Roger Kluge è un inno alla versatilità

Olimpiadi e le volate di Ewan: il 2020 di Kluge sarà intenso.

 

 

Il ciclismo è un animale strano. Nonostante risponda a una natura intrinsecamente singola (non c’è una palla, non ci sono punteggi complessivi e se le gambe bruciano nessuno verrà a darti il cambio), assume, di volta in volta, sfaccettature molto più simili a uno sport di squadra che non a una disciplina individuale.

Roger Kluge è uno degli esempi più lapalissiani di quanto le due ruote siano in realtà un pretesto per inscenare un’attività di gruppo, uno sforzo condiviso che necessita del contributo di tutti i componenti della squadra per raggiungere un risultato, qualsiasi esso sia. Se il ciclismo, almeno quello su strada, fosse uno sport individuale, Kluge non avrebbe un lavoro.

Tedesco di un metro e novantadue, classe 1986, Kluge esplode come la next big thing tedesca del ciclismo su pista, tanto che nel 2007 diventa campione nazionale nella corsa a punti e nel 2008, sempre nella corsa a punti, sfiora la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino, beffato dallo spagnolo Joan Llaneras. Fisico asciutto ma molto potente, Kluge è uno sprinter rinchiuso in un corpo da cronoman, e anche se le prove contro il tempo non sono il suo pane ci mette poco a capire che la sua carriera non può limitarsi alla pista.

©Ray Rogers, Flickr

Nel 2009 impressiona in campo nazionale, chiudendo al terzo posto la prova in linea dei campionati tedeschi e al quinto quella a cronometro. Tutto giusto, ma non è uno sprinter, non è un cronoman, non è un uomo da classiche; è veloce, certo, ma a quel livello sono tutti veloci. Perché Kluge, dunque, e non qualcun altro?

La risposta sta nel nome. La parola “kluge” in tedesco vuol dire furbo, intelligente, e il nativo di Eisenhüttenstadt risponde magnificamente alla traduzione del suo nome: Kluge è intelligente, è reattivo, ha una comprensione totale di quello che gli succede intorno e riesce a prendere le decisioni giuste prima degli altri. Kluge è perfetto per fare il pesce pilota.

Alterna la pista alla strada con estrema naturalezza, creandosi una routine funzionante (almeno per lui): nel 2010 diceva di prendersi tre o quattro pause all’anno di un paio di settimane, mentre i professionisti su strada di solito si prendono sei settimane di fila in inverno. La strada la utilizza soprattutto per aumentare la resistenza, per crescere sotto aspetti che, limitandosi alla pista, non potrebbe esplorare.

I velodromi, d’altro canto, rimangono il suo terreno di caccia prediletto. Spesso gareggia in coppia con Robert Bartko, olimpionico a Sidney 2000, l’ultimo grande totem del ciclismo su pista tedesco. Kluge impara tantissimo dal suo collega più esperto e i risultati non tardano ad arrivare: vince due volte la Sei Giorni di Amsterdam, vince la Sei Giorni di Berlino, in patria vince una volta l’Americana, una volta l’inseguimento a squadre e una volta l’inseguimento individuale. Questo fino al 2013, quando prova a testarsi come velocista su strada.

Vittorioso nella Sei Giorni di Berlino del 2013. ©DancingOnThePedals.net, Flickr

Il Team NetApp-Endura (ovvero la BORA-hansgrohe, ma prima delle tre esse: sponsor, soldi e Sagan) vuole metterlo al centro del suo progetto e provare a vedere se, a ventisei anni, Kluge è pronto per un ruolo da capitano in una Professional. L’esperimento va male, a tratti malissimo, anche perché il tedesco continua a tenersi impegnato su entrambi i fronti, ma se su strada si palesa tutta la sua inefficienza nelle volate, su pista continua a impressionare per costanza e rendimento, vincendo di nuovo la Sei Giorni di Berlino e il titolo nazionale nell’inseguimento a squadre.

La IAM Cycling lo toglie dall’impaccio di dover portare la croce sia su strada che su pista e lo riporta alla sua dimensione più congeniale: quella di gregario. Con più precisione, quella del pesce pilota.

Diventa un uomo importante sia per Pelucchi che per Haussler, i due uomini veloci della formazione svizzera; inoltre, aumenta la sua popolarità all’interno del gruppo: le altre squadre cominciano a notare quanto sia prezioso il lavoro di rifinitura portato avanti dal tedesco, quanto sia importante avere un corridore in grado di bilanciare le energie e che non arriva mai impreparato negli ultimi chilometri. Quelli della IAM sono anni dedicati principalmente alla strada, poiché lui stesso si rende conto di poter competere a quel livello e di aver bisogno di mettere resistenza nelle gambe per puntare a qualcosa di grande anche al chiuso.

Il 2015 è l’anno della consacrazione: in un Giro d’Italia con pochissime tappe per velocisti, Kluge si mette al servizio dei suoi capitani e per poco non centra il bersaglio grosso a Milano, nell’ultima tappa, chiudendo terzo. Il feeling con la corsa rosa si inizia a sentire.

Vittorioso a Cassano d’Adda al Giro d’Italia 2016. ©BICITV, Twitter

Poi è la volta del Giro della Polonia, dove Pelucchi vince due tappe battendo gente come Nizzolo, Kittel, Modolo, Ewan, tutti velocisti che ammirano profondamente il lavoro svolto da Kluge per mettere il velocista italiano nelle condizioni di eccellere. Intendiamoci: quel Pelucchi era uno sprinter di assoluto livello, ma per battere i signori di cui sopra serve costruire una volata perfetta, senza sbavature né tentennamenti, una volata che Kluge riesce sempre a portare dalla sua parte. Se ne accorge in particolar modo Caleb Ewan.

