Mørkøv vince per sé, per il padre e per la famiglia.
Michael Mørkøv, poco tempo addietro, ha raccontato di non essersi mai sentito così fortunato come nell’ultimo periodo della sua vita: una serie di eventi, strane coincidenze a volte paradossali, gli hanno permesso di indossare nuovamente, a distanza di undici anni, la maglia iridata nella madison. La prima volta fu nel 2009 assieme ad Alex Rasmussen – compagno di sei giorni e di squadra, caduto in depressione dopo aver lasciato il ciclismo -, l’ultima volta qualche settimana fa in coppia con Lasse Norman Hansen.
Scintille iniziali

Ma la storia di Michael Mørkøv inizia molto tempo prima, ovvero quando da piccolo sognava di aprire un negozio di CD a Kokkedal, a nord di Copenaghen, dove viveva con la sua famiglia: padre, madre e i due fratelli, Jesper e Jacob, anche loro diventati corridori. Suo padre vendeva stereo e hi-fi, e Mørkøv, sin da ragazzino, gironzolava in quel negozio alla ricerca della sua stazione radio preferita. Quante litigate con il suo vecchio! Ma in realtà il piccolo Michael, come unico desiderio, aveva quello di essere notato e accettato.
Il padre era un grande appassionato di ciclismo, un destino al quale spesso risulta difficile sfuggire quando sei danese, e una volta, Michael aveva forse otto o nove anni, si portò dietro il figlio alla Sei Giorni in programma nel forum della capitale danese – rassegna che negli anni a venire Michael Mørkøv conquisterà per ben sette volte, mentre suo fratello Jesper una.
Mørkøv padre era un affezionato di quell’evento: ogni anno sugli spalti a seguire, a fare il tifo, a scommettere, irritarsi, gioire, mentre il giovane rampollo di casa ne sentiva parlare come fosse qualcosa di magico, a tratti effimero. «Era la prima volta e fu come una scintilla fra me e il ciclismo, ma fu anche la prima occasione in cui io e mio padre ci trovammo a condividere davvero una passione. Siamo stati seduti uno di fianco all’altro per tutta la durata dell’evento». Uscito da lì, ancora frastornato da quello stridere di ruote, scie, schivate, luci, urla, colori e puzza di sudore, Mørkøv decise che da grande sarebbe diventato un ciclista professionista. Da quel momento si sentì finalmente accettato da suo padre.
E così Mørkøv diventa un corridore. Uno di quelli che, pur non essendo così conosciuto al pubblico delle grandi occasioni, non avrebbe bisogno di presentazioni. Su strada si è tolto poche soddisfazioni personali, ma ha contribuito a rendere grandi i suoi compagni di squadra. Ha vinto quattro corse in Danimarca, di cui tre campionati nazionali in linea, ed è per questo che si fa fatica a immaginarselo con addosso un colore differente da quello del Dannebrog, il “panno danese”. Tre volte campione nazionale di una Danimarca che, in quanto a talento, ultimamente ne sta producendo a sufficienza.

In mezzo ai successi arrivati in casa, ottiene quello più prestigioso: una tappa alla Vuelta, e tutto sommato abbiamo visto palmarès peggiori. Era il 2013 quando sull’arrivo di Cáceres, in cima a una breve rampa di quelle che spesso dividono i velocisti puri dagli scattisti più in forma, mise in fila Richeze, Cancellara, Farrar e Flecha.
All’epoca si pensava che Mørkøv potesse diventare un pezzo da novanta delle corse in linea, ma ancora oggi il suo miglior risultato in una Monumento resta il ventinovesimo posto conquistato alla Roubaix del 2015 e uguagliato al Fiandre dell’anno successivo. Tra le altre corse, invece, spicca un secondo posto alla Paris-Tours 2013, bruciato sul traguardo da un Degenkolb in divenire.
Il treno più puntuale del mondo
Insieme a Maxi Richeze – o in alternativa a Fabio Sabatini – Mørkøv ha composto, nemmeno troppo teoricamente, il miglior trenino delle volate negli ultimi anni. In questo inizio di stagione, prima al caldo del Down Under e poi in mezzo alla polvere degli Emirati Arabi, ha tracciato la via con la sua potenza cercando di favorire Sam Bennett. L’irlandese è il suo leader designato per il 2020, la testata finale dei missili firmati Deceuninck-Quick Step – e per questa volta ci perdonerete la metafora bellica.
Ma Mørkøv, fino a qualche anno fa, era scettico riguardo questo ruolo; non lo riusciva a fare suo, più che un pesce pilota si sentiva un pesce fuor d’acqua. A volte, per comprenderlo meglio, provava a usare quel particolare artificio chiamato sospensione dell’incredulità, ma non c’era niente da fare: subiva miseramente – anche se mai in modo passivo – ogni qualvolta provava a guidare il plotone in quei convulsi finali da giocarsi allo sprint. Non gli entrava, diremmo, per usare un linguaggio terra terra.

