La carriera di Esteban Chaves è un lungo giro sulle montagne russe.

 

La carriera di Esteban Chaves è una storia ricca di aneddoti: incidenti, infortuni, malattie. Racconta vicende di rinascita e conquiste, rasoiate in salita e gioie sfumate. Il punto più alto lo raggiunge nel 2016 con il primo posto al Lombardia, un successo arrivato al termine di un’annata vissuta da protagonista con il podio al Giro e alla Vuelta e la vittoria al Giro dell’Emilia. Una stagione che lo fece diventare grande e che, ad oggi, resta l’apice di una parabola che vive costantemente di alti e bassi, come le salite che lo hanno esaltato e le discese dove ha visto spesso infrangersi i suoi sogni.

Ognuno compie il destino che gli spetta e desidera il destino che vuole

Un Chaves pensieroso al via del Giro: quale sarà la sua forma sulle grandi salite? ©Aivlis Photography

L’incidente al Laigueglia nel 2013 condizionerà i primi passi di Esteban Chaves nel mondo del ciclismo. Il gruppo arriva a tutta velocità verso la salita del Testico; Chaves, animo sensibile come il personaggio di una fiaba per bambini e con ossa minute e fragili, prende in pieno un palo della segnaletica stradale e impatta violentemente contro l’asfalto. Viene trasportato in ospedale in gravi condizioni, per lui e la sua carriera si teme il peggio.

Il verdetto parla chiaro. “Chaves ha riportato la frattura scomposta della clavicola destra, frattura della rocca petrosa sinistra, dello zigomo, del seno mascellare e dello sfenoide destro, oltre a compressioni polmonari, diverse abrasioni e probabili infrazioni costali. Inoltre, una leggera emorragia subaracnoidea era stata rivelata dai primi esami di ieri, ma è già significativamente regredita all’esito della TAC odierna”.

Il futuro agonistico è appeso a un filo per quel ragazzo che ha compiuto ventitré anni da appena un mese e che in salita, sin da ragazzino, sapeva scavare solchi brillando come un ordigno. «Temevo di non correre più: ci sono voluti sei mesi prima che io potessi di nuovo muovere il braccio. I medici non sapevano dirmi se un giorno sarei potuto tornare in sella a una bici».

I ricordi di quell’incidente svaniscono nel tempo. Meccanismi di autodifesa, shock, voglia di dimenticare, di cancellare quel ricordo. Chaves, in diverse interviste negli anni successivi, afferma di non volere più vedere nella sua testa quella scena; dice di ricordare solo i primi cento chilometri di corsa e di essersi risvegliato all’improvviso in un ospedale italiano trenta chilometri e quattro giorni dopo.

All’inizio però quell’immagine è viva: quando riprende conoscenza, ancora ricoverato, parla con suo padre al telefono, prova a ricostruire la dinamica dell’incidente, di come si sente, delle fratture. Gli raccontano che quelle chiamate le aveva già fatte altre quattro o cinque volte negli ultimi giorni.

Dopo mesi di terapia, all’apparenza infruttuosi, torna in Colombia dove lo opera una specialista. «Passavo ore a fare terapia sperando migliorasse la funzionalità del braccio, e invece nulla. Mi operarono, mi aprirono il braccio come una piantana, ma i nervi sfilacciati e tagliuzzati erano troppo corti: mi presero dei nervi dal piede per sistemarmi del tutto».

Arriva la Orica e Chaves vede la luce in fondo al tunnel; lo chiama Neil Stephens al telefono e in un primo momento pensava si trattasse di uno scherzo. «Mi contattarono durante il periodo di inattività, un giorno Neil mi chiamò a casa, non ci credevo.  Mi hanno seguito e aiutato nel recupero, nella fisioterapia. Hanno creduto in me quando nessuno ipotizzava nemmeno lontanamente un mio ritorno in sella: questa squadra per me è diventata una seconda famiglia». E l’Australia una sua seconda patria: dal 2014 fino a oggi coglierà con la maglia di quella che prima era Orica e ora Mitchelton dodici dei suoi quattordici successi in carriera, due podi nei grandi giri, un quinto posto alla Vuelta, una classica monumento.

