E se non avessimo capito davvero la personalità di Nairo Quintana?

 

 

Il giornalismo richiede tempo, merce rara al giorno d’oggi. Tempo, almeno in questo caso, significa conoscenza, competenza, esperienza; ma non solo: significa anche porsi delle domande alle quali non necessariamente si riesce a trovare una risposta; tempo significa osservare, analizzare, frequentare il dubbio. La viralità, al contrario, è una questione istintiva: del tempo necessario a capire e approfondire non sa che farsene. La superficialità è una delle caratteristiche principali della viralità e una buona parte dei contenuti di Internet (leggasi: social network) ruota su questo perno.

Nel piccolo ecosistema ciclistico, questa tendenza si può riassumere in breve: il senso critico è stato sacrificato sull’altare del virgolettato, l’ordine d’arrivo e la prestazione sono più che sufficienti per valutare il corridore e la persona (attenzione, è un passaggio fondamentale), il gossip e le parole chiave hanno sostituito l’analisi e le parole giuste. È così che si creano identità e stereotipi: Froome diventa il robot, Evenepoel il predestinato a cui non resta che salire in bicicletta per vincere qualsiasi corsa, Aru un poveretto che continua a trascinarsi di corsa in corsa per spillare più soldi possibili al suo padrone. Chi siano Froome, Evenepoel e Aru, del resto, cosa importa?

©Le Tour de France, Twitter

Nemmeno Nairo Quintana ha potuto esentarsi da un trattamento simile. Nella prima parte di carriera, ne ha addirittura giovato: Greg LeMond, per citarne uno, arrivò a dichiarare che Quintana sarebbe potuto diventare il Merckx colombiano, affibbiando a Quintana un destino che non era il suo. Tuttavia, più che cavalcato, Quintana questo trattamento lo ha subito: in una manciata di mesi – di mesi, non di anni – gli è stata attaccata l’etichetta di zimbello, di remissivo, di sconfitto per niente romantico. Nell’ultimo decennio, ci sono stati pochi corridori più importanti di Quintana: un atleta dalla classe indubbia e dal talento cristallino, un uomo ora sereno e ora ombroso che ha dovuto affrontare sfide sconosciute ai più. Per questo Nairo Quintana – e quindi il giornalismo – non può essere liquidato con una fotografia e una battuta. La soluzione non è semplice, ma è a portata di mano: è la complessità.

Le volte in cui Quintana ha attaccato

Nairo Quintana è uno scalatore puro: uno dei più forti degli ultimi tempi, probabilmente il migliore di sempre per quel che concerne il ciclismo sudamericano. Le sue doti gli hanno permesso di vincere alcune delle corse più prestigiose e dure del mondo: una Vuelta a España, ad esempio; e un Giro d’Italia, primo colombiano e sudamericano a riuscirci; e ancora, un’edizione del Giro dei Paesi Baschi, della Volta a Catalunya, del Giro di Romandia, della Vuelta a Murcia, della Volta a la Comunitat Valenciana, del Tour de San Luis e del Tour de la Pronvece; due edizioni, invece, della Tirreno-Adriatico, della Route du Sud e della Vuelta a Burgos. E alle classifiche generali, non dobbiamo dimenticare di aggiungere i piazzamenti, le vittorie di tappa e persino una classica, il Giro dell’Emilia. In totale, fanno quarantatré successi in carriera: molti, per uno scalatore puro che ha compiuto trent’anni il 4 febbraio.

Certo, per conquistare due grandi giri e svariate brevi corse a tappe non basta andare forte in salita. E infatti Quintana ha dimostrato di essere un corridore globale: ha saputo difendersi nelle cronometro, è riuscito a seguire i migliori in discesa, ha capito quand’era il momento di nascondersi e di lasciar andare la fuga, ha imparato a guidare magistralmente la bicicletta nelle fasi più caotiche, ha retto l’urto dei ventagli e delle alte velocità. Tuttavia, per quanto completo possa essere, Quintana può vincere soltanto in una maniera: primeggiando in salita, staccando i suoi avversari e distanziandoli il più possibile. È qui che crolla la prima accusa mossa a Quintana: è mai possibile che un corridore come lui, il quale può vincere soltanto attaccando a più riprese, possa disdegnare l’iniziativa personale? No, ovviamente. È sufficiente ripercorrere i momenti salienti della sua carriera per averne la controprova.

