Purito, oltre ad essere il suo soprannome, è una dichiarazione d’intenti.

 

 

Nel 2001 non c’erano ancora i social media, altrimenti questa storia la conosceremmo a menadito e non servirebbe ripeterla. La ONCE, la squadra di Manolo Saiz, era in ritiro prestagionale nei pressi di Cadice. Annoverava gente come Azevedo, Olano, Beloki, Sastre: praticamente il meglio del ciclismo iberico di inizio millennio. Quell’anno si era unito alla squadra un ragazzo che non arrivava nemmeno al metro e settanta, ma del quale avevano tutti sentito parlare molto bene, dal momento che gli ultimi anni li aveva corsi prima con una squadra amatoriale affiliata alla ONCE, e poi da stagista per il team di Saiz.

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Insomma, è il 2001 e Joaquim Rodríguez Oliver deve ancora compiere ventidue anni. Un giorno, nella scalata che riporta la squadra all’hotel dopo l’allenamento, i compagni di squadra se lo ritrovano davanti. Impavido, divertito, screanzato, lascia il manubrio e mima il gesto di fumare un sigaro, per accentuare ulteriormente la facilità con la quale stava pilotando in salita un gruppo di professionisti con un certo pedigree. Per chi ha vissuto, anche in minima parte, le dinamiche di uno spogliatoio, non farà fatica a immaginare come andò a finire questa vicenda. Sastre e Zarrabeitia sono i più agguerriti, ma in generale tutte le eminenze grigie della squadra sono concordi nella punizione: una notte a dividere il letto con un estintore, e quel sigaro che ti piace tanto lo devi fumare in faccia a Manolo e a tutti i dirigenti e gli sponsor presenti. Rodríguez non si fa troppi problemi; Saiz, dopo un’iniziale incertezza, lascia correre. L’eredità più importante di quella giornata è quel soprannome che, con qualsivoglia cadenza geografica lo si voglia pronunciare, non riuscirà mai a risultare antipatico o cacofonico: Purito, piccolo sigaro.

Non è un assioma, né tantomeno ha rilevanza statistica, ma è probabile che le persone con più cose da dire siano quelle meno ricercate dalla stampa. In ogni caso, Purito non è mai stato un animale da palcoscenico, ma qualche intervista l’ha rilasciata e qualcosa di interessante siamo riusciti a capire. La prima cosa, la più importante, è che la sua passione per il ciclismo è sincera, profonda, viscerale. Che poi ne abbia fatto un lavoro è una fortunata evenienza, ma resta il fatto che Rodríguez ama la bicicletta, ama andare in bicicletta: tanto che, dopo il suo ritiro, ha fondato una scuola, ha fondato una cicloturistica, è rimasto nell’entourage di una squadra del World Tour; è uno di quegli sportivi che sono diventati professionisti pur rimanendo degli amatori, nel senso più letterale del termine.

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La seconda cosa, non meno importante, è che per Purito la vittoria è un qualcosa di periferico che corona un’esperienza, ma che non la definisce. A sentir parlare lui, il 2012 è stato l’anno migliore di tutti. Probabilmente è vero, dal momento che Rodríguez porta a casa Freccia Vallone e Giro di Lombardia, due classiche molto diverse vinte in maniera molto diversa, palesando una condizione eccellente nel corso di tutta la stagione. Tuttavia, è lui stesso che non ha mai nascosto un amore particolare per i grandi giri, quelle tre settimane che caratterizzano il DNA di un campione, ma dalle quali Rodríguez non è mai uscito vincitore.

