in cui lo slovacco possa trovare la vittoria sul traguardo della Milano-Sanremo, in modo da raggiungere una sorta di catarsi. Le sue dichiarazioni fanno capire quanto bruci quell’esito anche a distanza di mesi : «Se vincessi la Sanremo come Kwiatkowski, di certo non sarei felice». Questo il suo commento un anno dopo alla vigilia della Sanremo del 2018. «Essere intelligenti, spesso, paga di più che essere il più forte», la risposta di Kwiatkowski.

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Tra quella vittoria ad Harelbeke nel 2016 e quella alla Milano-Sanremo del 2017, Michał Kwiatkowski vince solo un’altra volta: la Strade Bianche poche settimane prima del trionfo ligure. Chirurgico ancora una volta nello “scegliere” il palcoscenico dove mettere in scena la sua opera vincente.

Stavolta non è Sagan lo sconfitto – o almeno, è uno dei tanti. Lo slovacco si ritirerà al termine di una giornata complicata non solo dal sempre spettacolare percorso, ma anche da pioggia, vento, cadute e incidenti meccanici. E in mezzo a questa trama da ciclismo di una volta, spunta un corridore che anno dopo anno si ritaglia uno dei palmarès più unici del ciclismo contemporaneo, che fanno però da contraltare ad alcune débâcle difficilmente interpretabili. Ma Michał Kwiatowski è anche, o forse soprattutto, questo tipo di corridore.

La mafia polacca

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Quando nel 2017 Łukasz Wiśniowski si accasa con il team Sky, una cittadina della Polonia ottiene un singolare record. Tre corridori provenienti dallo stesso paese, Toruń, vestono la maglia del Team Sky: Kwiatkowski, Gołaś e Wiśniowski.

Rouleur definisce  la presenza dei tre corridori polacchi – più quella dei massaggiatori Marek Sawicki e Jacek Walczak – la “Polish Mafia“. Niente di offensivo, sia chiaro, un gioco di parole con il quale raccontare qualche curiosità attorno ai tre ragazzi di Turonia, duecentomila abitanti nel centro nord della Polonia.

I tre sono amici fraterni. Si danno una mano l’uno con l’altro. Per Kwiatkowski, Gołaś è una specie di santino di quelli che una volta si attaccavano sul cruscotto dell’auto. «È quello di cui ho bisogno. La sua esperienza mi aiuta nei momenti difficili e lui è sempre al mio fianco per sostenermi: mi guarda e mi protegge sempre, non solo in gruppo ma anche fuori dalle gare». I due hanno sempre corso fianco a fianco sin dal 2012 in maglia Quick Step, sono passati assieme al Team Sky nel 2015 e resteranno in maglia INEOS ancora per questa stagione, poi si vedrà.

Gołaś e Wiśniowski gli sanno dare i consigli giusti, ma non solo: per loro Kwiatkowski è uno stimolo a crescere ulteriormente come uomini e come ciclisti. La loro sinergia dentro al ciclismo dura da anni: «Ci alleniamo assieme da una vita». E si riflette anche in altri progetti, come la “Copernicus Academy”, la scuola di ciclismo di Kwiatkowski, che ovviamente ha sede a Toruń e nella quale tutti e tre sono chiamati a dare una mano. Oppure quando insieme vanno a testare una Skoda Fabia da rally per capire la differenza che c’è tra l’adrenalina di una corsa in auto e una in bici. «Un’esperienza incredibile», ricorda Kwiato. «Un secondo qui dentro vale una gara intera in bicicletta».

Anche i risultati in maglia Sky sono adrenalina, ma non rispecchiano ciò che era nei loro pensieri. Wiśniowski, dopo due stagioni, non è mai riuscito ad ottenere un successo, tanto da lasciare la squadra e sposare il progetto del primo team polacco nel World Tour, nonostante nel 2018 arrivino i suoi migliori risultati nelle gare per le quali è maggiormente portato: «Sono uomo da classiche e conto di poter fare grandi cose con questa squadra», dice all’inizio del suo biennio con la squadra di Brailsford. Il secondo posto alla Omloop Het Nieuwsblad e l’ottavo alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne saranno però un fuoco di paglia.

Gołaś invece è un gregario, oltre a essere un fedelissimo dell’ex campione del mondo. Vorrebbe partecipare anche lui alle scorpacciate in terra di Francia del Team Sky, ma in quattro anni non verrà mai convocato per supportare i suoi capitani al Tour.

I Tour in maglia Sky

©Michał Kwiatkowski, Twitter

Nel 2016, primo anno in Sky, non basta la vittoria ad Harelbeke per meritarsi la chiamata al Tour. Sei ritiri – compreso quello all’Amstel, di cui è campione uscente – in cinquantasei giorni di corsa stridono per uno dei corridori più tenaci e versatili del gruppo, capace di primeggiare nelle brevi corse a tappe e di stare davanti sui muri in pietre e nelle gare vallonate, capace di esaltarsi sotto la pioggia e di dare un contributo importante anche sulle lunghe salite. La sua condizione è minata da una fastidiosa laringite che si porta appresso per tutta la primavera e il suo rendimento porta alla decisione di lasciarlo a casa dal Tour.

