Sam Bennett è uno dei velocisti più forti degli ultimi anni.

 

 

Quando Sam Bennett vide per la prima volta l’Irlanda era alto poco meno dello sgabello di un pub. The irishman, infatti, a dispetto del banale soprannome e della maglia da campione nazionale irlandese era nato e aveva vissuto i primi quattro anni della sua vita in Belgio, dove suo padre Michael difendeva, in modo brillante, i colori di una piccola squadra di calcio locale.

A casa Bennett non si faceva che parlare di sport: era pudding servito a colazione, fiumi di birra al pub, la cena pronta sul tavolo. Lo si infilava in ogni discorso come una cadenza verbale: fossero tattiche, sfaccettature di ogni genere, psicologia, preparazione. Si preferiva parlare di calcio, ciclismo e motori, piuttosto che politica, asset mondiali o di quale birra fosse migliore, se l’irlandese o la belga.

Essere nati a Wervik, nel cuore delle Fiandre, ed essere andati a vivere successivamente a Carrick-on-Suir, vicino Waterford, da dove arriva anche Sean Kelly e dove sorge anche un centro sportivo a suo nome, non fece poi che acuire, nel giovane Bennett, i sintomi dello sportivo.

©Emanuela Sartorio

Sam Bennett, però, almeno inizialmente, non era così propenso a diventare un atleta. Sviluppava anticorpi che gli lasciavano addosso un senso di stanchezza o forse era solo un po’ di pigrizia giovanile. Timido, preferiva starsene chiuso nella sua stanza tutto il pomeriggio a giocare con la PlayStation; muoveva veloce i pollici sul controller e non avrebbe mai immaginato di entrare, un giorno, nella storia del suo paese, agitando in tutta fretta le gambe in mezzo ad artisti dello sprint.

Sam Bennett, all’apparenza, non è un predestinato. Non ha movenze da felino, fisicamente è un ragazzo normale – come potrebbe essere normale un qualsiasi velocista. Non è alto da far paura, né così grosso che forse faresti meglio a girargli a largo; non sembra nemmeno avere la scaltrezza o la rapidità di quelli piccoli e compatti. Se provassimo però a ribaltare il punto di vista, in quel metro e ottanta scarso di corridore troveremmo un po’ tutto ciò che rende vincente uno sprinter.

«Se metti due ragazzi su un rettilineo con il traguardo a cinquecento metri e gli dici di partire, state pur certi che Bennett vincerà sempre», racconta oggi il suo allenatore e mentore Martin O’Loughlin. Quando Bennett si presentò da lui ancora quindicenne, la prima cosa che gli disse fu: «Non sono un velocista». In poco tempo O’Loughlin glielo insegna. «Mi ricordo la seconda uscita come se fosse ieri. Simulammo una volata: gli diedi dieci metri di vantaggio, ma lui andava così forte che bruciò persino il copertone anteriore. Alla fine di quella giornata fu lui a darmi quaranta metri di distacco».

©Lorraine O’Sullivan

E le soddisfazioni arrivano. L’idea che di quel ragazzo se ne potesse fare un buon corridore si faceva forza in mezzo alle prime corse irlandesi. A diciotto anni diventa il più giovane vincitore di una tappa dell’An Rás, la più popolare corsa a tappe irlandese, dove prende dimestichezza con quel vento che sembra sferrare pugni a ogni metro. Impara a gestire le forze e a muoversi in quei tracciati insidiosi da non lasciarti mai rifiatare. Corre per la An Post Sean Kelly e tra i battuti c’è una vecchia conoscenza delle volate: Jan Kirsipuu, all’epoca quarantaquattrenne.

È la prima volta che affronta una corsa così lunga, e vince davanti alla sua famiglia e a sua madre che, nonostante fosse gravemente malata, lo assiste a bordo strada. In quella famiglia, lo sport, come abbiamo raccontato, assume un’importanza che a parole è difficile descrivere.

Bennett, forte di quel successo, capisce come dentro di lui ci sia del talento. Che sportivo doveva essere e allora sportivo sarà, consapevole che le qualità vanno sempre coltivate con il duro lavoro. Va a correre in Francia e si trasferisce a Montecarlo, lontano dall’asprezza luppolata della sua terra di cui, però, va fiero, come ama ribadire in ogni intervista.

Cresce progressivamente come corridore, sviluppando qualità mentali che lo faranno diventare, anni dopo, uno specialista delle volate più complicate. Volate che per riproporle avresti bisogno di un direttore artistico. «Quando Bennett vede il traguardo diventa pazzo, guida la bici come nessuno», O’Loughlin ribadisce il concetto.

@Sam Bennett, Twitter

Nel 2018 completa quel suo lungo viaggio nel segno di Sean Kelly diventando, dopo di lui, il primo ciclista irlandese capace di vincere più di una tappa nella stessa edizione di un grande giro; il primo in assoluto a farlo nella corsa rosa. «Pensate che vincere tre tappe al Giro mi abbia dato popolarità? Niente di tutto ciò, ed è frustrante», racconta sulle colonne di the42.ie. Secondo lui, in Irlanda il ciclismo non ha lo stesso significato che può avere in Germania, Italia o Francia. «Per farmi conoscere dalla mia gente devo vincere una tappa al Tour de France o magari indossare la maglia gialla».