©Matthieu Riegler, Wiki

Nell’estate del 2012, durante la prima stagione con la Movistar, Quintana conquista il primo grande successo tra i professionisti: la sesta tappa del Critérium del Delfinato. Il gruppo dei migliori è guidato dalla Sky, dato che la maglia gialla è sulle spalle di Wiggins. A diciassette chilometri dal traguardo, Quintana accelera: non è uno scatto secco, ma gli basta per isolarsi, riprendere Feillu e vincere a Morzine. Alle sue spalle, nell’ordine, Evans, Daniel Moreno, Wiggins, Weening e Froome.

Un anno più tardi debutta al Tour de France e il suo è un esordio folgorante: vince la tappa di Annecy-Semnoz, primeggia nella classifica degli scalatori e dei giovani e chiude al secondo posto della classifica generale. Salendo verso Annecy-Semnoz, Quintana mette in mostra tutto il suo talento: non trema quando Froome attacca, si riporta sulla sua ruota e non appena da dietro rientra Joaquim Rodríguez, Quintana imprime il cambio di ritmo definitivo. In meno di un chilometro, rifila diciotto secondi a Rodríguez e ventinove a Froome. Qualche giorno prima, il piglio generoso e irrequieto gli costò la vittoria di tappa sul Mont Ventoux: provò a far saltare il banco attaccando a tredici chilometri dall’arrivo; troppi, davvero troppi sul Mont Ventoux e contro quel Froome.

Nel 2014, Quintana sceglie di debuttare al Giro d’Italia con la ferrea volontà di vincerlo. Ci riesce, emergendo nell’ultima settimana. La vittoria nella cronoscalata del Monte Grappa alla diciannovesima tappa è la pietra tombale. All’infuori di Aru, secondo a diciassette secondi, tutti gli altri accusano un ritardo superiore al minuto e venticinque: Urán è terzo a un minuto e ventisei, Pozzovivo quinto a due minuti e ventiquattro, Evans undicesimo a quattro minuti e ventisei. Ma è la frazione che termina in Val Martello a decidere il Giro d’Italia 2014. È una giornata memorabile: la più dura, dato che si affrontano Gavia, Stelvio e la salita che porta al traguardo in Val Martello; la più difficile, visto che il gruppo è costretto a pedalare nel freddo e nella neve; e la più chiacchierata, considerando che Quintana si muove lungo la discesa dello Stelvio nonostante fosse stata dichiarata neutralizzata.

©Sean Rowe, Flickr

Di quel giorno, purtroppo, si ricorda solo questo: Quintana che approfitta dell’immobilismo altrui e delle complicazioni nelle comunicazioni delle scelte dell’organizzazione per guadagnare chilometri e minuti. Pochi giorni più tardi, si dirà che Quintana ha vinto il Giro d’Italia facendo il furbo. Che abbia tratto vantaggio da una situazione ingarbugliata, è innegabile. Tuttavia, una lettura del genere ci sembra riduttiva. Dalla cima dello Stelvio al traguardo, mancavano sessantanove chilometri. Muovendosi nella discesa dello Stelvio, Quintana doveva ancora coprire oltre cinquanta chilometri. Negli ultimi venti, gli unici due corridori che provano a tenergli testa sono Hesjedal e Rolland: il primo, facendo l’elastico, chiuderà secondo a otto secondi dal colombiano; il terzo salterà e dovrà accontentarsi del terzo posto, a un minuto e tredici. I rivali di Quintana nella classifica generale accuseranno ritardi pesantissimi: Kelderman, quarto, beccherà tre minuti e trentadue; quattro e undici per Urán, la maglia rosa; quasi cinque per Evans, decimo. Se Quintana, lungo la discesa dello Stelvio, è stato furbo e smaliziato, in salita si è rivelato sostanzialmente devastante.