Racconta che spesso andava davanti al gruppo a tirare cercando di pilotare i compagni e allungare la fila, ma senza accorgersene si ritrovava indietro come una palla da basket scagliata con violenza contro un muro.
Non riusciva a a dare un senso a quelle azioni, pensava che quello che gli veniva richiesto fosse ancora più folle e azzardato del gettarsi in volata strisciando con fianchi, gomiti e testate gli avversari; si sentiva inadatto, frustrato. La sua testa viaggiava veloce e arrivava a fine giornata chiedendosi troppi perché a cui non riusciva a dare risposta. «La sera guardavo i video e mi chiedevo come fosse possibile per gli altri riuscire a essere lì davanti, puntuali, per dare una mano ai propri compagni prima delle volate».
Dopo qualche stagione arriva il chiarimento con sé stesso, l’infatuazione per quella veste nobile e fra tutte le sottocategorie del gregariato una delle più evidenti e visibili: quella del vagone (vagoncino sembra inappropriato, vista la stazza) del treno dei velocisti. «Con Haedo prima e Sagan poi, non avevamo mai organizzato un vero e proprio treno: non ne avevano bisogno. Mentre quando arrivai in Katusha e iniziai a pilotare Kristoff, mi resi conto dell’importanza del mio ruolo».
In quel 2016 con la maglia Katusha, Mørkøv aveva segnato in rosso le tre settimane del Tour de France, in particolare le prime tappe. La Boucle è un sogno che non appartiene solo a lui, ma il massimo desiderio per chiunque va in bicicletta per professione. Su quelle strade voleva condurre alla vittoria il suo capitano Kristoff, il quale, nonostante quella corazza all’apparenza inscalfibile, si addolciva al pensiero di tagliare un traguardo di tappa a braccia alzate. Morkov, però, restò vittima degli episodi che sono ostacoli in mezzo alle quinte e non riuscì nell’intento di rendere grande il compagno norvegese.

Cade nella prima tappa e si fa parecchio male: non ci sarebbe altro da aggiungere, non fosse che lui continuava ad andare avanti. Prima di ritirarsi, l’ottavo giorno nella tappa che portava il gruppo a Bagnères-de-Luchon, chiuderà cinque volte ultimo e due volte penultimo. «Nemmeno io so cosa mi sta spingendo a portare a termine ogni tappa», ripeterà giorno dopo giorno in preda a una sorta di nichilismo da personaggio della letteratura russa, tra i Verchovenskij e Stavrogin de “I Demoni” di Dostoevskij.
Alcuni numeri per capire l’importanza che rivestiva per Kristoff: con Mørkøv a pilotarlo, sette successi tra Tour of Qatar, Tour of Oman, Tre Giorni di La Panne e Amgen Tour of California; senza la sua presenza, invece, una manciata di piazzamenti al Tour. Il danese si confermava un tuttofare imprescindibile capace di stare davanti al gruppo quando si era lontani dal traguardo nelle tappe miste e con la licenza, di tanto in tanto, di andare in fuga; oppure, più spesso, di far vincere il proprio capitano nelle volate. Con furbizia e mestiere, come si dice in questi casi.
E così in quel 2016 si completò il suo adattamento; si ritrovò a essere uno dei pesci pilota più stimati e richiesti in gruppo. Non poteva accadere altrimenti: chi faceva affidamento sul suo guizzo aveva ben presente il suo fiuto da pistard e la sua passione per l’accelerazione costante, lui che in carriera è stato capace di medaglie anche con il quartetto su pista: bronzo mondiale nel 2007 a Palma di Mallorca, oro nel 2009 a Pruszków, ma soprattutto argento a Pechino, Giochi Olimpici del 2008.
L’arte del guidare i suoi capitani alla vittoria