Nel 2012 chiude la Vuelta al terzo posto e il Giro d’Italia al secondo, ma in entrambe le corse aveva palesemente la vittoria in pugno. Non è stato in grado di arraffarla, non ha piazzato quel colpo decisivo che diventa necessario quando la differenza tra i contendenti è ridottissima. Alla Vuelta è un esuberante Contador, con un’azione delle sue, a firmare la resa del leader indiscusso di quella corsa. Sulle strade italiane, d’altro canto, è una meteora come Ryder Hesjedal, appena cinque vittorie in carriera, a scippare il trono di Purito. Lo spagnolo non è riuscito ad aumentare il vantaggio in salita e si è visto sfilare la maglia rosa sulle strade di Milano, durante la cronometro conclusiva.

E bisogna ancora arrivare a Firenze, appena un anno dopo, quando il mondiale sembra una questione tutta spagnola. Uno squadrone, che corre perfettamente, capace di mettere Valverde e Rodríguez, le due stelle più luminose, nella condizione di uccidere la strenua resistenza di Nibali e Rui Costa. Tuttavia, non se la giocano bene: quando si decide di correre con più capitani, certe volte anche la strada fatica a decidere. Purito è in testa, Rui Costa ha gambe per riprenderlo, Valverde marca Nibali, la volata finale sembra uno scherzo per lo spagnolo della Katusha, e invece vince il portoghese, il primo nella storia del ciclismo a centrare un risultato del genere.

Può bastare il tempo a curare ferite del genere? ©Sean Rowe, Flickr

Bisogna tornare alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2009 per trovare la prima vera batosta, quando Rodríguez correva ancora per la Caisse d’Epargne. Non lo aspettava quasi nessuno, ma nel frattempo il ragazzo era cresciuto, pronto a palesarsi al mondo del ciclismo; se non fosse che un altro ragazzo, forse cresciuto troppo in fretta, gli soffia la scena. Andy Schleck domina la corsa, svernicia Gilbert sulle sue strade e compie una dei capolavori della sua carriera. Per  Rodríguez rimane il secondo posto, battuto per maestria altrui. Basta fare un salto di sei anni e si arriva al 2015, ancora la classica belga, ancora battuto; dopo essersi riportato con irrisoria facilità su Valverde, non azzanna la giugulare: aspetta la volata, predica cautela, ma l’Embatido non avrà remore a sentenziare il gruppetto.

Si ricordano tante prestazioni, ma si ricordano poche vittorie: è un po’ questo il destino dei talentuosi. Certo, la vittoria non sarà un’ossessione come per tanti suoi colleghi, ma Purito è pur sempre quello del gesto del sigaro, quel ragazzo impavido e screanzato che mette la ruota davanti a quelli più forti di lui. Tra il mondiale Firenze e il Giro di Lombardia passa appena una settimana. Nessuno spagnolo aveva vinto la classica monumento italiana prima di lui: Purito concede il back to back, dimostrando che l’ossessione porta allo sconforto, ma il divertimento porta all’esaltazione.

Il podio del Giro di Lombardia 2013. ©brassynn, Flickr

Ancora oggi la ricorda come la vittoria più emozionante della sua carriera, proprio perché arrivata dopo un boccone amarissimo come quello del mondiale. Non c’è niente da fare, per lo spagnolo bastava arrivare dov’è arrivato, tutto il resto è un’addizione al suo principale obiettivo – diventare professionista – che prende per come viene. Una volta si vince, una volta si perde, e se si perde spesso poco male, ci sarà comunque un’altra gara, si potrà comunque tornare in bicicletta. Come in quel 2012, quando Contador fu, una volta di più, straripante.

Lo stesso Rodríguez lo ricorda come uno dei momenti più forti della sua carriera, anche se quel capolavoro di Contador è servito a compromettere la sua leadership nella corsa. Difficile da spiegare, eppure delle volte bisogna semplicemente arrendersi all’evidenza che la normalità assume le forme più disparate, andandosi a contraddire in termini. Non è normale essere ossessionati dalla vittoria, così come non è normale crescere in un ambiente così competitivo e prenderla, ogni volta, con filosofia. È normale, nonché inevitabile, d’altro canto, che delle volte si vinca e delle altre si perda.