Si costruisce da solo con il supporto del suo allenatore e si fa strada a furia di spallate, successi, ma anche tante delusioni: come un’annata, quella appena trascorsa, ricca di contraddizioni.«Più volte mi hanno chiesto di essere seguito da un mental coach e più volte ho ripetuto la stessa cosa: a casa mia sono tutti matti per lo sport e non si parla d’altro. Conosco tutti i giochetti mentali che servono per affrontare le situazioni in cui ci si ritrova; e poi quando parlo con uno psicologo sportivo mi sembra di avere a che fare con un parente», afferma a un giornale irlandese.

Le stagioni passate in maglia BORA-hansgrohe lo ripagano, sì, ma fino a un certo punto. La sua parabola tocca vette importanti – ironico, per uno che si trova meglio in pianura che in salita – come per esempio le vittorie al Giro 2018. A Imola vince sotto un nubifragio al termine di una corsa su un tracciato complesso; poi a Roma toglie il sorriso a Viviani e prova persino a oscurare Chris Froome. «Non posso ancora credere di essere stato io a vincere tre tappe al Giro e mi chiedo se ne sarò ancora capace in futuro». Rouleur definisce questa sua strana attitudine sindrome dell’impostore.

©El Español, Twitter

Al Tour de France, Bennett non riesce a lasciare un segno: un anno è malato, un altro anno fa fatica, e nella stagione appena trascorsa, nonostante le promesse iniziali, viene lasciato a casa per favorire esclusivamente le volate di Peter Sagan.

Subito dopo aver ricevuto la notizia di quella esclusione, in un’intervista usa il termine gutted per rimarcare le sue sensazioni, qualcosa che in italiano tradurremmo con sventrato, un sentimento di angoscia che lacera dalle viscere. Fu escluso anche dal Giro, poche settimane prima, nonostante risultasse il corridore con più vittorie nella storia della squadra tedesca. Proprio quel team preferì affidarsi a un ragazzo di casa, un altro veloce come il vento, forse più mediatico e all’apparenza solare con quel sorriso un po’ sincero, un po’ costruito: Pascal Ackermann, che ripagò a pieno la fiducia. Bennett mandò giù il boccone e, abituato a dare spallate per emergere, aspetterà la Vuelta di fine stagione per raccogliere i suoi successi in un grande giro, in quell’annata dal sapore un po’ amaro.

E in quell’inizio 2019 andava davvero forte sin da subito: una tappa alla Vuelta San Juan, una all’UAE Tour e due alla Parigi-Nizza; un ventottesimo posto alla Milano-Sanremo, che non è certo un risultato che scriveresti in prima pagina, ma fu una corsa ostica per le ruote veloci e lui arrivò lì lì subito dietro quel gruppo di classicomani che si giocò la vittoria. È vero, c’era chi lo indicava tra i possibili outsider in chiave vittoria, ma andate a vedere come si piazzarono gli altri velocisti, per capire quale peso abbia avuto il suo piazzamento.

Sam Bennett, dopo l’esclusione dal Tour, inizia un contenzioso per separarsi dal team tedesco. Tutto questo gli permette di firmare con la squadra più vincente del pianeta e dalla quale si trova oggi a raccogliere l’eredità di Elia Viviani. «Per me è un sogno essere qui, quando ero bambino avevo il poster in camera della Quick-Step». Abituati alle bugie di altri sportivi in altri contesti, ci prendiamo il rischio di crederci fino a un certo punto.

Il 2020 inizia a suon di vittorie; Bennett fa emergere la maglia da campione irlandese: una striscia verde con un trifoglio in evidenza sull’elegante biancoblu Deceuninck-Quick Step. Si scalda al torpore dell’Australia mettendosi dietro prima Ewan e poi Nizzolo, forse i due velocisti più in palla di questo strano inizio di stagione. In Francia invece rovescia sul tavolo il calice della gloria: nella terza tappa prima sgomita un po’ troppo contro il malcapitato Quintana e poi cade in volata finendo per essere multato dalla giuria, in quella che potrebbe essere, a tutti gli effetti, l’ultima impronta di ciclismo pedalato almeno fino a fine primavera.

Il suo obiettivo principale in stagione diventa ora il Tour de France, anche se lui, non si capisce se per esasperante umiltà o scaramanzia, sostiene: «Forse posso provare a vincere una tappa, ma c’è bisogno di fortuna». Un passo avanti, però, lo ha fatto; anni dopo quella sua prima volata, tra spallate, gomitate, testa bassa e delusioni, almeno ha capito d’essere diventato un velocista.

 

 

Foto in evidenza: ©DH les Sports +, Twitter

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.