È ancora possibile resistere ai piani alti ed essere persone piacevolmente normali.
Luciano Rui dice che nella storia della Zalf, in quanto a cocciutaggine, subito dopo Maurizio Fondriest c’è Domenico Pozzovivo. Era piccolo e minuto, ma c’era tutto già allora. Si allenava sui rulli, si preparava le borracce con i sali, andava a visionare i percorsi. Ogni allenamento era sacro, così come mettersi sui libri a studiare a doccia finita. Ci teneva, alla laurea in Economia Aziendale. Ogni tanto scendeva a Roma per dare gli esami. Luciano Rui lo punzecchiava: guarda che prima o poi un esame ti andrà male, è naturale. Successe: mi hanno dato ventinove invece di trenta, disse Pozzovivo una volta a telefono.
Il lucano si laureò il 14 aprile 2010 all’Università Telematica Marconi di Roma. Finalmente, pensò, niente più lezioni da seguire con le cassette. Tesi sulle “Politiche meridionalistiche dall’unità d’Italia ai giorni nostri”, “perché del meridione si parla sempre troppo poco”: novantanove come valutazione finale e chi s’è visto s’è visto. A tesi appena discussa, però, Pozzovivo si dileguò. Come spesso succede ai ciclisti non di prima fascia, non li riconosce praticamente nessuno. Ma dove scappa questo?, si chiedevano. “Vado sul Terminillo”, spiegò lui. A fare cosa? “A provarlo, assaggiarlo, scalarlo. Sono un ciclista professionista, lo dovrò affrontare al prossimo Giro d’Italia”.
Pozzovivo al Giro d’Italia potrebbe tranquillamente essere il titolo di un romanzo a puntate ospitato da un quotidiano locale. Ventuno racconti all’anno (sono esclusi eventuali incidenti di percorso che possono sfoltire e accorciare la trama) concentrati nel mese di maggio. Succede di tutto: attacchi e ritirate, dialoghi e affronti, furbizia e coraggio, noia e trambusto, treni presi e treni persi. Il momento più difficile arriva al terzo scritto della nona edizione. Una caduta in un tratto di discesa dell’entroterra ligure, l’asfalto chiazzato di sangue, il volto tumefatto. Dupont, fido compagno francese, che si ferma e chiama subito rinforzi. Un gregario non si ferma mai, nemmeno in situazioni del genere: dev’essere grave e infatti lo è. Pozzovivo non recupererà mai quegli attimi, tre o quattro minuti di buco durante i quali lui non era partecipe della propria realtà. A trentatré anni sembrava arrivato al capolinea, invece prese in prestito le parole che Franco Califano ha fatto incidere sulla sua tomba: non escludo il ritorno. Pozzovivo è tornato, cogliendo i migliori risultati della sua carriera.
Pozzovivo pedala in costante equilibrio sul filo del rasoio, in bilico tra chi ne applaude la costanza, la caparbietà e la longevità e chi invece gli imputa una scarsa attitudine alla vittoria. Domenico Pozzovivo, da appassionato e competente meteorologo, è consapevole dell’aria che tira e ha tutto sotto controllo. Vorrebbe vincere di più ma non è il solo, d’altronde non c’è solo il ciclismo ma anche una famiglia e la seconda laurea in Scienze Motorie da prendere. Deve necessariamente convivere con questo cruccio, insomma. Come fa già con l’altezza che ha e quella che gli manca, quella che spinse il padre Leonardo a mettere il figlio su una bici, il calcio non faceva per Domenico: perché è vero che l’altezza nel pallone è relativa ma nella bici ancora di più. Viene da una famiglia che deve tutto alla terra, Pozzovivo: la strada e la terra vanno d’accordo, sono accomunate dagli stessi principi. Chi conosce il lucano sa che l’altezza non rappresenta per lui un grosso problema. “Mi accontenterei di qualche centimetro in più per guardare gli altri negli occhi, da pari a pari”, raccontò in un’intervista a La Stampa del 2012. E se fossero tutti gli altri a dover abbassare lo sguardo?
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