Nel 2015, Quintana vince per la prima volta la Tirreno-Adriatico. Per ipotecare la corsa, non gli resta che attaccare sul Terminillo. È quello che fa, nonostante la neve che imbianca l’ultima parte dell’ascesa. Qualche mese più tardi, arrampicandosi sull’Alpe d’Huez, capisce d’aver sbagliato ad aspettare così tanto per provare ad attaccare Froome. Non vince, Quintana: alla vittoria di tappa ha già provveduto Pinot. Ma è secondo e anticipa Froome di un minuto e venti, grazie ad una delle poche tattiche sopraffine imbastite dalla Movistar. «Sono morto mille volte per difendere la maglia gialla, per un momento ho creduto di non farcela», ammetterà Froome. «Non avete idea del dolore che infliggono gli attacchi di Quintana. Non è una bella sensazione, credetemi. Sai che attaccherà, sai che molto probabilmente non potrai farci niente e sai che farà male».

Nel 2016, invece, sarà la Vuelta il palcoscenico di Quintana. Prima salendo verso i Lagos de Covadonga e poi pedalando per raggiungere Aramon Formigal. È una tappa breve, appena centodiciotto chilometri e mezzo. Nella prima parte, Contador promuove l’azione decisiva: Quintana ha il merito di seguirlo, approfittando di un Froome insolitamente distratto. La tappa se l’aggiudica Brambilla, mentre Quintana è secondo, in assoluto controllo. Sull’ultima salita, tutt’altro che impossibile, riesce a liberarsi anche di Contador e degli altri attaccanti che lo avevano seguito. Froome incassa due minuti e trentasette secondi da Quintana, il quale una settimana più tardi festeggerà la maglia rossa sul podio di Madrid. La tappa di Aramon Formigal ha regalato un’emozione nuova: per la prima volta da quando ha concluso il suo percorso di maturazione, Froome si è fatto sorprendere e annichilire. Due anni prima, sempre alla Vuelta a España, Contador aveva vinto la classifica generale staccandolo in un paio di situazioni senza, tuttavia, infliggergli distacchi notevoli. Il primo a riuscirci è Nairo Quintana.

©Revista Semana, Twitter

Nel corso della primavera del 2017, Quintana mette in scena altri due assoli: il primo conquistando nuovamente il Terminillo e la Tirreno-Adriatico; il secondo, invece, sulle pendici del Blockhaus, nella nona tappa del Giro d’Italia. Da quel giorno, è come se qualcosa in Quintana si fosse esaurito. Una fonte prosciugata e seccata da chi, troppe volte, vi ha attinto. Vivrà comunque altre giornate di grazia, Quintana: nel 2018 vincerà una tappa al Giro di Svizzera e al Tour de France, ovviamente in salita e in solitaria; nel 2019 farà ancora meglio: trionferà prima in Colombia davanti al suo pubblico, poi al Tour de France involandosi sul Galibier e infine alla Vuelta, nella seconda tappa, avvantaggiandosi in salita insieme ad altri cinque corridori e sfuggendo alla loro marcatura in un tratto di pianura a tre chilometri dall’arrivo.

Questo non significa che Quintana sia il corridore più coraggioso che il ciclismo abbia mai conosciuto. Gli estremismi bisogna rifiutarli, se si vuol capire come stanno le cose. Quintana ha sbagliato, anche: ha fatto lavorare i suoi compagni di squadra per poi staccarsi miseramente, ha attaccato troppo presto oppure troppo tardi, talvolta non ha proprio attaccato pur non avendo nessun’altra possibilità di buona riuscita. Sicuramente ha sofferto la solidità di Froome e del Team Sky, la presenza ingombrante di Valverde e l’avvento di nuovi corridori (Bardet, Pinot, Landa, Dumoulin, Thomas, Roglič, Bernal. Ma da qui a considerare Quintana un remissivo ce ne corre. Non è soltanto ingeneroso: è sbagliato.

Chi è Nairo Quintana?

