Il ciclismo di Laurens ten Dam è un inno alla vita.
Lasciar perdere il World Tour per trasferirsi in California così da poter disputare l’ultima stagione da professionista in una Continental americana: ecco quello che aveva deciso Laurens ten Dam nell’estate del 2015, dopo aver concluso il settimo Tour de France della sua carriera nonostante una spalla dislocata – e risistemata sul posto – in una caduta nei primi giorni di corsa e dopo esser stato investito, seppur senza gravi conseguenze, durante un normale allenamento verso l’inizio di agosto. «Basta», aveva detto a sé stesso. «È arrivato il momento: che fine ha fatto, altrimenti, il sogno che cullavo da giovane?».
Di sogni ne aveva diversi, ten Dam, e li ha realizzati tutti. Mettere su famiglia era uno di questi e ci era riuscito: una moglie, Thessa, e due figli. La California l’aveva prima assaporata in luna di miele e poi conosciuta da vicino nelle tre edizioni del Tour of California disputate tra il 2011 e il 2015 – e dove, tra l’altro, ha raccolto alcuni dei migliori risultati della sua carriera. Laurens ten Dam, all’epoca trentacinquenne e con dodici stagioni di professionismo nelle gambe, non sopportava più i ritmi e le esigenze claustrofobiche del World Tour. Non andava certo in una Continental americana per mettersi in proprio e guadagnare di più: lo faceva per tornare alle origini, per conoscere un mondo e un ciclismo diverso, per ricordarsi chi era e chi avrebbe potuto essere dal momento in cui si sarebbe ritirato.

In California, per la precisione a Santa Cruz, ten Dam e la sua famiglia sarebbero rimasti soltanto un anno: il richiamo dell’Olanda e le esigenze familiari si fecero sempre più impellenti, e in più nel 2016 ten Dam non si trasferì in una Continental americana né tantomeno si ritirò. Quello che successe in quei mesi gli permise di osservare la sua vita da un punto di vista inedito. Passato, presente e futuro acquistarono un valore diverso: con gli sforzi e i sacrifici compiuti nel decennio precedente si era guadagnato la possibilità di trasferirsi dall’altra parte del mondo, realizzando così un altro sogno; il presente, invece, gli chiedeva di fare da chioccia ai corridori della Sunweb, la squadra che decise di ingaggiarlo nonostante la residenza americana e l’esplicita richiesta di partecipare a poche gare europee, quelle più importanti; il futuro, invece, sarebbe stato divertente e pieno d’impegni: un ritorno alle origini, appunto, giacché la vita questo è: un ciclo.
Dare l’esempio pedalando
Pur avendo cominciato a correre piuttosto tardi, sostanzialmente da adolescente, ten Dam e la bicicletta si conoscevano già da tempo. Un bambino che pedala a ridosso di un fiume, quello che ospitava la casa galleggiante dei suoi, su di una bicicletta con le rotelline; il bambino che continua ad allontanarsi fino a perdersi, finché non realizza che ripercorrendo la stessa strada nel senso di marcia opposto avrebbe ritrovato casa sua: questo è il primo ricordo di Laurens ten Dam.
Nel 1998, invece, il miraggio dei diciott’anni combaciò con un’epifania: il terzo posto nella prova in linea dei campionati olandesi della sua categoria. Stranamente quel giorno il percorso era frastagliato, altrimenti il filiforme ten Dam non avrebbe saputo distinguersi: nei criterium abituali, difatti, velocissimi e piatti, gli impulsi necessari a rilanciare l’andatura all’uscita delle curve lo stremavano e lo disperdevano. Lo anticiparono soltanto due ragazzi della formazione giovanile della Rabobank: dei primi classificati di quella corsa, tuttavia, pare che ten Dam sia stato l’unico a raggiungere il professionismo. Al termine di quella giornata capì anche un’altra cosa: che correre nelle varie Rabobank del circuito ciclistico era significativo ma non essenziale e che il talento non serve a nulla se non è supportato dalla passione e dall’abnegazione.