«Ero troppo motivato, avevo troppa voglia di mettermi in mostra sin da subito, volevo impressionare e ho strafatto: già a gennaio ero avanti con la condizione», sostiene Kwiatkowski analizzando la sua prima annata con i britannici.

Il 2017 lo abbiamo descritto come l’anno in cui fece tremare nuovamente la terra sotto le sue ruote: primo alla Strade Bianche, primo alla Milano-Sanremo e poi tirato a puntino per fare nuovamente ritorno al Tour. A giugno vince il campionato nazionale polacco a cronometro, tre anni dopo il suo primo successo, e punta a dare il suo contributo sulle strade di Francia, dove Froome non vuole mancare l’appuntamento con il quarto successo in cinque anni.

È un altro “Kwiato” in quella stagione, anche dal punto di vista mentale. A gennaio parla per la prima volta di sé dopo tanto tempo: «Sono pronto per il rock, ho passato un inverno rilassato in compagnia della mia ragazza e ho deciso di partire più piano rispetto alla stagione precedente». Che fosse un lettore di situazioni si era capito ed è così che trasforma il secondo anno con il Team Sky nel momento migliore della sua carriera.

©Michał Kwiatkowski, Twitter

In squadra lo chiamano “tuttofare” proprio perché non c’è un ambito in cui lui non riesca a ritagliarsi il suo spazio. Non vuole essere semplicemente il domestico di Froome – o Thomas e Bernal -, un portaborracce; dà tutto per farsi notare, assimilare i segreti per primeggiare in un grande giro, far vedere a Lefevere che si sbagliava.

Certo, sceglie una buona scuola, ma non di certo il miglior momento storico: in seno alla Sky è impensabile provare a impensierire la leadership di Chris Froome. «Ma se continuo a migliorare mostrandomi competitivo in corse come la Parigi-Nizza, a cronometro e in salita, un giorno ci posso provare anche io», il leitmotiv della sua carriera.

Al Tour de France 2017 inanella prestazioni da lasciare a bocca aperta, non solo a cronometro – sarà secondo il penultimo giorno a Marsiglia a pochi decimi dal connazionale Bodnar – ma anche in salita. Va forte ogni giorno di più, tanto da essere uno dei più forti nell’ultima settimana.

Non è un semplice vagone del treno Sky: ne diventa leader, luogotenente, regista. E difatti se accendevi la televisione in una tappa in pianura ti trovavi davanti Michał Kwiatkowski. Se ti sintonizzavi in montagna, all’inizio o alla fine ti trovavi davanti Michał Kwiatwkowski. Capace di metterne in fila così tanti da far storcere il naso per la noia diversi appassionati costretti a subirsi il monologo Sky in salita per l’ennesimo anno. Persino nel giorno di riposo, sotto una tempesta d’acqua, lo trovavi a guidare il gruppo Sky. E se la squadra aveva bisogno di un corridore per essere pilotato davanti, oppure di una giusta lettura in un momento di corsa particolare, a chi si sarebbe rivolto? Michał Kwiatkowski, un Mr. Wolf oppure uno dei Ghostbuster.

©Michał Kwiatkowski, Twitter

Chris Froome, dopo aver conquistato il suo quarto Tour, ringrazia tutti, altrimenti non sarebbe un leader; ma per il polacco spende parole particolari: «Lui è la definizione esatta di un corridore a tutto tondo e incarna perfettamente lo spirito della nostra squadra». Quella squadra che lo premia come MVP della spedizione francese.

In pochi anni il suo status di corridore è accresciuto. Non solo qualità quando c’è da battere liberamente il campo, non solo flagello di Sagan e corridore dal palmarès praticamente unico: Kwiatkowski è ormai pedina sulla quale contare per ogni tipo di mossa.

E a quel Tour andava così forte che la settimana successiva plana a San Sebastián, aggiungendo un’altra perla alla sua carriera. Nella classica basca, il Team Sky lo vuole premiare per il lavoro fatto in Francia e allora gli mette a disposizione l’intera squadra: Moscon e Nieve lavorano nelle fasi centrali, poi sull’ultima salita Landa fa il forcing decisivo e Kwiatkowski batte un gruppetto di cinque corridori all’arrivo. Il quinto è proprio Landa, che arriva esultando.
Sarà la sua ultima vittoria del 2017, ma farà ancora in tempo a conquistare la quarta medaglia su sei partecipazioni nella cronometro a squadre del mondiale: un oro, un argento e due bronzi, oltre a due quarti posti nel 2016 e nel 2018.

Nel 2018 è l’asso delle brevi corse a tappe

©Michał Kwiatkowski, Twitter

Il 2018 sarà la stagione in cui riuscirà a ottenere il miglior bottino, almeno dal punto di vista quantitativo: nove vittorie, un terzo di quelle totali ottenute dal 2012. Inizia con la seconda tappa della Volta ao Algarve – vincerà anche un’altra tappa e la classifica finale – e chiude con la generale al Giro di Polonia. In mezzo conquista anche la Tirreno-Adriatico, il prologo del Delfinato e domina nuovamente, dopo cinque stagioni, la prova in linea dei campionati polacchi.