Nairo Quintana sembrava destinato ad una morte prematura. Si diceva fosse rimasto vittima del “tiento del defunto”: una madre incinta che entra in contatto con un morto finirà per trasmettere questo stato anche al figlio o alla figlia che porta in grembo. «Malattie del genere non riguardano tutto il mondo», spiegò Quintana a El País nel 2013. «Anzi, mi rendo conto di quanto strano possa suonare. Ciò non vuole dire che non esistano. Secondo i racconti dei miei genitori, c’erano dei giorni in cui assomigliavo ad un cadavere». Per guarirlo ci vollero il tempo, diverse preghiere e alcuni trattamenti a base di erbe che soltanto gli sciamani conoscono.

©La Vuelta, Twitter

I fratelli Quintana sono cinque. Willinton, che di Nairo è più grande, lavora nell’esercito colombiano. Anche Nairo avrebbe tanto desiderato diventare un soldato, se non fosse riuscito nel ciclismo. Il padre vendeva verdure nei mercati locali, mentre la madre si occupava delle faccende e di immettere i suoi ragazzi sulla strada giusta: cattolica e affettuosa, ha fatto di tutto affinché i suoi figli potessero finire almeno le scuole superiori. Un giorno, il padre di Quintana rimase vittima di un incidente e i dottori gli dissero che l’unica soluzione per tirare avanti era amputargli la gamba ferita. L’uomo non li stette a sentire, non diede loro retta. Ebbe ragione lui: col tempo, la gamba guarì.

Sull’infanzia di Nairo Quintana – e, più in generale, sull’infanzia degli sportivi africani e sudamericani – sono state scritte e raccontate le storie più disparate. Inevitabilmente, alcune si sono rivelate infondate e a smentirle è stato lo stesso Quintana. Non è vero, ad esempio, che Quintana è nato povero in canna in un villaggio disperso nella giungla: Vereda La Concepción non sarà una città, ma a detta di Quintana c’è di peggio. E non è vero nemmeno che andava a scuola in bicicletta perché la sua famiglia non poteva permettersi il biglietto dell’autobus. «Molto semplicemente, eravamo convinti che l’autobus servisse ad altro. Non sentivamo il bisogno di prenderlo ogni mattina per andare a scuola», spiegò.

Fatto sta che ogni mattina Nairo Quintana usciva di casa – costruita dal padre – e con la sua bicicletta di terza o quarta mano percorreva i sedici chilometri che lo separavano da scuola. All’andata erano in discesa, al ritorno no: in diversi tratti, pare che la salita toccasse l’8%. I Quintana non erano né poveri né ricchi. Forse più poveri che ricchi, d’accordo, ma il modo per comprare al figlio una bicicletta da corsa lo trovarono. Il padre risparmiò quaranta dollari, la madre gli cucì quella che, in maniera molto approssimativa e generosa, poteva essere considerata una divisa e la sorella tolse qualcosa alla sua paga di bambinaia per permettergli d’avere qualche gomma di scorta.

©escarabajoscolombianos

Quintana si appassionò al ciclismo nel tragitto quotidiano da casa a scuola e da scuola a casa. Lungo la strada, gli capitava di incontrare altra gente che pedalava per muoversi. A volte, a partire da piccoli segnali impercettibili, partivano delle gare: una battuta, un affronto, un cambio di ritmo. Il giorno in cui Quintana batté tutti, disse alla sua famiglia di voler diventare un ciclista professionista. L’approccio fu terribile. Nel giro di un paio d’anni, Quintana rimase vittima di due brutti incidenti: prima venne investito da una macchina mentre andava a scuola e perse conoscenza; due anni più tardi, venne di nuovo colpito da un taxi e rimase in coma per cinque giorni. Ci vuole una volontà feroce per tornare a pedalare senza paura e senza ripensamenti: Quintana l’ebbe.

