Scomposto, indecifrabile, onnipresente: Ryder Hesjedal è stato un corridore unico.
Quando uno sportivo o una sportiva si ritira, in questo caso un ciclista, è sempre interessante capire se a quella decisione ha contribuito un piano preciso in mente per il futuro oppure soltanto il fisiologico calo agonistico dovuto all’avanzare dell’età. Una cosa non esclude l’altra, eppure in base alle risposte che si ricevono dagli atleti e dalle atlete emerge un certo modo di affrontare le cose che di solito è speculare a quello mostrato in gara.
Da questo punto di vista, l’addio di Ryder Hesjedal al ciclismo è molto interessante. Siamo alla fine del Giro di Lombardia del 2016, una corsa strana che certifica il valore di Esteban Chaves, primo sul traguardo, e che appunto conclude la carriera di Hesjedal, il quale non riesce nemmeno a finire la corsa.
All’inizio, l’intervista a caldo con Cycling News non vorrebbe nemmeno farla, poi si ricrede e inizia a parlare in maniera illuminante, racchiudendo in poche frasi l’essenza di una persona che decide di intraprendere una carriera per definizione precaria e circoscritta come quella del professionismo sportivo: non so se è la fine, vedremo, ogni fine è anche un nuovo inizio, non sai quello che farai finché non lo fai, non sai di che si tratta finché non finisce davvero. È vero, sono risposte vaghe, ma non di circostanza; anzi, raccontano un modo preciso di interpretare il futuro che ha molto a che fare con il vivere hic et nunc.
Nel giorno del suo ritiro, Hesjedal sapeva soltanto che gli sarebbe piaciuto continuare ad andare in bicicletta e che, anzi, l’avrebbe fatto senz’altro: solo senza correre da professionista. Sapeva che non sarebbe voluto diventare un direttore sportivo e che avrebbe dovuto rescindere il contratto di affitto della sua casa a Girona, poiché sarebbe tornato in Canada. Sapeva tante cose che avevano a che fare con il presente, che è probabilmente la migliore strategia per affrontare il futuro.
Ryder Hesjedal è un canadese, più precisamente originario del distretto di Highlands, Victoria, British Columbia, vicino al confine statunitense. Il distretto non ha particolari luoghi di interesse, conta un paio di migliaia di abitanti e per i bambini iperattivi come Ryder non è proprio il massimo. Da piccolo pratica ogni sorta di sport, ma per raggiungere i vari impianti di baseball, basket e calcio c’è da fare svariate miglia e la bicicletta è il mezzo più comodo.
Il giovane Hesjedal continua a dire che vuole diventare un campione di baseball, gli piace molto anche la pallacanestro, ma quando un amico di famiglia organizza una corsa di mountain bike nella zona, ecco, quella per Hesjedal è subito una priorità, tanto da saltare un’importante partita di basket. Vivere nel momento, hic et nunc: già dall’inizio si intravede quell’approccio che caratterizzerà tutta la sua esperienza ciclistica.
I suoi genitori erano convinti che alla fine avrebbe optato per una carriera sportiva, ma a malapena sapevano che il ciclismo fosse uno sport professionistico, men che meno che fosse in grado di garantire uno stipendio. In effetti la mountain bike non è un lauto mercato, anche se il ragazzo nel fango va forte per davvero. A diciott’anni è secondo tra gli juniores al Mondiale di mountain bike, a ventuno è di nuovo secondo tra gli Under 23, a ventitré si conferma d’argento anche nella categoria élite.
Sembra tutto apparecchiato per il trionfo al grande appuntamento, quello a cinque cerchi, ma i Giochi Olimpici di Atene 2004 si rivelano una tremenda delusione: Hesjedal viene tradito da una foratura, il sogno olimpico svanisce in un batter d’occhio e il canadese si convince che la mountain bike è il passato. Vivendo nel momento, nel senso più stretto del termine, a una delusione segue una scelta dettata dall’istinto, ovvero un’informazione che il nostro cervello spara prima ancora di averla elaborata. Hesjedal sa perfettamente quello che sta facendo.
Firma un contratto con la Discovery Channel di Lance Armstrong e grazie a quell’ambiente capisce in fretta che la strada è quella giusta, che la mountain bike gli ha dato più o meno tutto quello che cercava dalla sua prima esperienza “vera” in questo sport. Adesso è in una delle squadre più forti del circuito, partecipa alle corse più prestigiose, ha anche il primo assaggio con il Giro d’Italia, che nel 2005 finirà nelle mani di Paolo Savoldelli, un uomo Discovery. Hesjedal non riuscirà a finire quel Giro, ma agli addetti ai lavori non sfugge la sua stagione, la sua promettente ascesa nelle prove a cronometro e in generale la possibilità di plasmare un corridore con delle caratteristiche fisiche e tecniche da corsa a tappe.
L’anno successivo viene ingaggiato dalla Phonak di Floyd Landis, un’altra icona del ciclismo americano che nel giro di un’estate scomparirà dai palmarès ciclistici, dal momento che quel Tour de France (e non solo) lo vince con un preponderante aiuto chimico. La Phonak collassa intorno al suo ciclista di riferimento e nel giro di pochi mesi smette di esistere. Per Hesjedal è dura da digerire, ma lui vive focalizzato sul momento e la situazione richiede un cambio di scenario repentino che lo faccia stare di nuovo bene. Firma con l’americana Healt Net, una formazione Professional lontano dal clamore europeo: corre esclusivamente nel Nord America, sta vicino ad amici e famiglia, vince la sua prima corsa da professionista aggiudicandosi il titolo nazionale canadese a cronometro; il palcoscenico non sarà prestigioso, ma l’interesse per il profilo non è scemato per nulla.