Purito ha deciso di aprire una scuola di ciclismo a Andorra – dove vive – perché vuole trasmettere ai bambini che il risultato, per quanto abbia una sua rilevanza, viene dopo, dopo e dopo ancora. È apparso chiaro nel 2014, l’anno più duro per Purito, quello che per sua stessa ammissione può essere considerato come l’unico scampolo professionistico in cui andare in bicicletta era più un peso che un piacere. Ha tenuto duro e l’anno dopo si è ripresentato con le batterie cariche: primo ai Paesi Baschi, terzo alla Liegi-Bastogne-Liegi, quarto alla Freccia Vallone, quinto alla San Sebastián; tutte tappe di avvicinamento verso il grande splash, quella Vuelta a España che è stata sempre la sua corsa preferita, ma sulla quale non è mai riuscito a mettere le mani.

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Mai, nemmeno nel 2015, quando a vincere fu Fabio Aru, torrenziale durante quelle tre settimane e soprattutto più completo, come tanti altri colleghi, come Purito non è mai stato. Le cronometro sono sempre state il suo punto debole, tanto da costargli più volte la testa della corsa nei grandi giri; un buco tecnico che non è mai stato colmato, probabilmente perché colmarlo avrebbe voluto dire allenarsi duramente in una disciplina che non gli piaceva. C’è sempre lo stesso pensiero che guida le azioni: l’importante era diventare professionista, tutto il resto è un qualcosa in più, ma l’importante rimane divertirsi e divertire.

In bici Purito faceva divertire. C’è da pensare che forse si tratta di una caratteristica di una certa scuola spagnola, perché tutti ricordano, giustamente, la cadenza ritmata e ipnotica di Contador, ma la pedalata di Rodríguez non è che si discostasse granché da quella del fuoriclasse madrileno. Entrambi vanno alla ricerca della massima spinta, usano la bicicletta come un’estensione del proprio corpo, la fanno piegare, strillare; vogliono essere efficaci e allo stesso tempo restituire quel senso estetico che uno sport come il ciclismo ha bisogno di conservare.

È stato sempre innamorato del ciclismo; un amore che non si è mai trasformato in abitudine, che ha mantenuto una scintilla primitiva, quella che lo ha convinto a intraprendere due strade: quella professionale, unendosi allo staff della Bahrain-Merida, e quella amatoriale, investendo soldi nella scuola e nella cicloturistica, La Purito, giunta ormai alla sesta edizione. Ha un figlio di undici anni attraverso il quale vede tutti i mali del ciclismo e dello sport in generale. Metterlo in bici e farlo correre è stata una scelta logica, finché qualche genitore e allenatore non ha cominciato a parlare alle spalle, a dire che era il figlio di Purito, a pretendere tante cose da lui: solo per il suo cognome, solo perché il mondo si nutre di aspettative, ma soprattutto di aspettative disattese.

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C’è una consapevolezza e una maturità agonistica esagerata nella linea di pensiero del nostro: ci si diverte, per davvero, fino a quando si è ragazzi; si lavora, per davvero, quando si diventa grandi, a condizione che ci sia un piacere in quello che si decide di fare.

La sua carriera si è chiusa nel modo più consono al personaggio: col quinto posto nella prova in linea alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, suo pressoché unico obiettivo per il 2016. Per lui sarebbe finita lì, e sarebbe finita anche bene, un finale estremamente adatto alla sua carriera, ma la Katusha lo costringe a correre altre tre gare – una decisione che lo spagnolo non digerirà mai: Milano-Torino, Giro del Piemonte e Giro di Lombardia, senza concluderne nemmeno una. Si corre solo se si corre volentieri, e per Purito la vita da corridore è finita in quell’afoso pomeriggio brasiliano con un modesto quinto posto: qualche recriminazione perché avrebbe potuto essere qualcosa di più, la certezza che avrebbe sempre potuto essere qualcosa di meno.

 

 

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