Sul finire dell’estate del 2010, Nairo Quintana si trova in Francia con la selezione colombiana per correre il Tour de l’Avenir, l’equivalente del Tour de France riservato agli Under 23. È un’edizione di assoluto livello: ci sono Phinney, Dowsett, Degenkolb, Landa, Kwiatkowski, Talansky, Bardet, Matthews, Kelderman, Dumoulin, Mezgec, Rowe, Ion Izagirre. I colombiani trovano ostruzionismo: piccoli, sconosciuti, olivastri e poco avvezzi alle dinamiche del gruppo, l’espressione più carina che viene loro rivolta è «fottuti indiani». La goccia che fa traboccare il vaso è il manubrio della bicicletta di Jarlinson Pantano preso a manate e pugni col chiaro intento di impaurirlo ed eliminarlo. Quintana non ci sta: il giorno dopo, scaltro e freddo, spinge uno dei prepotenti in un fosso. Da quel momento, nessuno osa prendere in giro i colombiani. Quintana vince le ultime due tappe e conquista il Tour de l’Avenir 2010. Un’altra volta, nel 2012, alla prima stagione con la Movistar, Quintana avrebbe tirato un cazzotto nella gola ad un passista che in una corsa in linea lo avrebbe messo in serio pericolo sovrastandolo col fisico.

Secondo Luis Fernando Saldarriaga, un tecnico sudamericano piuttosto apprezzato, Quintana è molto meno timido di quel che sembra. «Può darsi che la mia timidezza sia una maschera», dichiarò sibillino a Rouleur nel 2017. Fu Saldarriaga a insegnarglielo. Prima di partire per il Tour de l’Avenir del 2010, infatti, mise in guardia il suo pupillo: gli disse di rimanere nell’ombra, di far credere agli altri di non essere nessuno, uno dei tanti, uno silenzioso e anche un po’ strano; e poi, solo allora, avrebbe dovuto piazzare il colpo decisivo, quello del più forte che coglie alla sprovvista i suoi rivali. «Tuttavia», continuò Quintana nella stessa intervista concessa a Rouleur nel 2017, «credo che dentro di me ci sia qualcosa di speciale: un predatore, un mostro».

©Dacoucou, Wikimedia Commons

La scelta operata dalla Movistar nelle ultime settimane vale più di mille parole: nonostante Quintana corra per un’altra squadra, e nonostante gli ultimi due anni insieme abbiano vissuto anche qualche momento di tensione, Movistar non è assolutamente intenzionata a privarsi di Quintana per i suoi interessi in Sudamerica. Le due parti, infatti, continueranno a collaborare. Quintana, intanto, approfitta della sua notorietà per mettersi avanti: ha già lanciato la Gran Fondo Nairo Quintana e ad aprile, nella parte sud di Bogotá, aprirà il suo primo negozio di articoli ciclistici.

La superficie sarà di quattrocento metri quadrati e all’interno ci sarà un piccolo museo che ospiterà alcuni cimeli utili a ripercorrere la carriera del colombiano. «Si dice sempre che il ciclismo è lo sport dei poveri, ma non credo sia vero: il ciclismo è diventato uno sport carissimo», ha spiegato recentemente a El Tiempo. «Dell’attività si occuperà perlopiù mia moglie Paola, abile nella contabilità, ma anch’io voglio essere presente e mettere a disposizione la mia esperienza. Voglio che i clienti siano felici di venire nel mio negozio; devono fidarsi di me e di noi, delle nostre conoscenze. Vogliamo rendere accessibile il mercato ciclistico. E poi, mi piace interpretarlo anche come un segnale per tutti quei corridori ancora in attività: che non aspettino il ritiro per pensare al resto della loro vita».

In Europa, vuoi per convenienza e vuoi per superficialità, abbiamo raccontato per troppo tempo un Quintana che non esiste: cupo, remissivo, al limite della depressione. È proprio quello che ha dichiarato pochi giorni fa lo stesso Quintana. «In Francia e in Europa vengo descritto come una persona depressa e triste. Ho voluto invitare in Colombia alcuni membri della mia nuova squadra, l’Arkéa Samsic, per dimostrare loro che qui sto bene, che qui si sta bene e sappiamo anche come divertirci». Ci siamo appisolati sulle apparenze e sugli stereotipi, ci siamo affidati a questi nella speranza di non dover cambiare idea, di non dover farsene una nuova. Non abbiamo capito niente di Nairo Quintana, una persona che non può non rifiutare etichette di un certo tipo.