Quello che avrebbe fatto tra il 2004 e il 2008, vale a dire durante il primo lustro della sua carriera da professionista, non era altro che una prosecuzione di quella giovanile: vestire la maglia di formazioni di secondo piano, andare in fuga sperando di resistere al ritorno del gruppo, lavorare il doppio degli altri così da ridurre il divario naturale. Niente di così diverso dall’allenamento lungo che, il suo direttore sportivo dell’epoca era stato categorico, ten Dam doveva svolgere almeno una volta a settimana per competere coi giovani coetanei olandesi: nessuno che lo seguiva, un pranzo trangugiato al volo appena uscito da scuola e il faro della sua bicicletta che ten Dam accendeva soltanto quando incrociava un’altra macchina, se no si sarebbe scaricato troppo in fretta e lo avrebbe lasciato al buio.
A quel periodo risalgono le uniche due vittorie della sua carriera: una cronometro individuale alla Course Cycliste de Solidarnosc et des Champions Olympiques 2006 – quarto arrivò Kiryienka – e la prima tappa del Critérium International 2008 davanti a Vaugrenard e Lorenzetto. Nel 2008 ten Dam era appena passato alla Rabobank, la prima grande formazione della sua carriera che proprio in quella stessa estate lo avrebbe fatto debuttare in un grande giro: ventiduesimo al Tour de France – poi ventunesimo per la squalifica di Kohl. Sei anni più tardi, sempre sulle strade francesi, avrebbe conquistato il risultato più prestigioso della sua carriera: il nono posto in classifica generale a oltre diciotto minuti da Vincenzo Nibali – che fece il paio con l’ottavo raccolto alla Vuelta a España 2012.
Nell’ultima parte della sua carriera, invece, Laurens ten Dam è stato un eccellente gregario per le grandi salite e il riferimento dei più giovani e dei direttori sportivi durante la corsa. Ha contribuito a portare in patria il primo Giro d’Italia della storia ciclistica olandese – con Dumoulin nel 2017 – e a svezzare tanti giovani. In un’intervista rilasciata a Road Cycling UK qualche anno fa, a ten Dam venne chiesto di dispensare qualche consiglio ai più giovani. «Non sono abituato a parlare molto, mi piace dare l’esempio pedalando», spiegò leggermente imbarazzato. «Direi loro di non farlo diventare soltanto un lavoro, di imparare a staccare la spina e di non concentrarsi troppo sui numeri e sui dati: se io alla mia età riesco a sorridere non appena salgo in bicicletta, è perché ho saputo mantenere viva la fiamma». E poi, infine, quello più sentito: «Non dopatevi».

Perdere l’innocenza
Laurens ten Dam non riusciva a credere a quello che stava succedendo tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013: non soltanto la confessione di Lance Armstrong nel salotto di Oprah Winfrey, ma anche il castello di carta della Rabobank che stava prendendo fuoco. Ancor prima che la sua squadra, la Rabobank per ten Dam era un’illusione, un sogno, un traguardo: da ragazzo stravedeva per Michael Boogerd, ogni volta che trovava un poster che lo raffigurava lo attaccava in camera e si divertiva tantissimo a seguire l’ultima polemica sulla rivalità che lo vedeva contrapposto a Erik Dekker. Tutto questo, in maniera abbastanza improvvisa e brutale, si stava rivelando per quel che era: una bugia, una frode, un tradimento.
Del modo in cui funzionava il ciclismo professionistico dei primi anni duemila, Laurens ten Dam se n’era accorto fin da quando vi era entrato. Alcuni colleghi più scafati e disillusi di lui gli spiegarono che molto probabilmente, almeno fino alla tarda primavera, non avrebbe raccolto nessun risultato degno di nota: questo, d’altronde, era il destino di chi non si dopava e doveva sottostare al doping altrui, spropositato tra marzo e maggio quando si correvano le classiche, i grandi giri e alcune delle brevi corse a tappe più prestigiose. Quando le grandi corse sarebbero terminate e i campioni avrebbero alzato il piede dall’acceleratore, allora ten Dam e tutti quelli come lui avrebbero potuto inserirsi e approfittarne.
Quando la Rabobank venne travolta dallo scandalo che lei stessa aveva alimentato, ten Dam se la vide bella: la squadra diventò prima Blanco, poi Belkin e infine LottoNL-Jumbo e della struttura precedente non rimase niente. Fu il momento più difficile della sua carriera: a chi glielo chiedeva, si vergognava di dire che il suo mestiere era quello del ciclista professionista – una cosa impensabile, per lui, che fino a poco tempo prima doveva stare attento a non vantarsene; quando usciva per fare la spesa o per sbrigare qualche commissione, doveva ricordarsi di non indossare indumenti marchiati Rabobank, altrimenti le persone avrebbero continuato ad avvicinarsi a lui chiedendogli se non si vergognava e quanto ancora avrebbero dovuto aspettare per ascoltare anche la sua confessione.