Salite, discese ardite, risalite

2013: un giovane Chaves nel team di Claudio Corti. Senza l’incidente del Laigueglia sarebbe stato al via di quel Giro d’Italia. ©https://www.flickr.com/photos/nuestrociclismo (CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org)

Esteban Chaves nasce a Bogotà nel 1990 e cresce nei quartieri dell’Engativá, che letteralmente significa gli “Inca della terra del sole”. Appassionato di corsa a piedi, ricorda ancora quando da bambino rimase affascinato dal mondiale di Duitama vinto da Olano davanti a Indurain e Pantani. Si appassiona veramente alla bici solo dopo aver provato il duathlon, mentre si disinteressa totalmente del calcio, una religione da quelle parti. «Ogni tanto ci gioco alla Xbox contro mio fratello, ma mi fermo lì: la mia vita è sempre stato il ciclismo».

Nel 2011 è uno degli astri nascenti del ciclismo colombiano, che l’anno prima dominava il Giro d’Italia per dilettanti con Carlos Betancur ed Edward Beltrán e il Tour de l’Avenir con Nairo Quintana. Eredita dal coetaneo con la faccia da vecchio il titolo nel “Tour dei giovani”, dimostrando simile affinità in salita, ma contrapponendo un sorriso contagioso all’ermetica espressione da sfinge del boyacense. Demolisce gli avversari in salita dopo aver accumulato ritardo nella cronometro, suo punto debole, e porta a casa l’ambita corsa.

Quell’anno insieme al padre, costruttore di mobili in legno, e al fratello minore Brayan, anche lui ciclista, fonda una squadra per giovani corridori che vuole essere punto di riferimento per chi vuole intraprendere una carriera sulle due ruote. Passa professionista nel 2012 con la Colombia-Coldeportes guidata da Claudio Corti, che diventerà una figura fondamentale nella sua crescita: lo ospiterà a casa sua in Italia e Chaves lo definirà un secondo padre. Con quella maglia, dopo aver notevolmente faticato nei primi mesi ad adattarsi allo stile di vita e di corsa del vecchio continente, vincerà ad agosto la sua prima gara, il Gran Premio Camaiore, facendo selezione sul Monte Pitoro e regolando i suoi avversari in uno sprint ristretto.

Le montagne sono il suo terreno di caccia. A suo agio con le pendenze, dolci o dure, con salite lunghe o corte, Esteban Chaves si riflette nella corsa spettacolare come l’aquila su uno specchio d’acqua; si esalta quando la strada sale e la maggior parte dei corridori non riesce a stare al suo passo. È un attaccante nato, prototipo del rapace andino.

Siamo nel maggio del 2014: Chaves plana in California su Mountain High. È la tappa numero sei dell’Amgen Tour of California. Esteban torna alla vittoria dopo due anni dall’ultimo successo e dopo poco più di un anno dall’incidente: lo fa ovviamente su un arrivo in salita. La sera prima con Matthew Hayman studia per bene le pendenze nel finale, sceglie il punto esatto in cui avrebbe staccato tutti a cinque dall’arrivo, nel tratto più ripido, quello più difficile per gli altri ma più esaltante per lui. Va in fuga con altri corridori a inizio tappa, li fa fuori uno a uno, stacca gli ultimi rimasti nel punto previsto. Un attacco calcolato, fatto da un corridore istintivo.

