Francisco Mancebo corre ancora e non ha nessuna intenzione di ritirarsi.
Nel 2004, la stagione migliore della sua carriera, Francisco Mancebo compì ventotto anni. Un corridore nel pieno della sua attività, insomma. Vinse la prova in linea dei campionati spagnoli e una tappa al Giro di Germania, chiudendo all’ottavo posto il Romandia e al terzo la Vuelta.
Al Tour de France, l’appuntamento principale di ogni sua stagione, raccolse il sesto posto finale: per giorni e giorni aveva parlato del radioso futuro di Basso, della difficoltà di salire sul podio considerando la presenza di regolaristi come Klöden e Ullrich e dello strapotere di Armstrong, un corridore che tuttavia Mancebo non ha mai ammirato, perché come dichiarò a El Mundo durante la corsa “se uno comincia ad ammirare i propri rivali, non troverà mai la forza per batterli”.

Sono nomi datati, che riportano ad un ciclismo che non esiste più, composto perlopiù da atleti ritirati da diversi anni e sempre più vicini alla cinquantina. Francisco Mancebo – detto Paco, la sorte che prima o poi in Spagna tocca a tutti i Francisco -, invece, corre ancora. Il 9 marzo compirà quarantaquattro anni e, almeno stando a quello che dice, non ha nessuna intenzione di ritirarsi. Secondo La Opinión de Málaga, i due principali favoriti per la vittoria nella Vuelta Ciclista Internacional a la Comunidad de Madrid del 2007 erano Francisco Mancebo e Óscar Sevilla; nonostante siano passati dodici anni e i due fossero quantomeno maturi già allora, Mancebo e Sevilla fanno ancora parte del gruppo e sono i due ciclisti professionisti spagnoli più anziani: Sevilla è il secondo, essendo nato nel settembre del 1976, mentre Mancebo, il quale per venire al mondo scelse il mese di marzo dello stesso anno, è il più vecchio in assoluto.
Così stagionato da aver visto cambiare più volte il ciclismo; da aver visto entrare nei libri della storia di questo sport tanti suoi coetanei e molte vicende che lui stesso ha vissuto; così anziano da aver imparato a memoria i percorsi di certe gare, da tante volte le ha fatte.
La carriera di Mancebo è distintamente divisa in due parti: la prima, quella da promessa del ciclismo spagnolo che riesce a diventare uno dei migliori scalatori del circuito, che conquista la maglia bianca di miglior giovane al Tour de France del 2000, che rimane alla corte di Unzué per undici stagioni consecutive – giovanili comprese – ottenendo cinque piazzamenti tra i primi dieci al Tour de France e tre fra i primi cinque alla Vuelta; e la seconda, durante la quale diventa un giramondo, correndo per squadre con licenze portoghesi, greche, americane, arabe, dominicane e giapponesi e vincendo corse dal nome esotico: Vuelta Chihuahua, Tour de la Guadeloupe, Tour de Kumano, Tour d’Égypte. Tuttavia, se la carriera di Francisco Mancebo è cambiata così in fretta c’è un motivo: il suo coinvolgimento nell’Operación Puerto.

Insieme a Basso e Ullrich, Mancebo diventò “un ospite non gradito” per l’organizzazione del Tour de France, che dunque vietò loro di partecipare all’edizione del 2006. Fino a prova contraria, Mancebo non risultò mai positivo, tant’è che venne ascoltato soltanto nella primissima parte delle indagini e dei processi, come se il suo apporto alla causa fosse di poco conto; tuttavia, va detto anche che a “Porras” e “Goku”, i nomi che usava per identificarsi, furono confiscate venti sacche, undici di sangue e nove di plasma: se non il più dopato, sicuramente il più coinvolto.
Resta il fatto che quella macchia gli costò tantissimo: l’AG2R, la squadra che lo aveva accolto a braccia aperte a partire dal 2006, lo licenziò in tronco, e Vincent Lavenu, che dell’AG2R è tutt’oggi il general manager, disse che di uno come Mancebo non ci si poteva fidare, che non lo avrebbe mai reintegrato alla squadra perché in ballo c’era l’immagine del gruppo e che coi tempi che correvano bisognava diffidare degli uomini d’alta classifica.
A Mancebo non piace lamentarsi, d’altronde ora come ora non ha nemmeno dei motivi validi per farlo: gira il mondo, conosce realtà di seconda mano e spesso a lui sconosciute, fa da chioccia ai giovani “anche se non ho problemi a mettermi a loro disposizione, se stanno meglio di me: io sono il capitano solo sulla carta, ma nelle scelte della squadra il mio cognome non deve pesare”, dichiarò una volta a Rueda Lenticular.
Però non ha dimenticato il 2006 e le occasioni che quel periodo si è portato via con sé.
“Credo d’averci rimesso più del dovuto”, confessò a Cyclingnews nel 2014.
“Formalmente non sono mai stato squalificato, ma da allora pedalo alla stregua di un pària: non mi è stata data nemmeno una chance di tornare nel World Tour, mi si è appiccicata addosso l’etichetta di inaffidabile e sono uscito dal giro delle squadre di vertice. Avrei preferito una pena effettiva: forse, una volta scontata, qualcuno si sarebbe accorto di me. Così è come se stessi continuando a pagare, una specie di contrappasso che si ripete all’infinito”.