Per questo motivo, Laurens ten Dam non ha mai nascosto che il risultato di cui va più fiero non è il nono posto del Tour de France 2014, bensì il tredicesimo di un anno prima: per espellere le tossine dell’ambiente olandese e per preparare un Tour de France che fungesse da catarsi, ten Dam andò in Francia con la moglie e il primo figlio ad allenarsi e a provare le salite decisive, quelle alpine e il Mont Ventoux. Per dimostrare la sua integrità decise di permettere ad un giornalista di seguirlo per un anno intero, concedendogli libero accesso ai suoi spazi, ai suoi dati, ai suoi spostamenti e perfino al suo passaporto biologico. Il Tour de France 2013 segnò una svolta per il ciclismo olandese: il sesto posto di Mollema e il tredicesimo di ten Dam, i due capitani della Belkin, infusero una fiducia nuova e riportarono i tifosi a seguire la corsa nei bar e nelle piazze.
«Sono fiero di quello che ho ottenuto e del mondo in cui l’ho ottenuto: posso guardare tutti negli occhi», dichiarava ten Dam qualche anno fa. Non si è mai pentito delle posizioni prese e difese: ripartirebbe dalle squadre di secondo piano, così da non essere obbligato a dimostrare tanto a tutti i costi e fin da subito; riscriverebbe “Laurens ten Dam”, il libro uscito nel 2013 in cui si racconta – parole sue – «il processo che ho dovuto attraversare per tornare ad essere fiero del lavoro che faccio»; e dichiarerebbe di nuovo quel che ha dichiarato spesso, che oggi il doping non viene accettato ma – eventualmente – denunciato e che è un bene che alle presentazioni del libro di Michael Rasmussen ci siano sempre meno persone.
Ten dam, tuttavia, non ha mollato l’osso ed è ancora pronto a dar battaglia, se necessario. Improvvisandosi anche giornalista – è il caporedattore della versione olandese di Bicycling -, di tanto in tanto viene contattato da qualche giornale per scrivere qualcosa. Lo scorso anno, in seguito alle dichiarazioni di Georg Preidler e agli sviluppi dell’Operazione Aderlass, ten Dam è stato durissimo sulle pagine dell’Het Nieuwsblad. “Sono furioso con lui perché è stato un mio compagno fino a poco tempo fa e abbiamo condiviso tante esperienze“, scrisse. “Lo ricordo al Giro d’Italia 2017, quello che vincemmo, lamentarsi in continuazione e volersi ritirare per tornare dalla sua ragazza. Dovetti riprenderlo, era il mio compito. Non riusciva a godersi l’unicità del momento: stavamo vincendo il Giro d’Italia numero cento“.

Infine ten Dam sollevò un dubbio: “Perché sul caso di Preidler c’è arrivata prima la polizia? Il passaporto biologico funziona davvero così male? Di chi sono le altre quaranta sacche di sangue? Tante domande e nessuna risposta, temo“. Di una cosa ten Dam è sicuro: il gruppo odierno è il più pulito degli ultimi quarant’anni, il doping non è più un tema di cui si disserta quotidianamente a tavola e il ciclismo è tornato ad essere un mondo in cui un corridore talentuoso può legittimamente ambire ad una carriera di primo piano.
Live slow, ride fast
Dopo tre stagioni alla Sunweb e una, l’ultima, alla CCC, Laurens ten Dam ha deciso di ritirarsi dal ciclismo professionistico. Lo ha fatto al momento giusto – ha compiuto trentanove anni il 13 novembre – e senza nessun rimpianto: delle classiche monumento gli è mancata solo la Parigi-Roubaix, per il resto le ha disputate tutte; ha concluso tutti e dieci i Tour de France a cui ha preso parte, otto consecutivi dal 2011 al 2018; si è tolto qualche soddisfazione personale e ha aiutato alcuni dei suoi capitani a togliersi le loro. Soprattutto, come ha specificato sul sito della CCC al momento dell’annuncio del ritiro, “ho amato questo mondo fino alla fine e non credevo che la mia carriera potesse durare così a lungo“.
Gli ultimi mesi, tuttavia, almeno apparentemente sembrano raccontare una storia diversa. Laurens ten Dam si è innamorato del gravel perché vi ha ritrovato delle sensazioni che aveva dimenticato, quelle che la vita ascetica del professionismo tende a strangolare: accelerare e rallentare a piacimento, non curarsi dei watt espressi, bere una birra in compagnia degli avversari. Recentemente è stato chiesto a ten Dam se il World Tour gli manca e lui, in maniera inequivocabile, ha risposto di no: certo, segue le corse e fa il tifo per alcuni amici – Terpstra e Oomen su tutti -, ma di quel mondo ne fa a meno volentieri. Ha parlato addirittura di disturbo post traumatico da stress, roba da soldati che non riescono a dimenticare la guerra; e infatti ten Dam, seppur in misura minore, accusa proprio questo: in mente, talvolta nel sonno, lo visitano i ricordi delle tappe più estenuanti o dei ventagli che non era riuscito a chiudere.