Un mese dopo vince a Verbier, al Giro della Svizzera, sulla salita che cinque anni prima vide uno dei momenti più esplosivi della carriera di Alberto Contador. A fine stagione Matthew White, uno dei suoi direttori sportivi alla Orica, ammette che il loro fu un salto nel buio. «Non avevamo idea quale fosse il suo livello dopo l’incidente, all’inizio non riusciva nemmeno a stringere la mano». Ora invece si accende nuovamente appena la strada sale e si schiudono le porte dei grandi giri.

Un tassello dopo l’altro

Chaves sorridente e leader della Vuelta 2015. ©Lightweightrower (CC BY 4.0)

Nel 2015 si presenta al Giro d’Italia, corsa che aveva in programma di correre già nel 2013 prima che il suo volo si spezzasse tra le strade della Liguria. Non gli si chiede che fare un po’ di esperienza, mettere assieme chilometri, di studiare da vicino scalatori e uomini di classifica più in voga in quell’edizione: Contador, Aru e Landa, che saliranno poi sul podio finale, oppure Rigoberto Urán, rivale certamente, ma anche punto di riferimento di tutta la nuova generazione di escarabajos. Sogna di vincere il Tour de France, ma per farlo ha bisogno di prendere coscienza delle sue forze, di migliorare un fisico debilitato dall’inattività ma temprato dalla sofferenza. Ha bisogno di capire quanto possa essere davvero competitivo in una corsa a tappe di tre settimane.

In quel Giro, grazie a una Orica che parte forte nella cronosquadre di apertura e che permette a Gerrans, Matthews e persino a Simon Clarke di portare la maglia rosa in giro per la penisola, Chaves sarà per un giorno capoclassifica dei giovani e vicino a conquistare parzialmente anche la maglia di leader assoluto della corsa.

Nella quarta tappa si impone un giovane Formolo. Chaves finisce in scia chiudendo con i migliori, dopo essere stato a lungo nella fuga che caratterizza una tappa dal profilo di una grande classica. Il suo compagno di squadra Clarke diventerà leader e lui subito in scia a pochi secondi. Il giorno successivo sull’Abetone paga le fatiche e perde quanto basta per lasciare per strada ambizioni di generale e di maglia bianca. Abbandonerà in maniera definitiva l’idea di fare classifica nella tappa con arrivo a San Giorgio del Sannio, finendo a quasi un quarto d’ora dal vincitore di giornata. Dopo il Giro d’Italia corre il Giro della Svizzera, ma le fatiche della corsa italiana, su un corpo che ancora deve maturare dopo il grave incidente di due anni prima, non gli permettono di mettersi in evidenza: cosa che invece accadrà verso fine stagione quando sarà protagonista alla Vuelta.

Chaves mette a punto ciò che ha imparato al Giro e finalmente il suo motore sembra girare senza intoppi. È la seconda tappa della Vuelta quando il destino di Chaves e Nibali si incrocia per la prima volta. Chaves dà spettacolo, si consacra come artista della salita. Spennella, con la mano del pittore, sulla tela che porta il gruppo a El Caminito del Rey. In salita batte tutti: è il suo volo più importante. Alla vigilia Quintana parte con i favori del pronostici, siamo negli anni in cui La Sfinge, non appena attacca il numero sulla maglia in un grande giro, diventa il favorito numero uno. Chaves batte Dumoulin con una lunga progressione su un tratto durissimo in vista del traguardo, precedendo i cugini irlandesi Dan Martin e Roche e anche Quintana, che dopo aver acceso la miccia sceglie di andare su col suo passo e di non rispondere più alle rasoiate del connazionale. È la tappa di Nibali trainato dall’ammiraglia dopo una caduta e della sua espulsione, è la tappa di Chaves in maglia rossa di leader.

Che perderà qualche giorno dopo a causa di un buco preso in volata che favorisce Tom Dumoulin. Ma lo smacco durerà meno di ventiquattro ore, perché Chaves tienes huevos, ha limiti ancora inesplorati sia per lui che per i suoi avversari. A Sierra de la Cazorla stacca tutti a inizio salita, mantenendo il vantaggio fin sul traguardo: è di nuovo maglia rossa e ora i suoi avversari iniziano a capire chi è.

