Julio Alberto Pérez Cuapio: il prototipo dello stile sudamericano di una volta.

 

Il tempo passa e il mondo cambia, governo ladro. Difficile non accorgersene: basta guardare una corsa di biciclette e soffermarsi sui sudamericani. Una volta (quanto sono trascorsi in fretta quindici anni) si distinguevano per anarchia e sconclusionatezza. Erano sanguigni e battaglieri in salita, imbarazzanti in discesa e inesistenti a cronometro: facevano sognare orde di appassionati stanche del solito francese o spagnolo apatico dominatore, salvo poi deluderle puntualmente affondando una tappa dopo l’altra. Oggi i sudamericani hanno perso in spettacolarità ma guadagnato in costanza, esperienza e mestiere. Se oggi, insomma, abbiamo Gaviria, Quintana e Urán, una volta (sono davvero passati quindici anni) avevamo Julio Alberto Pérez Cuapio.

Né un nome né un cognome: un tutt’uno, una speranza, un unicum. «Un personaggio particolare», lo definirà Bruno Reverberi quando avrà a che farci. Gomiti larghi, rapporti impossibili e la maglia arancione della Panaria: se esiste un’immagine capace di rappresentare la provincia italiana in cerca di successo sulle strade del Giro d’Italia nei primi anni duemila, dev’essere questa.

La Panaria che, in quelle stagioni, potrà contare su Sella e Pozzovivo, Mazzanti e Baliani, Richeze, Grillo e Rubiano Chávez: si viveva bene con poco, anche nel ciclismo. Pérez Cuapio è il primo ad arrivare alla corte dei Reverberi: è il 2000 e di lui si sa poco. Ha ventitré anni, classe 1977, viene da Tlaxcala de Xicohténcatl, Messico, e in salita vola. L’anno precedente, da dilettante, ha vinto sette corse. Ha iniziato a pedalare nel 1996, tardissimo, e a notarlo è stato Miguel Arroyo, messicano anche lui. Il 1997 è un anno di svolta per entrambi: Arroyo appende la bici al chiodo, Pérez Cuapio si trasferisce in Italia, nelle Marche. Alla vittoria più importante della sua carriera mancano soltanto quattro anni.

Julio Alberto Pérez Cuapio: un nome, una pedalata, una fisionomia che hanno segnato un’epoca del ciclismo. @eleconomista

La tredicesima tappa del Giro d’Italia 2001 è tanto sali e poco scendi, quattro spunzoni che vengono fuori dal terreno pronti a diventare spilli per infilzarsi nei polpacci dei corridori. Duecentoventicinque chilometri con Rolle, Pordoi, Marmolada e arrivo in salita ancora in cima al Pordoi. Sono edizioni del Giro d’Italia strane e irripetibili, spettacolari ma al tempo stesso limitate agli italiani: lo straniero non passa e spesso non viene nemmeno. Del livello di quelle corse ce ne accorgevamo ogni luglio al Tour de France, quando i grandi scalatori italiani finivano a qualche ora da Lance Armstrong.

In maglia rosa c’è Dario Frigo, zazzera bionda e pedalata convincente; Gilberto Simoni sembra il più forte in salita, gli altri un gradino dietro; c’è curiosità per Garzelli, vincitore uscente, e speranza per Pantani, che dal suo tunnel non è ancora uscito e non uscirà più. Pérez Cuapio è uno dei tanti: è alla seconda partecipazione, nel 2000 si ritirò dopo otto tappe. L’arancione non domina ancora il suo busto: c’è un filo di giallo sulle maniche e tanto blu nella zona centrale.

Pérez Cuapio parte secco ai meno nove dal traguardo. Esce da un gruppetto ristretto, la corsa l’ha già fatta saltare Simoni sulla Marmolada. Il messicano parte e tiene per un po’ il cinquantatré. Siamo sul Pordoi e le immagini sono impietose: dietro, staccati di molto, Di Luca, Garzelli e Pantani a confronto sembrano dei lillipuziani. Simoni rinviene, Unai Osa cede, Frigo è costretto a salire col suo passo.

Quella tra Pérez Cuapio e Simoni, almeno in un primo momento, sembra la trama di un western. Pérez Cuapio è il peóne, olivastro e con la dignità della fatica che gli gronda dal viso; Simoni, spigoloso e sicuro di sé, del cowboy ha l’arroganza e la risolutezza. Il peóne, però, non molla: il cowboy prima si intenerisce, poi si arrabbia, infine si accontenta. Mancano quattrocento metri e Pérez Cuapio tenta l’affondo: Simoni, con un gesto inequivocabile della mano destra, gli dice di aspettare, di non scattargli in faccia che non ce la fa più, che tanto la vittoria è sua lo stesso, magnanimo come Bugno lo fu con Mottet sempre sul Pordoi nel 1990.

