Non esistono parole giuste per uno dei più grandi scalatori di sempre.
Caro Contador,
non so se sai, o immagini, come funziona un pezzo giornalistico. A essere sincero non lo so nemmeno io, che mi propongo come giornalista senza esserlo in pratica. Non ho il tesserino, il patentino o quel che è: se lo avessi cambierebbe qualcosa? Non credo. Non si è giornalisti perché si ha un tesserino che lo dimostra così come non basta pedalare abbastanza forte per essere un ciclista professionista. Perché ti dico tutto questo? È molto semplice: quando devo scrivere un pezzo, penso subito all’attacco e alla conclusione; solitamente, il resto viene da sé. Ecco, siccome quando si parla di te, di Alberto Contador, mi vengono in mente troppe cose, sappi che questo pezzo avvia in questo modo senza che io lo immaginassi e che non so garantirti nulla sul suo proseguimento.
Prima di tutto, anche se già lo saprai, l’ultima stagione, la prima dopo il tuo ritiro, è stata gradevolissima. La Vuelta ha lanciato una nuova generazione di scalatori, il Tour de France non è stato eccezionale ma Thomas, Dumoulin e Roglič così in alto alla Grande Boucle sono pur sempre una novità, le cinque Classiche Monumento sono state una migliore dell’altra. Il Giro d’Italia è stata la più bella corsa a tappe degli ultimi anni. Froome, il tuo boia, si è inventato un’azione che nemmeno tu hai mai portato a termine: l’hai pensata, sicuramente, ma non sei mai riuscito a completarla. Questo breve resoconto mi è servito per sottolineare, caro Contador, che c’è del movimento anche senza di te. D’altronde, il coraggio non l’hai inventato tu, così come non sei stato il primo ciclista ad attaccare da lontano: nemmeno Pantani, Chiappucci, Hinault, Merckx, Coppi e Bartali furono i primi. Nemmeno Bottecchia. Chissà chi è stato il primo corridore che ha attaccato per volontà e che non si è ritrovato da solo in testa per selezione naturale.

Non manchi al ciclismo ma questo già lo sapevi, altrimenti il ritiro sarebbe stato insopportabile. Quelle poche volte in cui sei mancato, ce ne siamo fatti una ragione. La qualità che più ho apprezzato di te, caro Contador, è stata questa: hai sempre avuto un’idea chiarissima di te stesso e, in ogni frangente, hai fatto di tutto per assomigliarci. Quando eri il più forte del mondo, ti presentavi alla partenza dei grandi giri con un unico obiettivo che qui è inutile ricordare: per questo esistono i palmarès.
Quando, col passare del tempo e degli eventi, ti sei ritrovato meno brillante e più vulnerabile, hai cambiato pelle con la stessa naturalezza di un serpente, con la stessa dignità di un padre di famiglia che, pur di mandare avanti la baracca, fa un lavoro che non lo appaga. Vincere o perdere non passava tra i tuoi rischi, potevi farne a meno; la sconfitta la conoscevi bene, da quando quell’aneurisma fece il suo corso e tu rischiasti la vita. La tua non era né voglia di vincere né paura di perdere: era necessità di emergere, di brillare, di distinguersi.
Io, caro Contador, non credo nel destino. O meglio, non credo nel destino inteso come un qualcosa di ineluttabile che ci cade addosso dal momento in cui veniamo al mondo. Io credo che il destino sia ciò che noi pensiamo e facciamo da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire, mentre l’esperienza mi sembra una somma di momenti fondamentali ma che, se tornassimo indietro, faremmo volentieri a meno di rivivere. Posso credere ad un destino che ha dato a te, uno dei corridori più imprevedibili degli ultimi decenni, un cognome come Contador, contatore?
Tu che non hai mai contato né i chilometri, né i minuti, né i rivali. Credo, invece, nell’impatto che hanno avuto alcune tue mosse. Ripenso alla semplicità con la quale, al Giro d’Italia 2011, hai seminato la compagnia e lasciato vincere Tiralongo a Macugnaga. “Parti ora”, gli dicesti ai meno sei dall’arrivo, in totale controllo emozionale della corsa; “mettiti dietro”, gli ordinasti quando lo riprendesti ai meno cinquecento dall’arrivo. Ricordo anche Fuente Dé, alla Vuelta del 2012, praticamente un saggio su come trasformare la lamentela e l’arrendevolezza in opportunità. Ricordo il Contador del 2014, il migliore delle ultime stagioni. Al Tour de France ti rompesti la tibia, risalisti in sella per qualche chilometro salvo poi ritirarti in lacrime: poche settimane più tardi ti fotografarono da solo, in allenamento, nella nebbia delle montagne, tutta fatica che ti tornò utile per vincere la Vuelta.