Sarà una Vuelta strana, pazza, schiava di più padroni e con diversi capovolgimenti di fronte. Vincerà Aru su Purito Rodríguez e Majka; Chaves finirà quinto a due minuti dal podio, pagando uno scotto pesante e decisivo nel tappone di Cortals d’Encamp. Quel 2015 però ci mostra un corridore con doti di fondo non indifferenti, adatto anche alle corse di un giorno: ottavo al Giro di Lombardia, avrà ancora voglia di sgambettare vincendo qualche giorno dopo l’Abu Dhabi Tour. Conquista la tappa regina e la classifica finale davanti ad Aru e Poels: è pronto a correre un 2016 da protagonista.

La consacrazione

In salita al Giro 2016 con Kruijswijk, Nibali e Majka. ©filip bossuyt from Kortrijk, Belgium CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)

Il 2016 sarà il suo anno. Al Giro parte con i gradi da capitano per la classifica, ma si deve arrangiare come può perché gli australiani puntano forte anche sul giovane furetto degli sprint Caleb Ewan. Il ventunenne di Sidney trova sulla sua strada il miglior Kittel e un ritrovato Greipel che lo ingabbiano in volata: non andrà oltre al secondo posto ottenuto vicino la spiaggia di Bibione. Quando il Giro dal mare punta alle montagne, inizia lo show del corridore cachaco. Nella tappa di Cividale, dove Jungels andrà in difficoltà perdendo la maglia rosa, Chaves chiude nel gruppo dei migliori: è un antipasto tra gubane e grappa di quello che sarà il giorno dopo nel cuore delle Dolomiti.

Tappa regina del Giro, duecentodieci chilometri che da Alpago portano a Corvara. Amador ha conquistato la maglia rosa il giorno prima a causa della defaillance di Jungels. Si affrontano Pordoi, Sella, Gardena nella prima parte di gara, ma soprattutto Giau e Valparola prima della picchiata verso Corvara. L’Astana fa esplodere la corsa sul Giau, vuole distanziare Valverde e Kruijswijk, i corridori sulla carta più pericolosi tra Nibali e la maglia rosa finale. Dopo aver indurito le gambe e incattivito i pensieri sul Valparola, Nibali scatena la bagarre: vuole coprire l’orrenda striscia tricolore marchiata Astana, con la rosa del leader del giro. Amador salta, ma Nibali deve fare i conti con Chaves: i loro destini si incrociano nuovamente. Chaves e Kruijswijk lo staccano nel tratto più duro. Nella successiva discesa e poi nel finale sul Mür del Giat, Nibali è un uomo solo all’inseguimento, ma solo lo è ancora di più Darwin Atapuma davanti. Ultimo reduce della fuga iniziale, il colombiano è braccato da banditi come un anno e mezzo prima sulle strade di casa sua quando fu aggredito mentre si allenava. I suoi nemici ora hanno il volto di Chaves che lo raggiunge, lo costringe a un lungo sprint e lo stacca vincendo la volata, e di Kruijswijk che finisce secondo e va in maglia rosa. Giro ribaltato: “Esteban Chaves guía la rebelión de los escaladores en los Dolomitas“, intitolerà “El País” in Colombia.

Kruijswijk terrà per cinque giorni la maglia rosa. Il pensiero di essere il primo olandese a vincere il Giro gli mette pressione e diventa un incubo a poco più di cinquanta chilometri dall’arrivo della terz’ultima tappa, sulla discesa del Colle dell’Agnello. La fine del sogno dell’olandese coincide con l’inizio di quello di Chaves. Nibali vince quella frazione con arrivo a Risoul, dopo aver mandato in apnea i suoi avversari in salita e dopo aver seminato il panico in discesa. Chaves conquista la maglia rosa, pochi mesi dopo aver indossato quella rossa alla Vuelta. Tra lui è la vittoria di un Grande Giro restano quattro gran premi della montagna.