The Art of the Lead Out è il titolo di un’intervista che gli dedicò tempo fa Cyclingnews e potrebbe essere anche il titolo di un compendio sulla volata dove lui scriverebbe uno dei capitoli più importanti. «Negli anni ho capito che per condurre fuori dalla mischia il tuo capitano designato allo sprint non serve essere veloce, serve avere la progressione».
Per uno che si costruisce nei velodromi, non poteva che essere un ruolo tagliato su misura. «Per agire da ultimo uomo come fanno Richeze o Sabatini, devi essere uno sprinter; ma per portare fuori il tuo velocista – lead out, Mørkøv si sofferma su questo termine – devi essere capace di aumentare un po’ alla volta, uscire di forza, in progressione da trenta secondi a un minuto in poche centinaia di metri». Sembra un altro corridore, ma non solo: un’altra persona rispetto a quella piena di dubbi descritta qualche paragrafo fa.
Adattarsi alle situazioni è uno dei cardini principali su cui si basa un uomo squadra come Mørkøv e lo scambio dei ruoli, in quel bizzarro quanto azzardato palcoscenico, da necessità si trasforma in forza. «Prima degli sprint ci confrontiamo, studiamo il finale e a volte possono servire più le mie caratteristiche che quelle di Sabatini».
Nessuno strappo, nessun picco esponenziale, ma colpo d’occhio; conoscenza dei tuoi compagni e del mestiere, o avversari da schivare come lance che ti arrivano in faccia a una velocità inaudita. E col tempo Mørkøv si costruisce come pedina, ma anche rivale, di Sagan e Viviani, di Kristoff, Gaviria, Jakobsen e Sam Bennett: praticamente il meglio – o quasi – dello sprint dell’ultimo lustro.
Padri putativi

Suo padre muore nel 2007 senza avere mai avuto la possibilità di godersi un trionfo del proprio figlio. «Quando realizzo qualcosa di importante o mi presento al via del Tour de France, penso a come sarebbe orgoglioso di me». Ma sulla sua strada incontra un altro mentore: Bjarne Riis.
«Sono passato dalla pista alla strada grazie a Riis: è stato lui a farmi diventare il corridore che sono oggi». La sua nuova guida è uno dei personaggi più controversi del ciclismo mondiale: quel Bjarne Riis che da giovanissimo, chiuso in una stanza d’hotel in Lussemburgo, si ingolfava di spaghetti con il ketchup, per poi vincere tempo dopo il Tour de France digrignando i denti in una delle pose più celebri della storia del ciclismo.
Un Tour de France in cui lui si sbarazzava di un tipo come Indurain, che voleva vincerlo per la sesta volta, mentre invece quel tizio tra il biondo e il rossiccio, mezzo calvo, con la faccia da vecchio, contribuiva a velocizzare la sua fine; prima di ammettere, qualche anno dopo, di avere avuto il sangue denso come la celebre salsa al pomodoro che da noi ha più senso con le patatine o l’hamburger, invece che su un piatto di pasta.
Ma dato che Bjarne Riis ha più fiuto per i corridori che classe in bicicletta o capacità culinarie, per lui Michael Mørkøv sarebbe dovuto diventare un vincente, un riferimento nelle corse di un giorno, uno di quelli capaci di imporsi tanto sul pavé quanto sul traguardo della Sanremo.
Michael Mørkøv, invece, col tempo capisce di essere più adatto al ruolo di uomo squadra. In fondo, quei dubbi che si portava dietro non erano altro che una fase del suo percorso di crescita: doveva solo seguire la sua strada, battendo un terreno che lo rende fondamentale per gli altri e soddisfatto di sé stesso. Una volta liberatosi, in senso filosofico, di Bjarne Riis, eccolo trovare la sua realizzazione. «Mi chiedo ancora oggi come riesca a fare quello che faccio: forse è l’esperienza, forse è la fiducia. Ora posso prendere e condurre uno dei miei velocisti quasi come mi pare e piace».
Abbiamo spesso parlato dei velocisti definendoli “artisti dello sprint”; con Mørkøv si toccano argomenti differenti: potrebbe sedersi su una cattedra e spiegare per ore come si porta a termine il suo mestiere di pesce pilota, potrebbe diventare ispirazione per orde di corridori alla ricerca di un’identità; più che artista, un maestro.
Pronunce, quarantene e medaglie

Michael Mørkøv ha un cognome che è anche una città della Repubblica Ceca e mette in difficoltà chi cerca di pronunciarlo correttamente. Racconta che l’unico commentatore a riuscirci è Robbie McEwen: è lecito immaginare che il piccolo velocista australiano lo faccia per una sorta di ammirazione, lui che per sfrecciare non aveva bisogno di alcun aiuto, di alcun treno, di alcun corridore che lo portasse fuori o lo facesse partire davanti; forse il migliore al mondo nel districarsi da solo in volata, in un’epoca in cui i treni andavano per la maggiore. Micael Marco: si pronuncia più o meno così. «Ho provato a sentire diversi commentatori e tutti dicono, sbagliando, Maicol Morcof».
Michael Mørkøv – ora sappiamo come pronunciarlo – poche settimane fa sfugge alla quarantena: è un accordo preso con la sua squadra a portarlo fuori dal polverone che scoppierà in quegli Emirati Arabi dove lui era presente per tirare gli sprint a Sam Bennett.
Vola verso Berlino, dove lo attendono Norman Hansen e la nazionale danese, che aveva aperto quei giorni strabiliando tutti con il quartetto dell’inseguimento. Lo attendono pure trentasei ore di auto-isolamento – difficile definirla quarantena – in hotel a Berlino in attesa dell’esito del tampone.