Aveva chiesto miglioramenti nelle brevi corse a tappe, conferme in salita e a cronometro: eccolo accontentato. Michał Kwiatkowski diventa ora il possibile piano B nei grandi giri per il Team Sky. La squadra, infatti, vede Froome puntare – e vincere – il Giro d’Italia, con l’ambizione della doppietta più famosa e complicata della storia delle due ruote. E se al Tour restano dubbi intorno alla possibilità del kenyano bianco, e se Thomas dà garanzie ma non è di certo Froome, allora si aprono le porte anche per possibili altre carte: quella del polacco, oramai ventottenne e nel pieno della maturità, è una di quelle col punteggio più alto.

Ma è un Tour di sacrifici, il suo. Un altro. Ancora una volta porta a passeggio il gruppo, lo tira e lo sfila, guida gli individui, ma più che un generale assume i toni del deus ex machina. I compagni lo cercano e lui c’è, leader silenzioso capace di imprimere ritmo e disciplina. Di nuovo, nella cronometro finale prova a dare la sua zampata: alla fine sarà quarto, ma dopo essere stato a lungo seduto sul trono del leader di tappa.

Vincerà il Giro di Polonia, davanti a Simon Yates e Pinot e conquistando due tappe, mentre nella cronometro mondiale di Innsbruck, dopo il quarto posto nella prova a squadre, arriverà una cocente delusione: conclude ai piedi del podio alle spalle di un trio formato da Dennis, Dumoulin e Campenaerts, ovvero il meglio possibile della specialità. Ma qualche settimana prima c’era stata anche l’occasione di testarsi davvero come capitano in una corsa di tre settimane. Alla Vuelta veste la maglia di leader per tre giorni: a Caminito del Rey il solo Valverde lo batte, ad Alfacar tiene ancora botta e mantiene la roja. Poi succede il pasticcio: cade nella tappa di Pozo Alcón, perde trenta secondi e da lì in poi la sua Vuelta sarà una sofferenza.

2019: il suo anno peggiore

©Michał Kwiatkowski, Twitter

Il 2019, invece, è una briglia alla sua ascesa. Durante l’inverno alcune voci lo davano in procinto di passare alla CCC, il nuovo team polacco del World Tour che cerca proprio un leader polacco per ripartire. Lui ha un contratto fino al 2020 e lo rispetta, ma la stagione non sarà all’altezza delle precedenti. Diventa uno dei tanti, ma capiamoci: per qualsiasi corridore arrivare terzo alla Sanremo, terzo alla Parigi-Nizza con la vittoria della maglia verde e poi piazzamenti nei venti tra Amstel, Freccia e Liegi sarebbe stato un filotto di risultati da raccontare ai nipotini. Ma non per lui, abituato a calcare i palcoscenici più importanti con ben altre ambizioni.

E poi arriva il Tour: la sua ambizione, la sua ossessione. Ancora una volta vince un suo compagno di squadra, sono tre su tre, ma non è il Kwiatkowski delle due precedenti edizioni. Dopo una buona prima parte di corsa si sente in ginocchio, ha perso il gusto di andare in bici e nemmeno la maglia di leader vestita da Bernal riesce a dare motivazioni a quelle gambe che non volevano sapere di girare: «Un conto è lottare a fine tappa con i migliori, essere lì davanti; un altro è staccarsi subito e lottare nel gruppetto per arrivare al traguardo».

La sua è una corsa di sopravvivenza, tanto da sentirsi così stanco e decidere di saltare il Giro di Polonia e il Mondiale. «Ho pianto per non aver potuto difendere la maglia della nazionale», dirà poi. Prenderà parte a otto gare dopo la Boucle, con due ritiri e con il cinquantacinquesimo posto alla Sparkassen Münsterland come miglior risultato. La sua stagione si era chiusa in Francia.

©Michał Kwiatkowski, Twitter

Kwiatkowski, in questo 2020, dovrebbe ripartire dai primi di febbraio. Scalpita, sono passati quasi sette mesi dal Tour de France, dopo un periodo per lui ricco di novità – come il matrimonio – e durante il quale ha cercato di ricaricarsi verso una stagione che verosimilmente sarà incentrata su tre obiettivi: «Ardenne, Tour de France, ma soprattutto Giochi olimpici. Se uscirò dal Tour come nel 2017 e nel 2018, avrò le mie chance per giocarmi il titolo».

Kwiatkowski spera di ritornare quel corridore versatile e vincente al punto giusto, e non ha nessuna voglia di essere ricordato come uno dei tanti del gruppo, come un corridore in parabola discendente. Ora che va verso i trent’anni – per alcuni l’età della maturità – ha ancora tanto da dire, tanto da raccontare. Noi ci fermiamo qui, invece, con un chiodo fisso. Quello di non doverci chiedere ancora cosa sta succedendo a Michał Kwiatkowski.

 

 

Foto in evidenza: ©Emanuela Sartorio

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.