Pressioni

Quando si parla di Nairo Quintana, ci si dimentica troppo spesso del fardello che ha dovuto caricarsi sulle spalle a partire dal 2013: poter diventare il primo colombiano, dunque il primo sudamericano, a vincere il Tour de France. La Grande Boucle è sempre stata la corsa dei sogni per Nairo Quintana, esibendosi ora in un attacco coraggioso e ora in una prestazione pessima; d’altronde, non esistono mezze tinte sui palcoscenici più prestigiosi del mondo: o tutto o niente. Nella prima parte della sua carriera, quella in cui Quintana ha fatto vedere le cose migliori, ha dovuto scontrarsi col miglior Froome e col miglior Team Sky; proprio quando Froome e Sky hanno accennato un lieve declino, a Quintana è toccata la stessa sorte.

©Nairo Quintana, Twitter

La fluidità delle riflessioni di Greg LeMond a riguardo è indicativa: se nel 2013 Quintana era la risposta colombiana ad Eddy Merckx e «il talento più cristallino degli ultimi venticinque anni», nel 2019 l’americano si diceva sicuro del fatto che Quintana non avrebbe mai vinto il Tour de France. In più, in nome di una maggiore completezza, Quintana si è riscoperto meno efficace del solito in salita. Nel frattempo, mentre lui e Froome si contendevano un paio di edizioni del Tour de France, le altre squadre stavano svezzando i loro migliori talenti: infatti sarebbero arrivati Thomas, Bardet, Pinot, i fratelli Yates, Dumoulin, Roglič, Landa, Daniel Martin, Kruijswijk, Buchmann, Alaphilippe. Improvvisamente, Nairo Quintana aveva smesso d’essere il rivale più forte di Froome, l’unico in grado di batterlo.

Infine, è arrivato Bernal: il primo colombiano a vincere il Tour de France. Ha realizzato il sogno di un paese, di ogni corridore sudamericano – Quintana compreso. Eppure, secondo un sondaggio riportato da El País, nel quarto trimestre del 2019 Nairo Quintana era ancora la personalità più conosciuta del paese: il 99,2% degli intervistati ha dichiarato di conoscerlo. Più di Bernal, che in quei giorni aveva già vinto il Tour de France; più di Falcao e James Rodríguez, due dei calciatori più forti della storia del calcio colombiano; più di Urán, il pioniere della generazione d’oro del ciclismo colombiano. In Colombia, Quintana è ovunque: affisso sui muri, scritto sull’asfalto, rappresentato in alcuni murales sulle pareti esterne di molti edifici. È stato invitato più volte al palazzo presidenziale e James Rodríguez non riuscì a sorpassarlo in termini di popolarità nemmeno nel 2014, quando si trasferì al Real Madrid e segnò sei gol ai Mondiali brasiliani.

«Il sacrificio più grande? Perdere la libertà», dichiarava Quintana lo scorso anno a El Espectador. «Significa non avere una vita privata o quasi; significa non poter camminare per la strada senza essere riconosciuto, accerchiato, talvolta assalito. Però tutto passa in secondo piano quando vedo gli occhi e il sorriso di un bambino al settimo cielo per avermi conosciuto». Pare che in alcuni momenti della sua carriera, Nairo Quintana abbia avuto bisogno di una piccola scorta per potersi allenare in pace sulle strade colombiane. La scorta proprio a lui, ancora figlio del suo paese nonostante le sirene e le distrazioni europee. Chi gli sta vicino, assicura che non gli interessano né macchine sportive né vacanze in mete esotiche e ricorda che col primo stipendio “europeo” Quintana si sdebitò con la sua famiglia regalandole un elettrodomestico: una lavatrice.

©Nairo Quintana, Twitter

Va detto anche che la Movistar si è rivelata un gigante coi piedi d’argilla: tanto forte sulla carta quando modesta sulla strada, tanto motivata a parole quando disorganizzata nei fatti. Esserne stato il capitano in più edizioni del Tour de France non può non aver apportato ulteriori pressioni a Quintana: dalla squadra spagnola, infatti, ci si aspetta sempre molto. Ponendolo sullo stesso livello di Valverde e Landa, la dirigenza della Movistar non lo ha certamente aiutato, costringendolo ogni giorno a provare la sua superiorità sugli altri due: peccato che non ci fossero le condizioni per dimostrarlo, dato che Quintana aveva già accusato una flessione e ognuno si muoveva come meglio credeva. «L’idea dei tre capitani non mi piace», spiegava Quintana a Cyclingnews. «Però il boss è Unzué ed è lui che decide: è fermamente convinto che sia la miglior soluzione». La situazione è diventata insostenibile nel corso del Tour de France 2019: Valverde, trentanove anni, doveva essere l’ago della bilancia tra Quintana e Landa, i due capitani per la classifica generale, entrambi intenzionati a cambiare aria alla fine della stagione. La scelta migliore per tutti, Quintana compreso.

