L’ingrato compito di rimpiazzare Jakub Mareczko, vincendo dove l’altro ha spesso fallito.

 

Bak e Pate erano i primi. Peter Velits e Van Garderen, se ci fosse stato bisogno. Poi veniva il turno di Tony Martin. Dopodiché, Goss incendiava la strada per Eisel. Renshaw, lucido e consapevole del suo ruolo, non doveva far altro che lanciare la volata che Cavendish aspettava, ingordo, da ormai diverse ore.

Questa era la formazione che permise al britannico di conquistare cinque vittorie al Tour de France 2011, l’ultimo che lo ha visto assoluto dominatore degli arrivi in pianura. Venti dimostrazioni di forza in appena quattro stagioni consecutive, un arco teso realizzato col legno più pregiato e pronto a scoccare la freccia più letale che si potesse immaginare. Incantato davanti al televisore di casa, Moreno Marchetti riconobbe a se stesso: “Voglio essere come Cavendish”.

Chissà se quando l’ha pensato avrebbe mai immaginato di diventare uno dei velocisti sui quali scommettere per il futuro, proprio come a suo tempo lo fu Cavendish. L’esplosività non gli manca, d’altronde è la caratteristica che chiunque ha avuto a che fare con lui mette in risalto. Però non basta, nel ciclismo di oggi costellato di strappi e salite pedalabili. “Quando vedo corridori come Sagan o Matthews, mi rendo conto di quanto ancora devo lavorare per sorpassare indenne certe pendenze”.

È fiducioso, però: lo è sempre stato, Marchetti, altrimenti non sarebbe passato professionista. Perché la passione è fondamentale, certo, ma se non c’è un corrispettivo economico quantomeno giusto allora rischia di scemare. “Non avete idea di quanti amici o colleghi ho visto smettere perché facevano una fatica bestiale che per loro no aveva senso”. Moreno Marchetti è sincero: non ha mai mollato perché poteva permetterselo, perché vittorie e complimenti se li è sempre guadagnati e meritati, perché al termine del primo anno con la Zalf aveva già firmato per Scinto nonostante dovesse rimanere ancora tra i dilettanti.

L’infatuazione per la Parigi-Roubaix, a differenza dell’apparizione di Cavendish, è arrivata qualche anno più tardi. Marchetti correva tra gli juniores, chiuse ventiseiesimo ma sazio di colori e incitamenti. La loro Roubaix partì un centinaio di chilometri più avanti rispetto a quella dei professionisti, ma attraversò molti dei settori che al pomeriggio sarebbero stati teatro di affronti, prove di coraggio e colpi di mano.

Sicché il pubblico era già lì, pronto alla festa: e quando passa davanti ai tuoi occhi una corsa di biciclette non puoi altro che applaudire e urlare, non importa chi siano i protagonisti, la Parigi-Roubaix ha un fascino che trascende le categorie che regolano il ciclismo. Se Marchetti dovesse scegliere un riferimento, non sarebbe Sagan. “Van Avermaet, sulle pietre, mi pare più solido. E poi è più furbo”. E quindi più forte, dato che l’impeto senza furbizia e organizzazione è furia cieca.

Moreno Marchetti ha assaggiato il professionismo fin dall’estate scorsa, quando la Wilier se lo portò in Cina venti giorni. Aveva il suo ruolo, ci mancherebbe. “Mica come tra i dilettanti, dove ognuno fa talmente come gli pare che a volte non ci si capisce davvero nulla”, ricorda lui. Gli vennero però concesse alcune chance, anche se il velocista designato era Mareczko, “quello che mi ha dato più consigli”. Non che ne avesse bisogno, Marchetti, ma ascoltare non può far male. D’altra parte, in volata si butta da una vita: dice che gli ricorda una gincana, il primo esercizio sportivo di cui ha memoria.

La trasferta cinese andò piuttosto bene: tre piazzamenti, tra cui un secondo posto dietro a Molano, ventiquattrenne colombiano che quest’anno corre con la UAE, come a dire che non è stato battuto dal primo che passa. Dopo aver sbollito la tensione della gara, Marchetti era soddisfatto a metà: quando si arriva secondi si finisce sempre per pensare a cosa sia mancato per arrivare primi. Afferma convinto che vive per la vittoria e che la cercherà ogni volta che potrà. Vincere gli porta bene, continua: solitamente, una volta rotto il ghiaccio non si fermava più.

 

Foto in evidenza: @Moreno Marchetti FanClub, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.