La storia irripetibile di un campione controverso, malinconico e fortissimo.
Luis Ocaña, nei suoi quarantanove anni di vita, è stato l’emblema dell’ineffabilità. La Treccani segnala “indicibile” come sinonimo di “ineffabile”, ma allo stesso tempo anche “straordinario”, “eccezionale”. L’ineffabile non può essere detto, ma può essere rappresentato. Anzi, l’ineffabile rappresenta. Attraverso i tratti somatici: quelli di un’angoscia, di linee squadrate e spigoli abbozzati. Qualcuno, a proposito di alcuni fotogrammi di Ocaña, ha parlato di deposizione di Cristo. Di Pietà. L’ineffabile rappresenta attraverso azioni quotidiane che cercano di incidere quella realtà che si nega alle parole ma che sfinisce. Luis Ocaña aveva chiamato Merckx il suo cane per potergli dare ordini, illudendosi di poter mutare l’immutabile: la supremazia di Eddy Merckx – El Puta, come lo aveva rinominato con disprezzo.
Aveva preso a martellate gli alettoni della sua Porsche per migliorarne le prestazioni. Aveva forato con una pistola una padella affinché Anquetil potesse cuocervi le castagne. In corsa, strappandosi il dorsale, aveva forato con degli spilli anche i suoi muscoli, per riportarli alla vita, per cambiarne lo stato. Forse per questo uno fra i pochi libri letti dal ciclista di Priego, nella Mancia, è Don Chisciotte. Lottare contro i mulini a vento, in fondo, è lottare contro una realtà che realtà non è più proprio nel momento in cui la sfidi. Una lotta contro quell’ineffabilità per provare a far sentire, a far vedere ciò che senti senza parlare.

Del resto a parlare poco Ocaña aveva imparato da bambino, a sei anni, nel 1951: gli anni del franchismo, quando per la povertà e per la scarsità del lavoro passó con il padre la frontiera tra Spagna e Francia scavalcando il Portillon. Qualcuno narra che il padre avesse una valigia di cartone, permeabile a tutto ma non alle speranze, quelle che quel giorno provó a regalare a suo figlio. La vita no.
La vita inizió a perseguitare Ocaña sin dalla scuola dell’infanzia. Luis non sapeva il francese, in Occitania però quello si parlava; lo spagnolo suonava strano per quei bambini, non poteva capire le parole dei suoi compagni ma vedeva gli occhi, vedeva la gestualità, sentiva quel mormorare alle spalle che vuol dire: no, tu non sei accettato, per te non c’è spazio. Sentiva tutto, Luis. Non poteva esprimerlo per una ineffabilità che qui ha a che vedere con il nomadismo del destino, con la comunicazione verbale che ha più falle di quelle che potrebbe riconoscerle qualsiasi grammatica.
Così, a quindici anni, inizia la trasposizione di Ocaña. Lascia la scuola per andare a lavorare, a faticare. C’è la possibilità che la fatica lavi via, anche solo per qualche istante, qualche dolore di troppo per un ragazzo: Ocaña ne approfitta. Lavora come garzone nella bottega di un falegname: quasi trenta chilometri da casa, tra andata e ritorno. Sempre e solo in bicicletta. Poi le firme falsificate per correre, questa volta in gara, con la divisa del Mont de Marsan. Sì, perché forse anche quel padre che voleva regalargli speranze non aveva capito a fondo cosa fosse una speranza per Luis.
Forse, ma dirlo oggi è un azzardo, per Luis la speranza era che qualcuno potesse ascoltare un vuoto, una negazione, un rinnegato. Dalla sua terra prima di tutto, la Spagna, che lo considerava un traditore; e dalla Francia, la matrigna, che lui stesso aveva rinnegato faticando a farsi perdonare dall’orgoglio dei francesi. Ocaña avrebbe sperato nella comprensione dei gesti perché lui che parlava poco nei gesti naufragava. Come quella vittoria alla seconda gara. Quella che avrebbe concesso una possibilità a tutti, non a lui. Non da suo padre.

Provare a farsi capire e magari a farsi salvare, per questo pedala Ocaña. Tanto inadatto alla vita quanto fatto per quei pedali. Nel 1968 corre e vince la prova a cronometro dei campionati nazionali. La sua testa è però in ospedale, dal padre, che lotta contro un cancro allo stomaco. Quel pomeriggio il figlio vedrà il padre piangere con quella maglia distesa sul letto. Ma c’è troppo dolore per parlare, per dire anche un solo “Bravo, figlio mio”. E nella mente di Ocaña pesano ancora le parole non dette, un tarlo che lo logora ancor più dopo la morte del padre: ma perché piangeva il padre? Per la maglia o per gli spasmi del male? Un dubbio intollerabile che monta dentro. A tratti sembra di rileggere qualche riga scritta sul passaporto di Marco Pantani, in particolare quel “poi come fai a non farti male?” che colpí lo stesso Gianni Mura, cantore di entrambi.
La risposta è che a certe condizioni non puoi non farti male. Se non te lo fai, te lo fanno. Ma il tuo essere non perdona. Arriveranno gli anni in cui anche i francesi osanneranno Ocaña: alla fine degli anni sessanta, dopo le vittorie al Tour du Roussillon, al Grand Prix de Midí Libre, dopo le tappe a La Vuelta Andalusa e la vittoria alla Vuelta. Non lo osannavano per quello che era ma per quello che avrebbero voluto rappresentasse: la fine di Eddy Merckx. E lui ci credeva. Le uniche parole che pronunciava erano contro il Cannibale:
“Ma possibile che nessuno lo attacchi? Che nessuno ci provi? Ma perché questa reverenza per Merckx?”.
Lui no, lui non voleva inginocchiarsi davanti al Cannibale, lui voleva sotterrarlo a rischio di essere sotterrato.
Aveva smesso anche di ascoltare le parole della gente, francesi o spagnoli che erano soltanto dei voltagabbana. Lui si ricordava gli sputi che aveva ricevuto da bambino e le manciate di applausi non avrebbero dovuto avere molti effetti. Invece li ebbero. Li ebbero perché alla gente hai comunque bisogno di credere, almeno ogni tanto, per uscire dal quel niente pieno di tutto. La forza può arrivare proprio da lì: dal sapere che qualcuno inizia a crederti, a capirti. Il 7 luglio 1971 è uno di quei giorni. La tappa è la Grenoble – Orcières-Merlette, 134 chilometri nel forno della Francia. Merckx non è più un saldo imperatore; prima vacilla e poi crolla. Ocaña vince. Di più: rifila nove minuti a El Puta. In quei giorni dirà ad un giornalista francese che se qualcuno si fosse presentato da lui con un contratto che ponesse come condizione per la vittoria del Tour la morte sui Campi Elisi, lui avrebbe firmato senza nessuna remora.