Una nuova famiglia

Era da tempo che tra le Professional non ve n’era una forte tanto quanto l’Arkéa Samsic. Da molti è stata ribattezzata come “la squadra dell’ultima chance”. Non è un’idea del tutto sbagliata; tuttavia, è lecito credere che possa diventare “la squadra della seconda chance”: la migliore, perché no?, non necessariamente l’ultima. A Barguil, all’Arkéa Samsic dal 2018, si sono aggiunti Bouhanni, McLay e Diego Rosa. E Quintana, ovviamente, che si è portato dietro il suo entourage, vale a dire Dayer, il fratello, e Anacona, il gregario più fidato. Nelle prime uscite stagionali, l’Arkéa Samsic ha brillato: Rosa ha brillato al debutto in Spagna e si è classificato terzo al Laigueglia; Bouhanni ha vinto una tappa al Tour de la Provence e una al Saudi Tour, arrivando secondo nella classifica generale.

Tuttavia, i successi più significativi sono quelli di Nairo Quintana. Ha conquistato il Tour du Var ipotecandolo nella tappa più dura, vinta in cima al Col d’Eze. Una settimana prima aveva fatto altrettanto al Tour de la Provence, chiudendo definitivamente la contesa per la classifica generale sul Mont Ventoux. Si arrivava allo Chalet Reynard e non in cima al Ventoux, ma poco importa: Quintana ha fatto registrare una prestazione incredibile. Ha attaccato a sette chilometri dall’arrivo, ha inflitto un minuto al secondo classificato – Lutsenko – e ha stabilito un nuovo record: dai piedi della salita fino allo Chalet Reynard, nessuno è mai salito più veloce di lui, nemmeno Pantani, Indurain, Armstrong, Froome o Contador. Arrivato sul traguardo con due minuti e dodici di ritardo, Pinot si è limitato a definire la prestazione di Quintana con un unico aggettivo: «imperiale».

©Galo Naranjo, Flickr

Emmanuel Hubert, il general manager dell’Arkéa Samsic, stravede per Quintana e lo ha definito uno dei grandissimi del gruppo. Quintana ha ricambiato l’affetto, rassicurando tutti sulla scelta fatta in estate: «strana», come la definì Carapaz, perché effettivamente è strano vedere Quintana in una Professional; ma molto intelligente, se è vero che avrà meno pressioni e un ambiente più familiare sul quale contare. Quintana ha sottolineato proprio questo aspetto. «È molto più di un team. È come se avessi trovato una seconda famiglia». In qualche modo gli ha fatto eco Maxime Bouet, il quale ha dichiarato che in quattro anni la squadra non era mai stata così forte, compatta e perfetta come nella tappa del Mont Ventoux conquistata da Quintana.

Per rilanciare la sua carriera, Quintana ha deciso di fare un passo indietro: scegliere una Professional, imbastire un calendario incentrato perlopiù sulle corse francesi, preparare con calma l’assalto al Tour de France. L’Arkéa Samsic ci sarà, avendo ottenuto una delle wild card, e Quintana nelle ultime stagioni si è dichiarato ancora convinto di avere la possibilità di vincere un Tour du France, quantomeno di salire sul podio. La vittoria di Bernal potrebbe averlo sgravato da un peso insopportabile: quello di essere il primo colombiano a vincere la Grande Boucle. Non che Nairo Quintana abbia mai avuto bisogno di vincere il Tour de France per passare alla storia del ciclismo e del Sudamerica.

 

 

Foto in evidenza: ©La Ruleta Deportiva, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.