E poi, per un selvaggio come lui, la vita irregimentata del World Tour si era fatta estenuante. Come ha ricordato più volte, fino al 2010 il ciclismo era molto meno invadente nella vita di un corridore: non c’erano i mezzi per rimanere in contatto con la squadra così spesso, ad esempio, e questo permetteva di vivere e allenarsi con più leggerezza. Forse ten Dam si è ritirato proprio per questo: perché ama così tanto il ciclismo da volerne preservare un buon ricordo, viziato il meno possibile dai doveri contrattuali e prestazionali. È quello che si augura per il futuro del gravel, specialità che ha conosciuto nell’anno vissuto in California: che lo spirito scanzonato della competizione non ceda mai il passo alla professionalità estrema, che i ragazzi non provino a farlo diventare un mestiere, che di soldi ce ne siano sempre il giusto così da non tentare nessuno. Un idealista, probabilmente, ma ogni tanto sognare l’impossibile serve per sopravvivere.
Se prima viveva solo un paio di vite, quella del ciclista professionista e quella del padre/marito, oggi Laurens ten Dam ne vive tantissime: è un ambasciatore di Specialized, pedala per centinaia di chilometri tra Europa e America per divertimento, organizza corse amatoriali, partecipa agli appuntamenti più iconici del gravel; è nel mondo del caffè con un piccolo marchio tutto suo, ha lanciato una linea d’abbigliamento sportivo dedicata interamente al gravel, scrive di tanto in tanto qua e là e conduce un podcast di successo. Si chiama “Live slow, ride fast”, “vivi lentamente e pedala velocemente”, ed è uno dei più ascoltati d’Olanda. Si parla di ciclismo in tutte le sue forme, amatoriale e professionistico, e il titolo è sostanzialmente il motto di Laurens ten Dam, la frase che guida la sua vita.

Raggiunto pochi giorni fa da Soigneur, ten Dam si è definito un avventuriero professionista che, prima per caso o per fortuna e poi per merito, ha scoperto di andare piuttosto veloce con una bicicletta da corsa. «Per me pedalare significa essere liberi», ha spiegato. «Mi fa ritornare indietro nel tempo, mi ricorda quand’ero bambino e le sensazioni che provavo quando mi allontanavo da casa senza telefono e scoprivo un nuovo angolo delle mie zone». La vita che conduce è invidiabile. «Abitiamo nell’Olanda del Nord, in campagna, ma non ci manca niente: abbiamo una bella casa e un bel giardino, i ragazzi hanno lo spazio e la possibilità di pedalare e nuotare, abbiamo una piccola barca e la città a due passi. È molto tipico, peraltro: ci sono anche dei mulini a vento».
Laurens ten Dam, che fino ad oggi ha vissuto una vita d’obiettivi, per il futuro se n’è dato soltanto uno: insegnare ai figli a prendere la bicicletta e a partire, esplorando il mondo. Ogni tanto se li porta dietro e loro lo seguono volentieri. A volte capita di dormire fuori casa, all’aperto, ma loro non danno problemi: ormai ci sono abituati e prima di addormentarsi, magari in quelle notti in cui il sonno non vuole saperne, si mettono a contare le stelle.
Foto in evidenza: ©Renaud Breban, Twitter