Da Merckx però bisogna guardarsi: a parole sembra un cagnaccio rassegnato, ma i fatti dicono altro. A Marsiglia il belga attacca mentre lo spagnolo sta ancora firmando degli autografi: una rincorsa folle, una corsa che arriva in città con ore di anticipo e un sindaco che giura di non volere più il Tour nelle sue strade. Solo due minuti recuperati. Troppo pochi. Il 12 luglio arriva così: l’ultima possibilità proprio nel giorno in cui il Tour per andare da Revel a Luchon, attraversando i Pirenei, toccherà anche Mont de Marsan. La città che fu di Ocaña proprio quando nessuno lo avrebbe voluto. Quando parte la fuga di giornata splende il sole, fa caldo. Merckx non sopporta il caldo, Ocaña lo ama. Sembrano due uomini agli antipodi: l’uno in testa, l’altro in coda. L’uno pronto a rinascere, l’altro a cadere senza gloria: troppo distanti per poter pensare che il destino passerà dallo stesso punto per entrambi.
Poi inizia a piovere. Sempre più forte. C’è un cielo indiavolato che rovescia sui Pirenei l’iradiddio. Ad un certo punto il freddo congela l’acqua: grandina. Lungo la discesa del Col de Mente Merckx sbanda, la bici perde aderenza; se il belga rimane in sella deve ringraziare il muretto sul quale ha sbattuto. Poi riparte. Ocaña imposta male la curva, non riesce a tenersi in piedi, frana contro quel muretto. Il fango gli blocca le ruote. Non c’è possibilità. Zoetemelk, Agostinho e López Carril, scendendo in picchiata, non vedono nulla. La pioggia intensa copre i contorni delle cose. Si accorgono che Ocaña è a terra solo quando gli franano rovinosamente addosso: lo sentono urlare, piangere. Lo vedono con la bocca aperta e lo sguardo volto al cielo.

Al mattino si dice che il corridore di Priego fosse andato in una cappella a pregare: forse per il padre, per avere una rassicurazione su quello che lui avrebbe voluto fosse. Per poter credere che quel giorno, se fosse arrivato a Luchon in giallo, gli sarebbe stato perdonato tutto. E magari da qualche parte sarebbe arrivata la consapevolezza che, in fondo, era sempre andato bene così come era. Niente da fare. Quel Tour finí in ospedale, consegnandogli solo un’ossessione in più. Un mostro in più da annientare dentro di sé, prima che in sella.
Non bastava più vincere il Tour, cosa che peraltro fece nel 1973: bisognava vincere il Tour contro Merckx. E nel 1973 Merckx non c’era. Ineffabile come sempre, Ocaña, anche in quegli anni. Pur di sfidarlo e provare a batterlo, una volta lo trascinò al bancone di un bar, forse più per vederlo sfinito, consumato, annientato che per batterlo. Lo vide faticare a reggersi in piedi ma il duello finí alla pari. Dalla bicicletta scese definitivamente nel 1977. Si privò così di quel mezzo che per lungo tempo aveva creduto essere la possibilità di una nuova comprensione.
A poco più di quarant’anni Luis Ocaña si ritirò nella propria casa di Marsan. Fra le vigne di quel paese, a raccogliere uva per produrre Armagnac. Fra un matrimonio alla deriva con Josiane e lo sguardo fisso a Marie-Jo, la donna per cui avrebbe voluto porre fine a quel matrimonio. Non ci riuscì. Il 19 maggio del 1994, un giovedì, una nuova furibonda lite con la moglie; Ocaña poco dopo le tredici telefona ad un amico. Non dice molto, ma è come se dicesse tutto:
“Non ce la faccio più”.
Appende la cornetta. Scende in cantina. Prende il fucile, lo punta alla tempia ed esplode il colpo. Preme il grilletto con la mano sinistra; non è mancino. Dovrebbero esserci dubbi. Ci sono. Ma i tribunali dicono che è suicidio e ciò che dicono i tribunali è realtà, anche se potrebbe non esserlo. Quel pomeriggio si compì un gesto, l’ennesimo, e poi basta. Quello che fece capire tanto, forse anche troppo. Troppo tardi. Perché nulla basta, forse nemmeno un Tour de France contro Merckx, se non c’è comprensione.
Foto in evidenza: ©Bastien M, Wikipedia