Nel frattempo cerca di mantenere il tono muscolare, evita il cibo spazzatura, si fa recapitare qualcosa da mangiare che gli viene lasciato, come da prassi, fuori dalla porta. Non esce dalla sua camera, segue le gare in televisione mentre parla al telefono con la famiglia, la moglie e i due figli. Il maschio, Frederik, racconta Mørkøv, vorrebbe seguire le sue orme e in questi anni lo ha aiutato a capire cosa vuol dire essere genitore e cosa è stato suo padre prima di lui. Quel padre che Mørkøv, oggi, vorrebbe avere vicino per ottenere un riconoscimento. «È la cosa che più mi manca: guardarlo mentre con un cenno mi faceva capire che avevo fatto un buon lavoro».
Il velodromo di Berlino, intanto, lo aspetta; molto probabilmente quello appena trascorso potrebbe essere stato l’ultimo, se non il penultimo gettone in pista per Mørkøv, che vuole tutti vicini per quello che sarà il suo grande show nel pomeriggio di domenica. «Ci credevo così tanto che avevo prenotato venticinque posti per amici e parenti». Non avrebbe voluto deluderli per niente al mondo.
In gara, assieme a un altrettanto ispirato Norman Hansen, strapazza la concorrenza («Ho disputato la mia migliore corsa di sempre in pista», dirà) raggiungendo, a fine corsa, la velocità media di 58.754 chilometri orari. E gli avversari? Non erano nemmeno così male (eufemismo): Viviani-Consonni, van Schip-Havik, Reinhardt-Kluge, Torres-Mora, De Ketele-Ghys, Gate-Stewart, Thomas-Grondin, Hayter-Wood, Downey-English, Meyer-Welsford. Il meglio del meglio dell’endurance in una corsa che, tre anni fa, è stata reintrodotta nel programma olimpico.
E difatti la rincorsa di Mørkøv alla medaglia e al sogno di conquistarla a Tokyo ha inizio nel 2017, pochi giorni dopo aver ricevuto quella notizia. «Mi stavo facendo un culo così in salita sull’Alpe d’Huez al Delfinato e pensavo che l’unico motivo valido per continuare a farlo sarebbe stato puntare a vincere ancora qualcosa in pista», racconta testuale sulle pagine di pezcyclingnews.

Tornando a quella corsa: Hansen-Mørkøv è stata l’unica coppia a guadagnare il giro; è andata tredici volte a punti su venti volate disponibili, mettendo in scena una gara che ricordava più l’avvio di una tappa del Tour de France che una corsa sul parquet. Norman Hansen partiva a cannone nel tentativo di conquistare il giro, ma tornata dopo tornata aumentava progressivamente il vantaggio e ogni cambio con Mørkøv era un taglio nelle fibre muscolari degli avversari. Prima di doppiare le altre coppie e conquistare gli agognati venti punti, vinceranno quattro sprint di fila: saranno stati in avanscoperta per quasi quaranta giri. Dopo nemmeno metà gara avevano praticamente già messo in tasca la medaglia d’oro.
A fine corsa i media danesi gli dedicano ampio spazio, ma ponendo più l’accento sulla confusione nata dai fatti legati all’isolamento, al Covid-19, che ai risultati in pista. Lui, consapevole, preferiva godersi il suo spazio e il trionfo in compagnia della famiglia, ma soprattutto con il pensiero di dare a suo figlio maggiore considerazione rispetto a quello che inizialmente suo padre dava a lui: conoscerlo meglio, accompagnarlo alle corse, essere genitore. «A volte, quando sono con lui o lo accompagno alle gare, mi rivedo nel mio vecchio. Magari se non fossi con lui andrebbe più veloce, penso, ma alla fine è mio figlio e voglio stargli vicino, come avrei voluto che mio padre avesse fatto con me».
Confessa, con pensieri che non smettono mai di macerarlo, di avere sempre una domanda fissa in mente, da quando nel 2007 lo ha abbracciato per la prima e ultima volta e lo ha visto scoppiare in lacrime mentre moriva in un letto d’ospedale. «Ma io conoscevo davvero bene mio padre?».
Foto in evidenza: ©Sigfrid Eggers via Deceuninck-Quick Step, Twitter