“Il tempo è passato in fretta”, disse a RSI nel 2016, e il problema, più che nella velocità, sta nella quantità di tempo che è passato: oltre un decennio, praticamente gran parte della carriera di uno sportivo. Mancebo misura il tempo che passa col cambiamento culturale che è avvenuto nel ciclismo (“Il ciclismo è molto più pulito”, disse ancora a Cyclingnews nel 2014), con i suoi compagni extraeuropei “che non conoscono nemmeno Virenque e Olano” e con l’evoluzione che ha subito il suo fisico. Prima era un uomo da grandi giri, adesso deve accontentarsi delle brevi corse a tappe, “ma ho imparato che all’esplosività che si perde con l’avanzare degli anni si può sopperire con la professionalità e l’esperienza”, spiegò al Mundo Deportivo nel 2017.
La vittoria di Horner nella classifica generale della Vuelta a España 2013, che in Europa ha fatto storcere il naso a molti, per Mancebo è stata un balsamo lenitivo: gli ha dato speranza, gli ha allungato la carriera.
“Anche se io uno sforzo del genere non lo reggo più da tanti anni e non m’interessa: quello che voglio è godermi la bicicletta e il ciclismo e in un grande giro non si gode, si soffre e basta”, puntualizzò su AS.
E allora vai, Paco Mancebo, che da quando pedali nelle serie minori hai cambiato persino il modo di correre (“prima ero più parsimonioso perché avevo più obblighi e responsabilità, adesso vado all’attacco e mi diverto di più”, dichiarasti a Cyclingnews nel 2014), che non guardavi mai il percorso del Tour de France fino alla primavera “perché ci sarà occasione di fare tutto e io a gennaio voglio poter stare ancora con la mia famiglia”, che nel 2009 in sella alla tua mountain bike hai trovato il tempo di vincere il campionato spagnolo nella Marathon, rifilando più d’un minuto al secondo e quasi quattro al terzo dopo ottantacinque chilometri.

E allora vai, Paco Mancebo, che metti sullo stesso piano la vittoria nella prova in linea dei campionati spagnoli e quella nella quinta tappa del Tour of Alberta 2016 – perché arrivò dopo un periodo difficile –, il successo davanti ad Heras e Menchov nella decima tappa della Vuelta a España 2005 e quello nella seconda frazione del Tour of California 2009 – giunto al termine di una giornata bagnata e fredda e passata all’attacco -, che hai Ángel Arroyo, Julio Jiménez, Pedro Delgado e Sean Kelly come riferimenti ciclistici ed Emilio Butragueño come calciatore preferito, che ti piace da morire il chuletón di Ávila, la bistecca con l’osso che fanno dalle tue parti.
E allora vai, Paco Mancebo, che speri ancora di tornare a correre per una squadra spagnola per poter stare più vicino alla tua famiglia e perché ogni volta che ci torni i tuoi tifosi ti dicono che dovresti farti vedere più spesso, che hai il Club Deportivo Francisco Mancebo di Navaluenga – il paese dove vivi quando torni – che fa il tifo per te perché prima che tifosi sono tuoi amici, che riesci ancora a dare del filo del torcere ai corridori del World Tour, se è vero che nel 2018 sei arrivato settimo nella prova in linea dei campionati spagnoli e poche settimane fa hai chiuso al quarto posto la Japan Cup, dietro a Mollema, Woods e Smith ma davanti a Kuss, che aveva vinto una tappa alla Vuelta, a Gesink, a Kruijswijk, a Ciccone, a Colbrelli.
E allora vai, Paco Mancebo, finché senti che le gambe sono sufficientemente forti per sostenere la passione, finché trovi una squadra disposta a farti correre – fosse anche la più esotica, la più disorganizzata, quella col nome più difficile da pronunciare -, finché riesci a dichiarare con naturalezza quello che dichiarasti, appunto, con naturalezza a RoadAndMud nel 2014: “Ritirarmi? No, per il momento non rientra nei miei piani”.
Foto in evidenza: ©cyclowired.jp, Twitter