Passa un anno e arriva il primo (e finora unico) grande colpo targato Roger Kluge. È un Giro d’Italia in cui le tappe pianeggianti vanno tutte ai tedeschi – il che non sorprende, se la bandiera teutonica è portata da due mammasantissima della velocità come Kittel e Greipel. Non sorprende nemmeno troppo la vittoria di Arndt, figlia di una rosa di sprinter ridotta all’osso per la passerella finale a Torino.

A Cassano d’Adda, d’altro canto, il gruppo arriva compatto, ma nell’ultimo chilometro tenta l’assolo un redivivo Filippo Pozzato. Alcuni ci credono troppo, altri troppo poco, convinti che lo si andrà a riprendere. Chi ci crede nella giusta misura è Roger Kluge, il quale attende gli ultimi seicento metri per lanciare una rasoiata assolutamente incoerente con tutto ciò che si era visto del ciclista tedesco fino a quel momento. Pozzato si arrende, il gruppo rinviene troppo tardi. Kluge si gira un paio di volte, già con le braccia alzate, come se nemmeno lui fosse pienamente consapevole di aver fatto una cosa da favoloso finisseur.

Ewan in primo piano, Kluge in secondo piano. ©fausto, Twitter

L’intero panorama ciclistico mondiale si accorge di lui. Il 2016 continua a regalargli piazzamenti e prestazioni di spessore: è in una condizione strepitosa, testimoniata anche dalla medaglia d’argento ottenuta ai mondiali su pista, nell’Omnium, dietro al solo Gaviria.

Il percorso della IAM Cycling è simile a quello di tante altre formazioni che non fanno parte del ristretto gruppo delle migliori: nasce, cresce, muore. Nonostante la licenza World Tour, la formazione svizzera non trova uno sponsor disposto a sostenerla e quindi tira giù la saracinesca.

Paradossalmente, è la cosa migliore che possa capitare a Kluge: svariate formazioni World Tour hanno messo gli occhi su di lui. A spuntarla è la Orica-Scott su indicazione di Caleb Ewan, rimasto impressionato dalla duttilità e dall’intelligenza ciclista mostrata dal tedesco.

Con Ewan la sinergia è immediata. I due si parlano spesso prima della gara, imparano a conoscersi in bicicletta; i gesti dell’uno, le risposte dell’altro, come questa: “La fuori è rumoroso e chiassoso. Per sentire la persona dietro di te, o addirittura due posizioni dietro di te, lui deve urlare, e poi quello davanti urlare a me, e io devo reagire. È fondamentale avere il giusto timing”. In situazioni caotiche e nevrasteniche come le volate, avere un compagno di squadra capace di entrarti sottopelle senza la necessità di parlare, capace di fare il massimo con il minimo input, assume un’importanza capitale.

Il feeling con Ewan è eccezionale. Lo sprinter in formato tascabile si trova alla perfezione con il gigante tedesco tanto che nel 2018, quando Ewan firma con la Lotto, non ha dubbi su chi richiedere come primo rinforzo per le sue volate. Roger Kluge ha saputo costruirsi una carriera sull’intelligenza e l’acume ciclistico, e quello che ha imparato sulla strada non ha tardato a mostrarsi, moltiplicato per cento, in pista.

Nel 2018 diventa campione del mondo nell’Americana insieme a Theo Reinhardt. ©Nicola, Wikipedia

Stringe un sodalizio con Theo Reinhardt, corridore molto meno esplosivo di lui e lontanissimo dai risultati ottenuti da Kluge. Prima del 2018 non aveva vinto nessuna gara di rilievo, ma evidentemente la capacità che ha Kluge di scegliere le persone con cui lavorare va di pari passo con la sua capacità nel mettersi a disposizione degli altri.

Nel 2018 diventano campioni del mondo nell’Americana per poi bissare il titolo mondiale nel 2019, anno in cui si portano a casa anche la Sei Giorni di Berlino, scolpendo a caratteri cubitali la loro eredità sul ciclismo su pista tedesco. L’Americana è una disciplina di coppia, che a chi scrive ricorda vagamente il pattinaggio artistico: le scelte, l’intesa, il contatto fisico tra compagni, è praticamente una logorante danza lunga duecento giri in cui a ogni cambio di ritmo ci sei tu, c’è il tuo compagno, e uno dei due sta meno bene dell’altro, e bisogna andare entrambi al traguardo, e ci si dà continuamente il cambio. Alle Olimpiadi di Tokyo 2020 l’Americana tornerà a essere una disciplina olimpica (dopo aver saltato Londra e Rio), e c’è da scommettere che Kluge avrà già segnato la data con un cerchietto rosso.

Nel momento storico dei Bernal, dei van der Poel e degli Evenepoel, è quasi rassicurante vedere un ciclista raggiungere il suo picco passati i trent’anni, dopo un lungo e costante apprendistato che lo ha portato a diventare un elemento fondamentale su strada e un candidato a una medaglia olimpica su pista. Per sopravvivere alle scosse telluriche scatenate da questi enfant terrible, bisogna essere intelligenti, navigati, furbi: in una parola, kluge.

 

 

Foto in evidenza: ©Cycling Weekly, Twitter