Marcus Burghardt ama ancora il ciclismo nonostante la lunga militanza.

 

 

Marcus Burghardt è uno di quei corridori che si ascoltano e si rispettano senza porsi tante domande. Forse per l’età, trentasette anni il 30 giugno; forse per l’esperienza, sedici stagioni nel World Tour; o forse per la stazza, settantacinque chili distribuiti su centonovanta centimetri d’altezza. Nel corso dell’ultimo decennio, di lui si sono fidati diversi campioni. Cadel Evans, ad esempio, non potrà mai ringraziarlo a sufficienza per il lavoro svolto nei tratti di pianura nel vittorioso Tour de France 2011: per sdebitarsi gli regalò un leoncino giallo da dare alla figlia, un dono particolarmente significativo considerando la riservatezza di Evans. Successivamente, Burghardt ha offerto i suoi servizi alla corte tumultuosa di Gilbert e Van Avermaet. Infine, per l’ultima parte della sua carriera, ha deciso di accettare l’offerta del suo vicino di casa: Ralph Denk, team manager della BORA-hansgrohe. Far parte di una giovane realtà tedesca capeggiata da Peter Sagan: Burghardt non poteva chiedere di meglio.

I galloni per ricoprire certi ruoli, tuttavia, Burghardt se li è guadagnati sul campo. Approdato al professionismo nel 2005 con la T-Mobile, rischiò di mandare tutto in fumo alla prima trasferta: arrivato all’aeroporto si accorse di non avere con sé il passaporto. La squadra partì lo stesso, lui tornò a casa a prenderlo e raggiunse i compagni il giorno dopo. Burghardt è stato un punto fermo del ciclismo tedesco degli ultimi quindici anni: c’era quand’era in auge, c’era quando il doping lo aveva incancrenito e le televisioni si rifiutavano di trasmettere le corse, c’è ancora oggi quando il ciclismo sembra interessare di nuovo i suoi connazionali. Da giovane provò persino a recitare da capitano, conquistando una Gand-Wevelgem e una tappa al Tour de France 2008, ma si accorse che più di lì non sarebbe potuto andare. «Ho capito ben presto che mi mancava quel qualcosa che contraddistingue i campioni dai buoni corridori», spiegava qualche anno fa. Per questo ha deciso di reinventarsi gregario di lusso: perché sa, vede e conosce dinamiche sconosciute ai più.

Eppure Marcus Burghardt non è così freddo e autoritario come la sua nazionalità e la sua presenza fisica sembrerebbero suggerire. Nel corso dell’ultimo Tour de France, ad esempio, non si è dato pace finché non è saltato fuori il nome del bambino che, alla partenza di Reims, non gli si è attaccato al collo per ringraziarlo d’avergli regalato un cappellino. Si chiamava Sullyvane, aveva sette anni e Burghardt, tanto per gradire, gli fece recapitare un pacchetto con dentro una piccola divisa della BORA-hansgrohe, un poster della squadra, una fotografia autografata di Peter Sagan e i dorsali di tutti i suoi compagni di squadra. Oppure, per dirne un’altra, quando andò in fuga nella tappa di Amiens del Tour de France 2018 soltanto per fermarsi a bordo strada, smontare dalla sella e applaudire il gruppo che passava come un tifoso qualunque. Alla partenza del Tour de France 2012 si superò: siccome la corsa scattava il giorno del suo ventinovesimo compleanno con un cronoprologo, in pedana mostrò una maglia sulla quale campeggiava una frase, ovvero “grazie per essere venuti al mio compleanno”.

La serenità che pervade Marcus Burghardt è quella del saggio che ne ha passate troppe per dichiarare una guerra al giorno: accetta, lascia passare, mantiene la trebisonda. D’altronde è marito di Maria e padre di due figlie, ciò di cui va più orgoglioso. È anche per questo che può permettersi di arrivare ultimo sul Tourmalet a mezz’ora da Pinot, come gli è successo al Tour de France 2019. A lui, poi, che alla Grande Boucle ha vinto una maglia gialla, una tappa e ha investito un cane – era il 2007, nessuna conseguenza per entrambi. Il credito e la stima di cui Burghardt gode in gruppo gli sono state riconosciute per l’ennesima volta nell’estate del 2017, quando diventò campione tedesco. Non vinceva dal 2010, due tappe al Giro di Svizzera. Lui dichiarò di sentirsi ancora bene, di amare il suo sport e di sentirsi un privilegiato, ché diventare un ciclista professionista è una fortuna che spetta a pochissimi eletti. In molti, a quel punto, provarono a chiedergli se quella vittoria poteva essere interpretata come una gioia inaspettata lungo il viale del tramonto. Quale tramonto?, pensava Marcus Burghardt, che vuole correre fino a quarant’anni. «Überhaupt nicht», gli rispose difatti. «Assolutamente no».

 

 

Foto in evidenza: ©Flowizm …, Flickr

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.