Larry Warbasse, nient’altro che un ciclista

Larry Warbasse ha deciso di non sacrificare tutto in nome del ciclismo.

 

Quando non pedala, Larry Warbasse scrive. È una delle firme più autorevoli e brillanti di Rouleur, racconta il ciclismo da un punto di vista privilegiato ed è dotato di una perspicacia che spesso latita in coloro che il giornalista lo fanno di mestiere. «Scrivere serve soprattutto a me stesso», ha scritto poche settimane fa dalla casa dei suoi genitori nel Michigan, dov’è tornato per non rischiare di rimanere isolato nel suo appartamento di Nizza. «Così facendo do una forma ai miei pensieri e li faccio fluire, altrimenti continuerebbero a ribollirmi dentro».

©Jonathan Potter, Flickr

Scrive di tutto, Warbasse, cosmopolita come la sua professione suggerisce e colloquiale come vuole il suo passato, eletto svariate volte rappresentante di classe: parla della spiaggia di Nizza e delle colline toscane, del pesce della Costa Azzurra e del gelato al biscotto di Quarrata; prende perfino posizione sull’attualità, ad esempio quando scrisse che «se Nils Eekhoff ha barato, allora ho barato tante volte anche io», riflettendo con metodo e onestà sulla squalifica che agli ultimi campionati del mondo ha colpito il ciclista olandese e premiato Battistella. Qualche anno fa, invece, gli venne chiesto di parlare delle fughe: quando e come nascono, come e perché muoiono. «Un mio amico diceva che andare in fuga è come provarci con le ragazze», scriveva Warbasse. «Hanno maggiori probabilità di successo quelli che ci provano più spesso». Gli sarebbe tornato buono, quel consiglio.

Fino all’estate del 2017, quando di anni ne stava per compiere ormai già ventisette, la carriera ciclistica di Larry Warbasse era una ridda di abbordaggi andati male: qualche piazzamento, diverse cadute, una marea di potenzialità rimaste inespresse. Poi, nella quarta tappa del Giro di Svizzera, la ricompensa: vinse resistendo al ritorno di Caruso, Kruijswijk e Špilak. «Non è giusto che un corridore abbia così poco tempo a disposizione per esultare», scrisse giorni dopo su Rouleur. «A volte una vittoria costa anni di lavoro e di sofferenza, e noi non abbiamo più di tre secondi per chiudere gli occhi e alzare le braccia al cielo».

Nelle classiche interviste di rito, Warbasse sarebbe scoppiato in lacrime più e più volte. «Bravi ragazzi come lui meritano sempre di vincere», scrisse Cavendish su Twitter per complimentarsi. «Sono felicissimo per lui, è un lavoratore eccezionale», gli fece eco Gilbert. Due settimane più tardi, Warbasse avrebbe vinto anche la prova in linea dei campionati americani, la seconda e finora ultima vittoria della sua carriera: ma la più importante rimane quella al Giro di Svizzera, la prima – della sua carriera e della sua squadra, la Aqua Blue Sport, a cui era arrivato dopo un biennio con la BMC e uno con la IAM. Anche quella sera, come molte altre sere, Warbasse chiamò suo madre: e per una volta, a piangere non era da solo.

©Cyclisme Mercato, Twitter

Spesso e volentieri, invece, era successo che Warbasse chiamava in lacrime e sua madre, con la tristezza nel cuore, doveva fare del suo meglio per ascoltarlo, consigliarlo e consolarlo. Quando arrivava ottobre e lui ancora non aveva firmato un contratto per l’anno successivo; quando i sacrifici e gli allenamenti sembravano non portare a nulla; oppure quando, al termine del 2018, l’Aqua Blue Sport chiuse i battenti e Warbasse si ritrovò disoccupato. Un po’ per approfittare di questa libertà impostagli con violenza e un po’ per non rimuginare sull’oscuro futuro che lo attendeva, Warbasse si mise in strada con Conor Dunne, suo compagno di squadra all’Aqua Blue Sport, e insieme puntarono verso le Alpi.

Si trattava del “NoGo Tour”, una corsa a tappe caratterizzata dal ritmo blando, dall’assenza di mete prestabilite e dalla voglia di lasciarsi tutto alle spalle – calendari e corse, aspettative e contratti, cellulari ed email. I due scalarono alcune delle cime alpine più famose e vissero momenti indimenticabili, come quella volta in cui Conor Dunne riuscì nell’impresa di perdere un paio di ciabatte sul Colle delle Finestre.

Qualche mese più tardi, Warbasse sarebbe diventato un corridore dell’AG2R La Mondiale, la squadra in cui milita ancora oggi: se quel contratto gli salvò la carriera, quel viaggio insieme a Dunne gli ha salvato la vita, restituendogli il tempo necessario ad indagare sé stessi. Il ciclismo, nonostante tutto, era ancora la sua passione più grande: quella che lo aveva portato in Europa ancora giovane, che lo aveva fatto litigare coi genitori che si aspettavano che lui terminasse gli studi in Economia all’Università del Michigan. «Se avessi tutti i soldi del mondo, vorrei essere comunque un ciclista professionista», ha dichiarato recentemente. «È quello che voglio fare, è ciò che voglio essere. Se avessi fatto altro, magari se mi fossi laureato, forse sarei più ricco: ma non altrettanto felice».

©Bidon, Twitter

Essendo arrivato ai trent’anni, e avendo vissuto esperienze d’ogni genere, Larry Warbasse ha iniziato a rendersi conto che una buona parte del gruppo è più giovane di lui e che ci sono alcuni corridori che gli ricordano i suoi inizi: emozionanti ma complessi, quelli di un ciclista che dovrà sudare ogni singolo contratto della propria carriera. E siccome lui non è arrogante e cinico come quel gregario della BMC che nel 2012, prima di una corsa, gli disse di stare zitto ché gli stagisti non devono fare domande, Rouleur ha pensato bene di chiedergli un pezzo nel quale Warbasse dava alcuni consigli al sé stesso del passato: non snaturarti, continua a fare quello che ti fa stare bene, ascolta i più anziani (anche se ti rispondono male), accetta quel che viene, non lamentarti, divertiti, vivi la tua vita, non esagerare con gli allenamenti, con le pressioni, con gli allenamenti.

Consigli semplici e molto “americani”, se volete, ma tutto sommato giusti. Giacché il ciclismo non è dei Merckx, extraterresti i cui limiti corrispondono con l’ambizione con la quale li esplorano, ma dei Warbasse, normodotati con una spiccata inclinazione alla semplicità, alla resistenza e al sacrificio.

 

 

Foto in evidenza: ©Rouleur

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.