Ad esempio c’è questo signore, un ex ciclista un po’ eccentrico e senza peli sulla lingua, che si chiama Jonathan Vaughters e che guida la Slipstream (poi Garmin, oggi Education First). Lo approccia durante il Tour of Georgia, il feeling tra i due è immediato, la base europea è a Girona, Spagna, un posto che diventerà la seconda casa di Hesjedal. Decimo alle Strade Bianche, ottavo alla Tirreno-Adriatico, al Tour de France è il gregario più prezioso per Vandevelde che anche grazie al canadese conquista un formidabile quarto posto nella generale, per distacco il suo risultato più altisonante. Hesjedal è sempre lo stesso: rilassato, divertito, il più possibile lontano da conflitti esterni; e più passa il tempo, più si convince che vale la pena dare retta a poche persone. Una di queste è Vaughters.
Il 2010 è l’anno della rivelazione: all’Amstel Gold Race si arrende soltanto a una di quelle fulminanti accelerazioni di Gilbert, ma si lascia alle spalle gente come Gasparotto, Kreuziger, Cunego, Fränk Schleck. Non è chiaro se si tratti di un corridore da grandi corse a tappe, ma il Tour de France è la vetrina perfetta per legittimare il suo posto tra i grandi. Arriva terzo sul Tourmalet e chiude al sesto posto nella generale; la scommessa di Vaughters inizia a pagare i suoi dividendi e a Victoria, la città natale di Hesjedal, anche i quotidiani devono ritagliare uno spazietto per lui tra Steve Nash e Nelly Furtado.
Il colpo grosso arriva due anni dopo, al Giro d’Italia, quella stessa corsa che il canadese non aveva nessuna intenzione di correre e che Vaughters e Wegelius (fresco direttore sportivo della Garmin) lo hanno convinto a cerchiare di rosso sul calendario, perché quello sarebbe stato il terreno della sua consacrazione. Non ce ne vogliano i ciclisti coinvolti, ma non si dovrebbe fare un torto a nessuno definendo il Giro d’Italia 2012 uno dei meno tecnicamente altisonanti dell’ultima decade. I nomi di certo non mancavano, ma gli unici due ad essere arrivati nella miglior forma possibile erano Hesjedal e Rodríguez.
Il grande favorito sembrava essere Ivan Basso, ma il campione della Liquigas più faceva lavorare la sua squadra e più le gambe non rispondevano in maniera appropriata. Scarponi corse un Giro generoso, come al solito, ma mai davvero efficace sul lungo periodo, mentre Urán stava assaggiando per la prima volta i gradi di capitano sulle tre settimane. La lotta fu appassionante, Hesjedal e Rodríguez interpretavano due modelli di ciclismo quasi agli antipodi, dove la fatica e la costanza si scontravano con la rapidità e l’eleganza: da una parte un profilo scomposto ed operaio, dall’altra una figura ondulante sui pedali, capace di sferrare attacchi mortiferi quando la strada inizia a salire.
Il 2012 però è l’anno che annuncia un cambiamento decisivo nel ciclismo moderno, battezzando un corridore nuovo per i grandi giri, diverso da quello archetipico. Al Tour de France Wiggins e Froome ribalteranno i pronostici, al Giro d’Italia è proprio Hesjedal a sovvertire le gerarchie mentali degli addetti ai lavori. La sua natura di cronoman, la sua costanza sulle salite e l’incredibile resistenza sulle tre settimane sono i tre elementi che ne caratterizzano il successo.
La maglia rosa la porta per poche tappe, Rodríguez è senza dubbio più forte nella singola salita, ma non basta; Hesjedal non ha praticamente mai una giornata storta, sull’Alpe di Pampeago esprime tutta la diversità delle montagne, di come si adattano a ciclisti differenti, di come lo scalatore puro è più che battibile anche se le pendenze sembrano dire il contrario. Il ciclismo sta assumendo una connotazione tattica e “numerica” che non aveva mai avuto e la vittoria di Hesjedal ha una grande componente di studio e preparazione, tanto che alla fine, a Milano, sfila la maglia rosa dalle spalle di Rodríguez per appena sedici secondi. Un computer.
Si toglierà ancora una soddisfazione due anni dopo, alla Vuelta, vincendo una tappa dura in uno scenario che lo vedrà arrivare a Madrid al trentatreesimo posto nella generale. Non riuscirà mai più ad essere competitivo nelle corse a tappe; l’ultima parte di carriera non riserva particolari soddisfazioni a un corridore che comunque aveva già raggiunto e superato tutti i suoi obiettivi.
Quando si parla di questi corridori, capaci di imprimere il loro nome nell’albo d’oro di un grande giro per poi scomparire dalle prime file, si fa sempre fatica a capire il perché e il per come. Fortuna? Stato di forma? Allineamento dei pianeti? Tutte queste cose, senz’altro; c’entra molto anche il modo di correre degli altri: al Giro d’Italia 2012, ad esempio, il lavoro della Liquigas è servito molto più a Hesjedal che non a Basso, con quei ritmi costanti e martellanti che non danneggiavano il canadese ma che facevano male a Rodríguez. Forse, prima della tappa dell’Alpe di Pampeago, nessuno pensava veramente che il corridore della Garmin fosse una reale minaccia per la maglia rosa: e questo è un altro fattore, ovvero la capacità di essere, per tre settimane, il ciclista più in forma del gruppo senza che nessuno se ne accorga.
Continuerò a correre; amo correre; per questo non è davvero la fine; è sempre stato per correre in bicicletta. Ho scoperto le gare dopo che correvo già da un po’, ho corso per vent’anni e adesso correrò di nuovo. Si è chiuso un cerchio. Il resto vale la pena analizzarlo, ma fino a un certo punto.
Foto in evidenza: ©Giro d’Italia, Twitter