Pérez Cuapio, che soltanto quattro anni prima venne in Italia con uno zainetto con dentro qualche maglia e qualche paio di pantaloni, non si limita alla vittoria di giornata. Davanti a giornalisti e televisioni lancia un vero e proprio appello: «Cerco una ragazza, adesso che ho vinto al Giro sono anche famoso, sono un bel ragazzo, un buon partito; sì, è vero, a volte mi arrabbio, com’è successo nella quarta tappa Montevergine di Mercogliano, è che mi si è rotta la catena a tre dal traguardo perché salivo col cinquantatré; e sono un bel ragazzo anche se mi mancano due denti, rotti in una caduta il giorno dopo nella quinta tappa. Parlo un buon italiano ma mi sento triste e solo. Cerco una donna tranquilla e carina». Un anno più tardi, al Giro d’Italia del 2002, la sorpresa: si chiama Mara e ha ventitré anni. La non-sorpresa, invece, è Pérez Cuapio, che fa il diavolo a quattro.

Per quanto scostante, lo preferivamo in sella ad una bicicletta da corsa. @Eurosport

Vince due volte. Prima a San Giacomo, sui Monti della Laga, sbarazzandosi di Cadel Evans nelle ultime battute di gara. Poi a Corvara in Badia, dove Evans vestirà di rosa, ventiquattro ore prima della crisi che lo farà esplodere andando verso Folgaria. C’è ancora il Pordoi, nel destino di Pérez Cuapio: è su quelle rampe amiche (mica poco avere delle rampe amiche, in quanti possono dire lo stesso?) che il messicano si libera di De Paoli e si invola in solitaria verso il traguardo scavalcando anche il Campolongo.

È il miglior Giro d’Italia della sua carriera: chiude diciannovesimo con la maglia di miglior scalatore. Dice che vorrebbe provare a fare classifica (ci proverà, effettivamente, ma andrà malissimo), che in Messico il ciclismo non piace molto e che quindi, nonostante i bei risultati, non lo conosce quasi nessuno. Da Pérez Cuapio, d’ora in poi, tutti si aspetteranno qualcosa di importante: il meglio, però, è già alle spalle.

Nelle stagioni successive rimarrà fedele al calendario italiano: vincerà un’edizione della Settimana Lombarda e una del Giro del Trentino, quest’ultimo senza aggiudicarsi una frazione. Al Giro d’Italia non si risparmia: aspetta le salite, va in fuga, diventa quasi una macchietta da quando inizia ad attaccare persino sui cavalcavia. Non brilla più nemmeno negli arrivi in quota, quelli che lui amava perché poteva dare tutto se stesso senza fare troppi calcoli (non gli venivano bene) e soprattutto senza naufragare in discesa, dove dilapidava tutto il vantaggio accumulato in salita. La forma fisica con la quale si ripresenta ad ogni inizio di stagione è ormai sintomo di un corridore in disarmo: ha sempre qualche chilo di troppo.

Una delle ultime diapositive lo vede con un forcone in mano prestatogli da un diavolo a bordo strada: è sul Giau, Giro d’Italia 2007, tanto per cambiare in cerca di fortuna. I suoi compagni sono Iván Ramiro Parra, Leonardo Piepoli e Riccardo Riccò. Pérez Cuapio punzecchia idealmente i due italiani, come a dire: andate più piano, state facendo un ritmo folle, io e Parra siamo quasi al gancio. Poi, il sorriso tranquillo di chi pedala per passione senza l’assillo del risultato.

I due gendarmi della Saunier-Duval arriveranno in parata sul traguardo delle Tre Cime di Lavaredo. Quella che a primo impatto viene considerata una delle tappe più spettacolari della storia recente del Giro d’Italia, diversi mesi più tardi verrà rivalutata. Nel 2008 Riccò prima e Piepoli poi verranno trovati positivi al CERA. Pérez Cuapio, col forcone del diavolo e quel sorriso sornione, c’aveva visto lunghissimo.

Julio Alberto Pérez Cuapio in una foto di un paio d’anni fa.

Pérez Cuapio è rispuntato fuori lo scorso anno. Il figlio, dodici anni, frequenta la scuola in Italia. E Julio si è fatto rivedere al Giro d’Italia dei dilettanti. È entrato nello staff della famiglia Reverberi, sembra sia l’addetto al magazzino, è in attesa del permesso di soggiorno. Protagonista di un video di dieci secondi pubblicato dall’organizzazione del Giro d’Italia dei giovani, Pérez Cuapio ha fermato le lancette del tempo, riportandolo indietro di un decennio abbondante. L’italiano è ancora quello di una volta: semplice, chiaro, claudicante. «Saluto sempre il Giro d’Italia. Iniziano le salite, vi auguro un buon divertimento: divertitevi tanto, è sempre bello fare le salite», e solito sorriso a trentadue denti (contati, li ha tutti). Quando, disperato, si impegnava in promesse matrimoniali, per convincere le ragazze a farsi avanti usò una metafora stupenda: «In amore metto la stessa passione che nell’affrontare le salite». Per trovare una dichiarazione più originale e sincera bisognerebbe sfogliare Shakespeare e non è detto la si trovi.

 

Foto in evidenza: @Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.