Nibali! Grande! Tu eres un grande campeón!

L’ultima tappa decisiva misura centotrentaquattro chilometri e porta i corridori a Sant’Anna di Vinadio dopo aver percorso un su e giù da infrangere i desideri anche al più solido dei sognatori. C’è il Vars (2108 metri), dipartimento delle Hautes-Alpes ad ispirare grandi imprese. Qui Simone Origone ha stabilito il record mondiale della velocità con gli sci un anno prima; una salita attraversata per la prima volta dal Giro nel 1949. Era la Cuneo-Pinerolo, momento indelebile di questo sport, la tappa in cui Buzzati descrisse così un Bartali in difficoltà sull’Izoard all’inseguimento vano di Fausto Coppi: “Vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango e gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo”.

I corridori si risparmiano l’Izoard, ma devono affrontare Bonnette (2715) e Colle della Lombarda (2350) nelle Alpi Marittime, più un finale dove si superano i  duemila metri verso Sant’Anna di Vinadio: un dislivello totale da far venire le vertigini anche agli stambecchi di montagna.

Davanti Rein Taaramäe va a conquistare il successo più prestigioso della sua lunatica carriera, mentre Scarponi pilota magnificamente Nibali, il quale si ispira a un certo corridore britannico, aumenta la cadenza di pedalate come un frenetico mixer e stacca tutti sul Colle della Lombarda. Chaves si difende con orgoglio, ma ogni chilometro che passa la maglia rosa si stacca dalla sua pelle, mentre al traguardo una coppia di coniugi dai lineamenti marcatamente sudamericani viene spesso inquadrata dalla televisione: sono Jairo e Carolina, i genitori di Esteban Chaves.

Chaves non ha armi da deporre, semmai accoglie tutto col sorriso; ora è Nibali a ribaltare il Giro, quando solo pochi giorni prima veniva dato sul viale del tramonto. Al traguardo non c’è spazio per l’oblio, il tifo italiano impazzisce per l’ultimo idolo di casa, ma è contagiato dalla freschezza di Chaves e prova empatia per i guai di Kruijswijk. Jairo e Carolina, per la prima volta in Europa a seguire una corsa, abbracciano e si complimentano con Nibali, con in testa il pensiero che solo tre anni prima, quel loro figlio nato per volare in salita, proprio su una bicicletta ha rischiato di vedere la propria vita frantumata.

Dopo il Giro e prima della Vuelta, Esteban Chaves correrà solo la gara dei Giochi Olimpici di Rio, dove di nuovo si incrociano i destini del colombiano e del siciliano. Chaves è l’unico colombiano a concludere la corsa, visto che Sergio Henao cade in discesa con Nibali, quando sono sul punto di conquistare le medaglie. Va alla Vuelta dove chiuderà terzo su un podio regale dietro Quintana e Froome e di pochi secondi davanti ad Alberto Contador, grazie a un rabbioso attacco nella penultima tappa che mette in mostra nuovamente tutta la sua classe, la sua forza in salita, la sua fantasia, ma anche grandi capacità nel leggere le fasi di corsa. A chi gli chiede cosa ne pensa del fatto che Quintana sia arrivato prima di lui a certi livelli, risponde col sorriso senza sfiorare l’argomento incidente: «Da noi abbiamo tante arance e non tutte maturano allo stesso tempo».

Due settimane più tardi andrà a prendersi un’altro successo di spessore vincendo il Giro dell’Emilia e precedendo in un ordine d’arrivo da tappa alpina Bardet, Urán e Aru, ma raggiungerà il punto più alto della sua maturità quando diventerà il primo colombiano a vincere una classica monumento, beffando Rosa e Urán sul traguardo del Giro di Lombardia.

