Fumiyuki Beppu ha dovuto lottare per sfatare i tabù ciclistici giapponesi.
La Parigi-Roubaix è la corsa preferita di Fumiyuki Beppu da quella volta in cui, nella versione riservata ai dilettanti, arrivò tredicesimo. «Perché nel ciclismo odierno, così tecnologico e così avanguardistico, si continua a disputare una corsa del genere?», filosofeggiava recentemente in un’intervista concessa a Procycling. «Credo abbia a che fare con lo spettacolo», rispondeva poi a sé stesso. «I grandi giri sono bloccati, si raggiungono velocità altissime ma di spettacolo ce n’è poco: così la gente si annoia. Ecco perché amano le classiche: per lo spirito e l’aria battagliera che si respira».
In Beppu, tuttavia, la soddisfazione per quel piazzamento svanì come polvere: poco dopo si aprì la faccia in una brutta caduta e per richiudergliela ci vollero trenta punti. Proprio adesso che stava preparando la prova in linea del campionato giapponese. In quella corsa non riponeva qualche speranza, bensì la sua intera carriera: militava in una squadra francese, la Vélo-Club La Pomme Marseille, e voleva capire una volta per tutte se il professionismo potesse essere alla sua portata. «Se non vinco con un ampio distacco», promise, «torno in Giappone e faccio il cameriere».

A quarantacinque chilometri dal traguardo rimase solo, Beppu, e vinse con quasi cinque minuti di vantaggio sul secondo classificato. Un anno e mezzo più tardi, sul finire del 2004, raggiunse la nuova squadra in ritiro, la sua prima tra i professionisti: la Discovery Channel di Lance Armstrong. Quando Bruyneel lo chiamò proponendogli un contratto, Beppu pensava scherzasse. No, non scherzava, se è vero che Bruyneel lo volle anche qualche anno più tardi alla RadioShack. Di quel primo ritiro si ricorda bene Roger Hammond, l’esperto passista americano che si ritrovò a dividere la camera con Beppu. Non masticando l’inglese, Beppu continuava a ripetergli soltanto quelle cinque parole che conosceva: «Roger, I am so happy».
E felice lo era davvero, Beppu. Lo è tutt’oggi, altrimenti non sarebbe ancora un ciclista professionista. Di quella Discovery Channel è rimasto solo lui. Di certo a mantenerlo vivo non sono state le vittorie: non ne ha ottenuta nemmeno una, l’unica volta che poteva farcela al Romandia del 2007 si fece anticipare da Matteo Bono. Beppu, che ha compiuto trentasette anni ad aprile, afferma che a lui più dei risultati interessano le sensazioni. Una frase fatta, può darsi, quella del gregario che sa di non poter vincere e maschera questo limite come meglio riesce. Però Beppu è ancora in gruppo dopo quindici anni di professionismo: se ad aiutarlo non sono state le vittorie, allora cos’è stato?
La piacevolissima sensazione d’essere il primo ciclista giapponese a fare diverse cose, forse. Intanto a rompere i tabù: in Giappone i ciclisti si concentrano sulla pista e sul Keirin, mica sulla strada. Sbagliato, evidentemente: Beppu è stato il quarto corridore giapponese a terminare il Giro d’Italia e il primo, insieme ad Arashiro, a portare a termine il Tour de France. Era il 2009 e in classifica generale Beppu anticipò Arashiro di diciassette posizioni e ventuno minuti. Entrò due volte tra i primi dieci di giornata, ottavo a La Grande-Motte e settimo ad Aubenas, e andò in fuga pure sui Campi Elisi: lo premiarono come il più combattivo di giornata e per un’estate, in Giappone, il ciclismo insidiò il primato del baseball e del calcio.

Se dovesse dare una definizione di sé stesso, Beppu si descriverebbe come un ciclista internazionale. Avrebbe ragione: ormai vive in Francia, vicino a Marsiglia, ha una moglie e una figlia e l’ultima volta che è tornato in Giappone è stato nel 2019, quando un tumore ha avuto la meglio di sua madre. Dal Giappone venne via presto, Beppu: non aveva nemmeno vent’anni. D’altronde, a cosa sarebbe servito rimanerci? In bicicletta era troppo forte per l’ambiente giapponese. Aveva vinto praticamente tutto quello che poteva vincere, alcune corse anche più volte. A quattordici anni, per fare un esempio, correva i cento metri in dodici secondi scarsi. Adattarsi all’Europa e alla Francia non fu semplice: parlava soltanto il giapponese e non capiva la cultura europea. La bicicletta è stata il suo esperanto, la chiave di lettura del mondo.
E dire che pedala ancora con lo spirito delle origini: curioso, appassionato, selvaggio. Un giorno un amico di famiglia andò a trovarli in bicicletta, un viaggio di circa venti chilometri. Yasufumi, il padre di Fumiyuki e dei suoi due fratelli, rimase colpito dalle potenzialità di quel mezzo. In maniera artistica, quasi: la sensibilità a quell’uomo non mancava, trattandosi di un insegnante di una scuola serale e allo stesso tempo di un creativo fallito e frustrato, amante della ceramica e della calligrafia. Di arte, al contrario, Fumiyuki Beppu ha potuto realizzarne poca: quei mezzi che lo facevano eccellere in Giappone si sono dimostrati insufficienti in Europa. Insufficienti per vincere, s’intende: ma il ciclismo, tra le tante cose, insegna che accontentarsi non è una brutta parola. Beppu l’ha capito, si è accontentato e ha avuto una carriera piuttosto longeva – pionieristica e quasi mitologica, verrebbe da dire, agli occhi dei suoi tifosi giapponesi.

Animato da quella curiosità che l’ha portato così lontano, Beppu ha scommesso di nuovo su sé stesso. A trentasette anni, dopo sei stagioni con la Trek, ha rescisso il contratto spiegando alla dirigenza che il gregariato gli piace ancora, forse è l’unica cosa che sa fare davvero: ma non gli basta più. Beppu non s’è messo in testa chissà cosa: vuole solo accumulare quei pochi punti necessari per poter andare alle Olimpiadi di Tokyo con la sua nazionale. «È l’ultima sfida della mia carriera», ha dichiarato recentemente. «Se i Giochi Olimpici si fossero tenuti a Parigi, probabilmente avrei lasciato perdere. Ma sono in Giappone, nel mio paese: perché no?, mi sono detto».
Per rincorrere quest’ambizione, Beppu è tornato alle origini: alla NIPPO DELKO One Provence, quella che una volta si chiamava Vélo-Club La Pomme Marseille. Meglio essere un pesce grande in uno stagno piccolo, se risaltare è quello che conta. Non fatevi ingannare dalla sua nazionalità, poco avvezza al ciclismo su strada, né al suo soprannome, Fumi, datogli perché è sempre gentile e accondiscendente. Non guardatelo soltanto quando ride, ché gli occhi sembrano scomparirgli inghiottiti dagli zigomi: guardatelo anche quand’è serio, un samurai reduce da combattimenti antichissimi.
Ai giovani giapponesi che corrono con lui alla NIPPO DELKO One Provence, Beppu ha spiegato la differenza che c’è tra il sogno e l’ambizione: il primo è astratto, ha un che di infantile ed etereo, è ciò che dà l’abbrivio per partire; la seconda, invece, è molto più concreta, è figlia dell’esperienza e della fiducia in sé stessi, inizia dove finisce l’altro. Cosa sono i cliché, invece, Fumiyuki Beppu non se lo ricorda più: prima ne ha fatto tesoro, poi coriandoli.
Foto in evidenza: ©Team NIPPO DELKO One Provence, Twitter