Ricordo, infine, la tua vittoria sull’Angliru. Secondo gli antichi, una tragedia è la rappresentazione di un uomo tendenzialmente migliore di tutti gli altri, le cui disgrazie suscitano pianto e disperazione. Sei stato costante e diverso anche in questo, hai persino stravolto un genere: sei stato per tutta la tua carriera un uomo tendenzialmente migliore di tutti gli altri e hai legittimato questo status anche nel momento conclusivo, quando nessuno ormai ti chiedeva più nulla.

È indicativo ricordare anche i nomi degli avversari che hai incrociato. Hai iniziato a vincere con una maglia pesante, quella della Discovery Channel, resa celebre da Armstrong e vestita soltanto in allenamento da Basso prima che scoppiasse l’Operación Puerto. Hai smascherato il doping di Rasmussen, hai consegnato ai posteri insieme ad Andy Schleck l’ultima grande rivalità nella storia del Tour de France. Aru ti ha fatto tremare, Froome soffrire, Mas sorridere. Lo hai indicato come tuo erede, lo hai avuto nella tua squadra di giovani, te lo sei ritrovato tra i piedi sull’ultimo Angliru: i più ingenui (presente) ritenevano che volesse strozzare il tuo canto del cigno, i più scafati fecero notare che ti stava aiutando.
L’ultima edizione della Vuelta alla quale hai partecipato, caro Pistolero, sembrava l’avessi disegnata tu. Uno strappo qui e una salita là, ché tanto il ciclismo è spettacolo e il coraggio è direttamente proporzionale ai chilometri che restano: più ne mancano e più ce ne vuole. Se il sistema messo in piedi da Armstrong è saltato, forse molto lo dobbiamo a te. Il texano tornò per batterti, non gli stavi simpatico, non poteva accettare che uno spagnolo smilzo ridicolizzasse così la concorrenza. Lui ti chiamava pistolero e tu lo seminavi per le Alpi e i Pirenei. Le tue vittorie e le indagini che intanto andavano avanti finirono per minarlo. Te lo ricordi, Contador, quel periodo? Eri una divinità, avevi un effetto psicagogico: trascinavi le anime della massa. Poi, improvvisamente, per qualche zero virgola mai del tutto chiarito, ti sei trovato dall’altra parte della barricata: da giustiziere a complice di Armstrong. Il pubblico vuole vedere il sangue: non c’è nessun ciclista più grande del ciclismo.
Dalle foto che ogni tanto mi capita di vedere, sembra tu te la stia passando bene. La faccia da brigante ti è rimasta, il sorriso ammalia ancora, l’efficienza in sella sarà sicuramente diminuita. Ti dividi tra sponsor, corse e giovani, non ci sarà mai più un altro Alberto Contador ma questo non significa che non possa nascere qualcuno più forte e amato di te. Una critica, però, sento di dovertela fare: con che coraggio critichi chi si fida troppo dei numeri? Li hai usati anche tu, non prendiamoci in giro: nei test, in allenamento, anche in corsa.
Prima della squalifica non eri così coraggioso e sfrontato. Mi viene in mente l’affondo su Andy Schleck che imprecava a bordo strada con la catena andata: hai affondato quando lui si è piantato. Per molti è la normalità, io non sono d’accordo: un conto è proseguire con quel ritmo, un conto è approfittarsene così tanto. Tra i due, quello che ne uscì ingigantito fu il lussemburghese: si comportò da signore, non ti disse niente o quasi, ti sfidò ancora e ancora guardandoti dritto negli occhi. Tu, in compenso, dimostrasti di essere umano: anche la forza, per quanto schiacciante, non può non nutrirsi della debolezza. Insomma, Contador, mica sei sempre stato il bandito che per evadere ne inventava di tutti i colori.
Come disse Aleida March svelando i seppur pochi momenti di debolezza o stanchezza del marito, “neppure il Che poteva essere sempre il Che”. Non so cosa tu possa sapere del Che Guevara, Contador. Chissà che idee politiche hai, cosa voti, per cosa ti immoleresti: forse per nulla, anche perché pedalare per un decennio ai tuoi livelli significa concedersi poco altro. Non era di certo un santo, ha ammazzato ma anche salvato: probabilmente è stata una persona migliore di quello che molti pensano o dipingono; sicuramente è stato un essere umano, irripetibile ma pur sempre umano. Ecco, io non so cosa tu possa dire a riguardo. Io, scommettendo sulla mia fantasia, ti dico che col Che Guevara, a Cuba o in Bolivia, per foreste e città poverissime, con un fucile a tracolla a far saltare ponti e a sperare in un mondo migliore, ti c’avrei visto proprio bene.
Foto in evidenza: ©Josh Hallett, Flickr