Il destino è un mostro affamato

Lungo la salita verso il San Luca nella prima tappa del Giro 2019. ©Aivlis Photography

Forse il ciclismo colombiano ha trovato il corridore capace di vincere tutto e in modo spettacolare. Urán ha aperto la strada, pioniere ed esempio di questa nuova generazione. Ha masticato amaro, anche lui è caduto e si è ripreso, ma ha ottenuto soltanto onorevoli piazzamenti; Quintana ha le sue vittorie pesanti, ma anche il fardello del corridore taciturno, freddo e calcolatore che fatica a entrare nel cuore della gente, ma soprattutto l’etichetta di colui che tradirà sempre le attese al Tour de France. Se Arredondo si arrende troppo in fretta a un destino beffardo e Betancur vive fuori dalla bici i suoi momenti migliori, il tifo e le speranze colombiane si riversano tutte, o quasi, sul piccolo scalatore di Bogotà.

Il suo 2017 inizia in Australia, la sua seconda casa. A malincuore deve rinunciare al Giro che tanto gli ha dato l’anno prima, perché la sua squadra ha un piano ben definito: provare a vincere con lui il Tour de France. Ma la stagione si rivela un disastro. Dopo aver corso tra gennaio e febbraio nell’altro emisfero, si deve fermare per un guaio al ginocchio. Torna dopo mesi di inattività al Delfinato per prepararsi al Tour, senza ottenere nessun risultato di rilievo nelle corse francesi, trovandosi relegato a ruolo di gregario di Simon Yates. Dopo una Vuelta chiusa in calando (undicesimo posto finale), ecco rivivere di nuovo in una corsa italiana l’incubo di qualche anno prima.

Giro dell’Emilia, discesa del San Luca: Chaves comanda il gruppo con coraggio, pur non essendo il miglior discesista del gruppo. Entra in curva in testa, ma passa sopra una chiazza umida sull’asfalto, perde il controllo della bici e va a terra. Caduta paurosa che lascerà nuovamente i segni sul suo corpo: frattura della scapola, stagione finita e niente possibilità di difendere il titolo né in quel Giro dell’Emilia né al Lombardia.

Il 2018 dura invece il tempo di un guizzo in salita: fuori tempo massimo alla Parigi-Nizza, ritirato al Catalunya, illude vincendo la tappa dell’Etna al Giro arrivando sul traguardo in parata con Simon Yates. Quando la strada sale, la sofferenza diventa la sua massima ispirazione. Esce di classifica nella tappa che segue il giorno dopo il riposo con arrivo a Gualdo Tadino e viene di nuovo relegato a modesto gregario per il compagno di squadra britannico. La sua stagione finirà a Roma: gli viene riscontrato, dopo mesi di difficoltà e di analisi, il virus Epstein-Barr, che lo demolisce. Tuttavia, senza togliergli la determinazione, come sottolinea il suo compagno di squadra Edmonson: «Mai visto uno più in gamba di lui: anche quando pensi che si stia per spezzare, lui resta tutto intero. Non ho parole per descriverlo».

Ci vogliono duecentocinquantacinque giorni per rivederlo in corsa. Torna in gara a inizio 2019 dopo aver buttato via per la seconda volta in sei anni una stagione, o quasi, intera. Si rivede alla Vuelta a la Comunitad Valenciana, dove chiude trentaseiesimo nella cronometro d’apertura. Il sorriso è quello di sempre, l’approccio alle gare anche, ma con un timore: «Ho paura, in gara come in allenamento, di non tornare più quello che ero prima».

Sulle salite di questo Giro, Chaves cerca risposte sulla sua condizione e sul suo livello, e noi staremo qui ad osservare e a domandarci come avrà fatto per l’ennesima volta a superare dolore e sofferenza. Anche se, come ha detto Claudio Corti in un’intervista: «Cosa ne sappiamo noi del dolore di Chaves?».

 

 

Foto in evidenza: ©Aivlis Photography

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.